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La sensibilità nervosa delle piante

Da La Scienza per Tutti, Anno XXI – N. 8 – 15 aprile 1914

“Posseggono le piante un sistema nervoso? Prima di rispondere a una simile domanda, è bene formarci un’idea esatta sulla funzione dei nervi, consistente nel trasmettere le eccitazioni da un punto all’altro, per mezzo di certe fibre conduttrici. In questo modo, l’organismo entra in rapporto con l’ambiente che lo circonda: ad esempio, lo stimolo che dall’esterno colpisce la retina, produce un impulso nervoso che giunge al cervello lungo il nervo ottico, e genera nel cervello stesso un altro impulso di reazione alla sensazione luminosa. Invece di terminare al cervello, il nervo può condurre ad un muscolo contrattile; in tal caso l’impulso si tradurrà in un movimento.

“Fig. 1. – Eccitamento dei loombi di una rana e delle foglie della Mimosa: a sinistra, prima dello stimolo; a destra, dopo lo stimolo.”

In fisiologia si dimostrano generalmente le caratteristiche degli impulsi nervosi, servendosi d’un organo isolato, contenente dei nervi e dei muscoli; sopratutto si esperimenta sul nervo sciatico della rana, disseccato assieme ai muscoli lombari, che possono riacquistare una specie di vita artificiale e sensibile durante parecchie ore. Infatti, se un punto qualsiasi del nervo è stimolato con una scossa meccanica od elettrica, l’eccitazione si propaga subito sino al muscolo, e si vede quest’ultimo rispondere, contraendosi. Ora, questo fatto non sembra molto dissimile da quello che si verifica in certe piante sensitive, come la cosidetta Mimosa; anche qui uno stimolo applicato al fusto si trasmette agli organi mobili, generando un cambiamento nella loro posizione. Il punto della Mimosa in cui la sensazione si rivela, è dove il gambo delle foglie si riattacca al fusto: la nostra fig. 1 dimostra appunto, nelle sue due parti a (stato di riposo) e b (stato di eccitamento), come il medesimo stimolo applicato ai punti N e N”, produca nella rana una contrazione negli arti posteriori, e nella Mimosa l’abbassamento delle foglie.
Tuttavia, non è facile andare oltre questa analogia di effetti esterni, che non ci dice nulla sulle sue cause intrinseche. Il tessuto conduttore della pianta è troppo immedesimato al suo fusto, perchè sia possibile isolarlo: solo dalla felce si potè disseccare qualche tessuto fibroso che ha proprietà conduttive. Inoltre, uno dei più stimati fisiologisti odierni, Pfeffer, ha creduto stabilire che nelle piante non si riscontra nulla di simile al sistema nervoso, almeno, nelle forme comuni agli animali. La sensibilità della Mimosa sarebbe dovuta ad un’azione puramente idro-meccanica, e non ad una vera e propria trasmissione a distanza.

“Figg. 2 e 3. – Trasmissione idro-meccanica : propulsione d’uno stantuffo scorrente in un tubo di gomma contenente acqua, ottenendo premendo sul tubo.”

Anzi, questa ipotesi è già servita a spiegare molti fenomeni, proprii alle piante sensitive. Si suppone che il loro tessuto agisca come un tubo di gomma pieno d’acqua, in modo che una pressione esercitata sul tronco si propaga, pel movimento stesso del liquido, agli organi mobili. La trasmissione dell’impulso nervoso è invece profondamente diversa, consistendo nel passaggio da una molecola all’altra del movimento prodotto dalla sensazione. I nervi sono infatti considerati come composti di cellule collegate e capaci di una grande mobilità: lo stimolo iniziale non è altro che una condizione di squilibrio generata nella cellula che lo riceve, e che tende a riacquistare l’equilibrio, riversando in certo modo il disturbo su quella vicina. La maggiore e minore mobilità e la sensibilità che ne deriva, spiegano i fenomeni della vita nervosa animale, e a loro volta ne dipendono: nello stato di piena vitalità ed in circostanze favorevoli, la mobilità delle cellule raggiunge un massimo, che non può superarsi se non con stimoli eccessivi o per via di sensibilità morbose; nei casi di depressione, di rilassamento, o peggio, di paralisi, la mobilità diminuisce, e può ridursi a zero, producendo la morte. Così una temperatura moderata accelera il propagarsi ed aumenta l’intensità delle impressioni; il freddo e la fatica ottengono l’effetto contrario; e gli anestetici sospendono addirittura ogni sensibilità — quando non sono veleni che la distruggono per sempre assieme al tessuto conduttore.
Si comprende ora l’enorme differenza che intercede fra tutto ciò e il semplice movimento dell’acqua in un tubo; movimento che può variare secondo le posizioni e la forma del recipiente — (le quali sarebbero anch’esse immutabili nelle piante) —; ma che è quasi insensibile agli sbalzi della temperatura ed alle circostanze esterne in generale; che si mantiene qualunque sia il liquido contenuto; e sopratutto che non ha coscienza nè potere di frenarsi o comunque reagire su se stesso, od ubbidire ad impulsi volitivi. Si può dunque riassumere in teorema che quando i cambiamenti fisiologici influenzano la trasmissione degli stimoli, essa ha un carattere nervoso; in caso contrario, ha un carattere puramente meccanico.

“Fig. 4. – Disposizione per esperimentare la durata del periodo latente e la velocità di trasmissione, applicando la corrente in B od A, più o meno vicine al bulbo P, o variando la conduttività con l’agente esterno G.”

Non tutti però i sostenitori della sensibilità nervosa delle piante accettarono le conclusioni sopra citate del Pfeffer; anzi, il criterio di distinzione or ora esposto fu adottato per nuovi esperimenti. Si dimostrò da una parte che il cloroformio è impotente ad impedire la propagazione dello stimolo nella Mimosa, arguendosi che non si tratta di nervi od altri sistemi equiparabili; dall’altra parte si oppose che l’inazione del cloroformio era dovuta alla sua mancata penetrazione nell’interno, invece di agire inutilmente sulla superficie. Si provò allora con dodici altri differenti metodi, fra cui i due principali parvero rivelare un’analogia fra gli animali e le piante, dando nuovi aspetti al controverso problema. Le ricerche furono appuntate, come sempre, sulla Mimosa, allo scopo di verificare: 1.° se i cambiamenti fisiologici alterano la rapidità nella trasmissione dell’impulso; 2.° se l’impulso può essere arrestato o indebolito coi mezzi usati a tal fine per gli animali. È ovvio che, dimostrato questo, la sensibilità nervosa di certe piante non presenterebbe più alcun dubbio.

“Fig. 5. Periodo latente in due esperienze successive a 100 vibrazioni per secondo.”

Le esperienze si risolvettero così in un’accurata misurazione della rapidità con cui gli stimoli si trasmettono e rivelano una sensazione, variando le condizioni fisiologiche e fisiche del soggetto e dell’ambiente. Un pezzo di tessuto vegetale, come si vede nella fig. 4, è incastrato, nel suo punto centrale C, in una scatola in cui si può variare la temperatura o introdurre un anestetico, Per ottenere uno stimolo istantaneo, si usa una scossa elettrica, condotta dai due fili situati al punto B, vicino all’attacco del ramoscello sul fusto, oppure da due altri fili situati in A, più lontano. Un minimo di tempo sarà sempre necessario perchè lo stimolo metta in moto gli organi interni, qualunque sia la loro natura, e perchè si propaghi all’organo mobile; un altro margine di tempo è necessario perchè l’organo possa percepirlo e rispondere. Questo ultimo intervallo fu chiamato «periodo latente»; e siccome poi l’intervallo totale differisce secondo che la scossa è applicata in A o in B, cioè più lontano o più vicino all’organo mobile (il bulbo), si arriva a determinare la velocità con cui si trasmette nella pianta. Basterà dopo applicare l’agente esterno C — fisico o fisiologico — per verificare le eventuali variazioni.

“Fig. 6. Periodo latente a 200 vibrazioni al secondo.”

Senonchè queste variazioni devono essere così minime, data la torpidezza della vita vegetale, che difficilmente l’uomo potrebbe constatarle, se non per mezzo di strumenti delicatissimi capaci sia di misurare, che di lasciare un’impronta grafica dei risultati. Il mezzo più semplice e che prima si presenta, è quello di attaccare con un filo una foglia di Mimosa ad una leva V (fig. 8) che porta ad angolo retto un’asticciuola W, con la punta curvata e rivolta verso una lastra mobile affumicata di vetro G, sulla quale si posa ad intervalli regolati da un movimento d’orologeria.

“Fig. 7. Influenza del calore sulla velocità.”

Quando la punta raggiunge sulla lastra la posizione a, indicata da una freccia nella nostra figura, si stabilisce, mediante qualche disposizione accessoria, un contatto elettrico momentaneo fra le due aste metalliche R e R’; in modo che la corrente prodotta dalla pila E, e circolante nel rocchetto interno P, ne genera un’altra di maggior tensione in quello esterno S, che lancia una scossa nel punto A del gambo della foglia. Dopo un certo periodo, si vede questo cadere: ma durante l’intervallo, la punta traccia una linea punteggiata ab. Quando poi la caduta del gambo abbassa la leva V, la direzione della linea si sposta, ed assume quella di bc; ma intanto, si è fissato il tempo occupato dalla propagazione dello stimolo nel gambo dal punto A all’attacco B, più il periodo latente necessario perchè l’organo mobile percepisca lo stimolo e vi risponda. Sottratto quest’ultimo, (dopo averlo trovato come nella fig. 4, applicando la scossa direttamente in B), e conoscendo quante volte la bacchetta W si posa sulla lastra per ogni secondo, è facile trovare la velocità della trasmissione.

“Fig. 8. – Schema del registratore elettrico con quadro mobile pel tracciamento automatico del diagramma.”

Naturalmente, data la piccola forza sviluppata dalla Mimosa nei suoi movimenti sensitivi, è indispensabile, per non incorrere in errori enormi o non ottenere alcun risultato, costruire l’apparecchio in modo da presentare una minima resistenza alle segnalazioni. Ma siccome ciò è difficile, essendo abbastanza complicato, si ricorre ad un altro sistema, fondato sul principio della risonanza delle onde sonore. È noto infatti che se due strumenti a corda sono perfettamente intonati insieme, ogni nota tratta dall’uno si ripercuote e riproduce nell’altro, grazie alle cosidette «vibrazioni di simpatia».

“Fig. 9. – Velocità di trasmissione a 10 punti per secondo, in condizioni normali.”

Si potrebbe ora intonare l’asticciuola elastica V (fig. 14) destinata a scrivere sul piano mobile G su cui posa normalmente, con la corda G, in guisa da generare un identico numero di vibrazioni per secondo. Se la corda vibra, la punta non rimarrà in continuo contatto con la lastra di vetro, ma traccerà una linea interrotta. Per intonarla, basta stabilire conveniente la lunghezza della bacchetta V, dall’estremo fisso a quello libero: allora, se la linguetta produce cento vibrazioni al secondo, l’intervallo fra l’uno e l’altro punto scritto sul quadro, sarà d’un centesimo di secondo. In questo modo, non solo si evitano i disturbi dell’attrito che può essere considerevole, ma il registratore indica il tempo direttamente: sempre supponendo che il quadro G si muova dall’alto in basso, ad una velocità fissata, come del resto anche nell’apparecchio precedente.
Nei diagrammi così ottenuti, e riprodotti nelle figure 5, 6, 7, 9, 10, 11 e 12, il momento dell’impulso è segnato da una sbarra verticale. Si verifica che il periodo latente è brevissimo: corrisponde nel primo diagramma (fig. 5) a 10,9 spazi d’un centesimo di secondo l’uno: è quindi di secondi 0,109.
Le due linee rappresentano due esperienze consecutive, le quali diedero due risultati meravigliosi per la loro identità. Con un soggetto più sensitivo, e intonando il registratore a 200 vibrazioni invece di 100, si ebbe nel secondo diagramma (fig. 6) un periodo latente rappresentato da punti 14, 5 distanti fra loro secondi 0,005, cioè un totale di secondi 0,0725. Come si vede, dividendo in decimi lo spazio fra un punto e l’altro, vi è qui il mezzo, oltre tutto il resto, di misurare i millesimi di secondo!

“Fig. 10. – Influenza del freddo sulla velocità.”

La velocità di trasmissione è registrata nel diagramma di cui alla fig. 9 ove i punti successivi sono separati da soltanto un decimo di secondo, per ridurre proporzionalmente la lunghezza della linea dovuta al periodo latente: infatti la linea superiore, ottenuta applicando direttamente lo stimolo all’organo sensibile, diverge subito al secondo punto. Le due linee inferiori rappresentano una distanza di 30 millimetri lungo il gambo della foglia, percorsa in secondi 1,5; la velocità è dunque di 20 millimetri per secondo. Essa è minore di quella manifestata dagli animali superiori a sistema nervoso perfezionato; ma è maggiore di quella degli animali inferiori, che hanno organi rudimentali di senso e di trasmissione. La Mimosa sarebbe dunque una media; quanto alla durata del periodo latente, essa può discendere in certi soggetti vegetali sensitivi ad appena sei volte quella di una rana in piena vitalità, valutata 0,01.

“Fig. 11.”

Gli esperimenti più interessanti furono però quelli che riguardavano la controversia fra la spiegazione nervosa e l’ipotesi meccanica della sensibilità. Ad esempio, la temperatura ha una indiscutibile influenza sui nervi, mentre non ne ha sul movimento dei liquidi — entro i limiti, naturalmente, del gelo e dell’ebollizione. Orbene, il diagramma di cui alla fig. 7 dà la prova decisiva di tale influenza sulla rapidità di trasmissione, anche per leggeri sbalzi quasi inavvertibili all’uomo: le tre linee corrispondono, dall’alto in basso, a 31, a 28 e 22 gradi, mantenendo eguale la distanza. La velocità è più che raddoppiata per un aumento di 9 gradi. La controprova si ottiene invertendo l’esperimento, e ritardando la velocità col freddo: nella fig. 10, la linea N. 1 fu tracciata in condizioni normali; quella N. 2, mediante un leggero raffreddamento; quella N. 3, applicando il ghiaccio sul gambo. La linea superiore (4) indica il periodo latente, soppressa la distanza mantenuta per le altre.

“Fig. 12. – Annientamento della sensibilità col cianuro di potassio.”

Anche l’elettricità si comporta come sui nervi in genere.
Se si fa passare una corrente continua in un tratto di nervo posto fra il punto ricevitore dello stimolo e il luogo ove la sensazione si manifesta, la sensibilità rimane interrotta completamente: togliendo la corrente, anche l’arresto scompare.
Nella Mimosa si riproduce esattamente il fenomeno nella fig. 11, i punti B B, indicano i momenti di interruzione prodotti dall’elettricità; gli altri tre, i momenti in cui l’interruzione elettrica fu soppressa.

“Fig. 13 – Schema del registratore a risonanza con accessorî.”

Infine, la sensibilità delle piante può essere annientata dai veleni, sempre come quella degli animali. Abbiamo già ricordato il difetto delle esperienze del Pfeffer: il cloroformio, applicato alla superficie esterna dei tessuti, svapora immediatamente, e non esercita nessuna azione all’interno. Usando un gambo sottile e quindi più sensibile, ed assogettandolo ad un potente veleno non volatile, in modo che la piccola parte assorbita fosse sufficiente per attaccare i tessuti interni, si ebbero risultati assolutamente decisivi. Con una soluzione di solfato di rame, la conduttività fu arrestata dopo venti minuti; con una di cianuro potassico, dopo 5 minuti. Ciò è visibile nell’ultimo diagramma (fig. 12): la linea N. 1 rappresenta la condizione normale, e quella N. 4 il periodo latente; la linea N. 2 indica che l’impulso non si è affatto trasmesso, ed il registratore continua a segnare sul quadro indefinitamente, senza spostare la direzione del tracciato; infine, la linea N. 3 rivela la persistenza dell’insensibilità anche con un impulso cinque volte maggiore.

“Fig. 14. – Parte superiore del registratore a risonanza.”

Sembra dunque provato che certe piante posseggono delle funzioni e delle capacità simili a quelle animali, oltre quelle generalmente ammesse, come la produzione di pigmenti e la respirazione mediante le foglie. Se ora a tali funzioni corrispondano organi suscettibili di essere paragonati, è difficile a dirsi: è facile, anzi, che il loro sistema nervoso, quando esiste, sia radicalmente diverso da quello di una rana; ed è certo che, in qualunque modo, le cellule di cui è composto hanno la caratteristica ben nota di tutti i vegetali.
Prot. J. C. BOSE.”

Nuovi sistemi per misurare le nubi

Da La Scienza per Tutti, Anno XIX – N. 93 – 15 dicembre 1912

“Presso parecchi Osservatorî meteorologici il movimento delle nubi è misurato per mezzo del «nephoscopio» di Fineman.
Lo strumento consta di una bussola la cui cassa è coperta con uno specchio nero, attorno al quale è disposto un telaio circolare metallico mobile.
Una piccola apertura nello specchio permette all’osservatore di vedere l’ago della
bussola sottostante, e sulla superficie dello specchio sono incisi tre circoli concentrici e quattro diametri, uno dei quali passa attraverso il centro della piccola apertura suddetta. Lo specchio costituisce un quadrante, i suoi raggi corrispondendo ai punti cardinali. Sul telaio mobile che circonda lo specchio è fissata una mira verticale graduata in millimetri, la quale può essere mossa in su e in giù per mezzo di una vite. L’intero apparecchio è montato su di un tre piedi provvisto di viti a scopo livellatore.
Per eseguire un’ osservazione, lo specchio è disposto orizzontalmente per mezzo delle viti ed è orientato col meridiano, movendo l’intero apparecchio fino a che si veda attraverso l’apertura l’ago della bussola in corrispondenza alla linea nord-sud dello specchio, tenendo conto della tolleranza per la declinazione magnetica.
L’ osservatore si colloca in modo di vedere l’immagine di una data parte di una nube al centro dello specchio; si aggiusta la mira verticale, movendola in su o in giù e girandola intorno allo specchio, fino a che la sua asta venga ad essere riflessa al centro dello specchio.
Siccome la immagine della nube si muove attraverso la circonferenza dello specchio, l’osservatore muove la sua testa in modo da mantenere l’asta della mira e l’immagine della nube coincidenti. Il raggio lungo il quale la immagine si muove, indica la direzione del movimento della nube, e il tempo impiegato pel passaggio da un circolo a quello vicino, la sua velocità relativa, che può essere ridotta a certe unità arbitrarie.

“Fig. 1. – Il «Pettine nephoscope» di Besson.
Per mezzo di due corde attaccate sull’asse verticale l’osservatore gira il pettine fino a che si disponga nella direzione nella quale la nube viaggia. Un quadrante alla base dell’asse indica la direzione del movimento della nube.”

Questo strumento pertanto, non è di facile uso, e dà solo misurazioni approssimativamente precise.
Tenuto conto di ciò, il signor Louis Besson, l’abile direttore dell’Osservatorio di Montsouris, inventò il suo «pettine nepho-scope» (fig. 1), all’intento di ottenere una più accurata determinazione della direzione e della velocità del movimento delle nubi.
Tale apparecchio è composto di una sbarra orizzontale alla quale sono applicati, a guisa di denti, delle piccole aste verticali equidistanti fra di loro, montata su di un palo verticale che può girare sul suo asse.
Quando si deve eseguire un’osservazione, l’ osservatore si colloca in modo che la piccola asta verticale sia proiettata sulla parte scelta di una nube. Allora senza muoversi, per mezzo di due corde, egli fa girare il pettine in modo che si veda la nube seguire la linea delle asticciuole verticali. Un circolo graduato che gira col palo verticale dà la direzione del movimento della nube ed è letto coll’aiuto di una mira fissa. Una volta orientato l’ apparecchio, l’osservatore può determinare la velocità relativa della nube, notando il tempo impiegato da questa per passare da un’asticciuola all’altra.
Se lo strumento è a un livello dal suolo al quale l’occhio dell’osservatore rimane sempre alla medesima altezza, e se la distanza fra le due successive aste è uguale a un decimo dell’altezza loro sul livello dell’occhio dell’osservatore stesso, occorre soltanto moltiplicare per dieci il tempo impiegato dalla nube per passare da un’asticciuola all’altra, per determinare il tempo impiegato dalla nube medesima per percorrere una distanza orizzontale eguale alla sua altitudine.
Il signor Besson ha pure esumato un vecchio metodo di Bravais per misurare l’altezza delle nubi. L’apparecchio in questo caso, consta di un disco di vetro a superficie parallele, montato sopra un circolo verticale graduato, indicante il suo angolo d’inclinazione.
Uno strato d’acqua (fig. 3) situato ad un livello basso, serve come uno specchio per riflettere la nube, ed è con-tenuto in un serbatoio di cemento tinto in nero, circondato da una siepe di bosso; tale strato non deve essere alto più di un centimetro, affinchè il vento non possa turbare il livello della sua superficie.

“Fig. 2 – Disco di vetro e circolo verticale.”

L’osservatore, dopo aver montato il disco di vetro sull’asse orizzontale di un teodolite (fig. 2) collocato sul davanzale di una finestra a 9 o 12 metri sopra il livello del suolo, applica il suo occhio vicino allo stesso, e regola la sua inclinazione in modo che l’immagine della nube riflessa dal disco e dallo strato d’acqua, abbia a coincidere. Allora, sulla scorta di una curva tracciata su un foglio di carta quadrettata, egli legge l’altezza della nube, corrispondente all’angolo osservato sul disco di vetro.
La curva è determinata per mezzo di semplici calcoli trigonometrici.
All’Osservatorio di Montsouris, il grado di nuvolosità, cioè il quantitativo totale di cielo coperto dalle nubi in un dato momento, è determinato per mezzo del nephometer (fig. 4) pure immaginato dal dottor Besson. Questo è composto di uno specchio di vetro convesso, un segmento di una sfera, del diametro di circa 30 centimetri, nel quale si vede riflessa ia vòlta celeste divisa in dieci sezioni uguali, per mezzo di linee incise nel vetro stesso.

“Fig. 3 – Strto d’acqua per riflettere l’immagine di una nube.”

Come si vede nell’illustrazione, il meteorologo esercita la sta opera d’osservazione attraverso un mirino fissato in una posizione stabile rispetto allo specchio, che solo gira liberamente su un asse verticale. L’osservatore la cui immagine è riflessa dalle sezioni 8, 9 e 10, nota il grado di nuvolosità nelle sezioni segnate dal 1 al 7.
La nuvolosità di ogni sezione è stimata su una scala da zero a 10; lo zero indica il sereno, il 10 il cielo interamente coperto.

“Fig. 4 – Il «Nephometer» di Besson.
Nuovo istrumento per misurare la nuvolosità del cielo.”

Egli ora gira lo specchio e il mirino — 180 gradi — e osserva la nuvolosità delle sezioni 7, 5 e 2 le quali rappresentano le regioni del cielo, che nella prima osservazione corrispondevano alle sezioni 8, 9 e 10.”

Automobili smontabili e riducibili

Da La Scienza per Tutti, Anno XXIV – N. 17 – 1 settembre 1917

La vettura automobile è un mirabile mezzo di trasporto; ma è innegabile che, quando dev’essere trasportata a sua volta, specie per ferrovia, costituisce un notevole ingombro, nel senso che lo spazio occupato è molto grande rispetto al peso del veicolo: le comodità che lo rendono prezioso nel primo caso, sono altrettanti inconvenienti nel secondo. Anzi, nello stesso uso normale pel trasporto di persone, le comodità di comfort, di spazio e di lusso rappresentano uno spreco ed una maggior resistenza alla trazione ogni qual volta, per il numero dei passeggeri o per altre cause, esse non vengono utilizzate completamente.
L’automobile a carrozzeria smontabile o trasformabile è dunque un quesito tecnico che da tempo sta in mente ai costruttori; i quali non è a dire che abbiano trascurato di far tentativi, se pure non sempre con successo.
Eccone ora due, abbastanza diversi, che — originari uno del Sud Africa ed uno della Francia —denotano come il problema sia ovunque presente.
Il primo adotta una misura veramente radicale: dividere la carrozzeria in pezzi distinti, mantenuti a posto fra loro e con la châssis da incastri reciproci e da semplici viti rimovibili o assicurabili a volontà. Le prime due figure (in alto) descrivono meglio di qualsiasi parola che cosa sia l’automobile in discorso: noteremo soltanto che i pezzi sono ridotti al minor numero possibile, isolando i fianchi per ogni posto, facendo i sedili ripiegabili sul loro sostegno, come la parte posteriore della car rozzeria può ripiegare i fianchi sul fondo. Si ottengono così, una volta smontata la vettura, dei pezzi appiattiti, di dimensioni pressochè eguali, che possono essere imballati in una cassa apposita o tenuti assieme dagli stessi tiranti articolati che mantengono a posto la vettura in istato normale. Anche i lungheroni dello châssis, formati di due parti scorrevoli l’una sull’altra, possono venire accorciati, avvicinando le ruote e montando nel giunto l’albero di trasmissione : se poi questa è a catena, l’operazione riesce ancor più facile. L’essenziale è che il telaio col motore e la carrozzeria vengono ridotti, separatamente, in un volume che per la prima è di appena m. 1,50×1,80×0,65, con un risparmio di tre quarti nello spazio occupato: il rimontaggio della vettura non richiede che un’ora di lavoro per due persone.
La smontabilità della carrozzeria implica la risoluzione del problema di adattare il numero dei posti a quello dei passeggeri, sopprimendo le parti inutilizzate della vettura, diminuendone la lunghezza e (lasciando a casa i pezzi relativi) anche il peso, e con essi la resistenza dell’aria e sulla strada alla corsa. Il telaio, in tal caso, rimane immutato, ma lo stesso scopo è raggiunto pure da un altro tipo di vettura — lanciata a Parigi — senza nemmeno bisogno di smontare veramente la carrozzeria, che del resto non vi si presterebbe (v. le figure in basso della pagina).
La riduzione dei posti e l’accorciamento della parte superiore del veicolo sono qui ottenuti mediante la parte posteriore, la quale, a forma di quarto di circolo all’esterno, è girevole attorno ad una cerniera situata al termine inferiore della curva. Perciò questa può presentarsi tanto rivolta verso il basso come verso l’alto: nel secondo caso, la vettura rimane accorciata di tutto il raggio del quarto di circolo. Due panelli ai fianchi sono allora rimossi: una costruzione a tetto e schienale, pur essa montata a cerniera, rimane nella posizione solita, ma avanza verso il motore quando la carrozzeria sì accorcia, e va a congiungersi col vetro di riparo per il conduttore. In tal modo, la vettura, che prima era capace di quattro e persino di sei passeggeri, con carattere di automobile per viaggio e diporto, diventa un veicolo da corsa, per due persone soltanto, riparate a sufficienza.