Una città italiana in Cina (1912)

Da La Lettura, Anno XII, N. 5, maggio 1912.
Di Vico Mantegazza.

” ■ L’on. San Giuliano ha presentato al Parlamento una leggina, come diceva il Crispi, per dare un assetto definitivo alla nostra concessione a Tien-tsin; concessione che potrebbe essere considerata come una minuscola colonia. Credo che non poche persone rimarranno sorprese nell’apprendere come esista laggiù nell’Estremo Oriente e a poca distanza da Pechino — circa tre ore e mezzo di ferrovia — un piccolo possedimento italiano: una vera cittadina della quale è stato a suo tempo tracciato il piano regolatore e che potrà prendere col tempo un certo sviluppo. Se abbiamo un torto, è certamente quello di avere aspettato tanto ad occuparcene, poiché, se vi si fosse pensato prima, forse, adesso, la nostra concessione di Tien-tsin sarebbe qualche cosa di più di una piccola città in embrione.

“I primi lavori di sterro, poco dopo la presa di possesso.”

■ Queste concessioni, o settlements secondo il vocabolo inglese, che le nazioni europee hanno in parecchie città della Cina, datano dalla famosa guerra mossa all’Impero dei Celesti dall’Inghilterra. Quando le armi vittoriose della Regina Vittoria forzarono la Cina a chiedere la pace, il governo di Londra, com’è noto, impose a quello di Pechino di aprire un certo numero di porti al traffico. Per quanto fosse facile intuire che costretti con la forza a permettere il traffico ai diavoli rossi — come i cinesi chiamano gli stranieri — questi non avrebbero avuto un’accoglienza entusiastica, i plenipotenziari britannici non pensarono a stabilire dove e in che modo i negozianti stranieri avrebbero potuto costruire le loro abitazioni o gli edifici per i loro uffici, magazzini, ecc. Sembrò naturale si costruissero dove tornava più comodo. Senonché dovettero accorgersi ben presto che si trattava di un grave problema, del quale la soluzione era tutt’altro che facile. Prima di tutto, malgrado la venalità del cinese, non sempre i proprietari volevano vendere, neppure ai prezzi elevati offerti loro, le case o i terreni. A Scianghai, la città nella quale questa ostilità contro gli stranieri pareva meno forte, un certo numero di acquisti furono fatti rapidamente. Però, anche a Scianghai, la resistenza fu tutt’altro che lieve. Una vecchia ottuagenaria, pregata dalle autorità cinesi di affittare o vendere una zona di terreno a negozianti europei, non seppe frenare l’ira per una proposta considerata addirittura come ignominiosa… e sputò in faccia al funzionario che insisteva per persuaderla. A Canton la popolazione si oppose risolutamente a qualsiasi vendita.
■ Per evitare dolorosi incidenti, per soddisfare le giuste esigenze degli stranieri, e, nel tempo stesso, rispettare le suscettibilità delle popolazioni, il governo cinese concesse agli stranieri delle zone di territorio fuori delle città sulle quali, come a Scianghai, sono sorte delle vere città europee, che, pian piano, hanno finito per avere una speciale amministrazione, e per diventare delle città nelle città, con tutti i diritti inerenti alla extra-territorialità. Sono, come dicevo, in piccolissime proporzioni, delle vere e proprie colonie.
■ È per l’appunto a Scianghai che tali curiose istituzioni hanno preso, da tempo, un grande sviluppo. Vicino al settlement francese, vi è quello internazionale che ha una speciale e caratteristica organizzazione: è una specie di piccola repubblica nella quale ogni straniero — sebbene in Cina — continua ad essere sottoposto alle leggi patrie e partecipa indirettamente, o direttamente se fa parte del Consiglio municipale, al governo della cosa pubblica. Di fatto, siccome delle colonie straniere la inglese è quella di gran lunga più numerosa, anche il Consiglio comunale è in prevalenza britannico, con non dissimulate tendenze e speranze di far sventolare un giorno la bandiera del Regno Unito sulla torre del palazzo municipale, dove ora sono invece riuniti su un solo scudo gli stemmi di dodici paesi.
■ Difatti, quando per la rivoluzione dei boxers, le nazioni decisero di sbarcare delle truppe per la tutela della vita e degli interessi degli europei da per tutto seriamente minacciati, l’Inghilterra ne approfittò per fare occupare il settlement internazionale di Scianghai dai soldati di Sua Maestà britannica, sollevando le proteste dei consoli e il non dissimulato malumore delle altre colonie, che domanrono ed ottennero dai rispettivi governi lo sbarco di truppe del loro paese, per non far perdere al settlement quel carattere di internazionalità col quale è stato istituito ed organizzato. Quando, alla fine del 1902, fu stabilito il ritiro delle truppe, il contingente tedesco volle assolutamente essere l’ultimo a partire. I soldati tedeschi, nel momento nel quale pareva imminente la divisione delle spoglie del vasto Impero che fu chiamato il «Gran malato dell’Estremo Oriente», rimasero a Scianghai fino al 3 gennaio del 1903 per controbilanciare l’influenza britannica. Pareva imminente il momento nel quale si sarebbe dovuto procedere alla spartizione, e tutti volevano mettere qua e là qualche ipoteca…

“A. Caserma Savoia – B. Ex infermeria militare. Stazione radiotelegrafica. – C. [erroneamente segnato D] Posto centrale di polizia.”

CHI PIGLIA PIGLIA.

■ Allo stesso modo che le truppe internazionali avevano occupato Scianghai, si erano stabilite anche a Tien-tsin. Anzi, dopo evacuato Pechino col ritorno della vecchia Imperatrice — che dovette certamente a quella protezione degli eserciti europei, che ora è mancata al piccolo imperatore spodestato di rimanere sul trono — i contingenti internazionali si ritirarono tutti quanti a Tien-tsin. Vi fu allora come una gara fra questi contingenti per occupare qua e là delle zone col pretesto di avere dei quartieri ove alloggiare le truppe, e nacque subito l’idea di approfittare delle circostanze favorevoli per creare anche in questa città dei settlements. Tanto più che vi erano già quelli della Francia e dell’Inghilterra. L’Austria fu la prima a dare l’esempio dando un carattere di stabilità alla occupazione di una zona.
■ Dichiarò, ben inteso, di voler rispettare, come fece, le proprietà private; ma incominciò subito a considerare la zona sua come un territorio austriaco. Le altre nazioni, compreso l’Italia, fecero altrettanto. Verso la seconda metà del 1901 dei grandi incendi, nella zona russa e in piccola parte anche nella nostra, facilitarono questa specie di europeizzazione dei territori occupati. Si sa che cosa sono le case povere dei cinesi. Gl’incendi distrussero ogni cosa. Scomparve così quasi completamente quella proprietà privata che poteva essere un ostacolo alla organizzazione dei futuri settlements. I danneggiati, non pensando in quel momento — nel quale era sempre vivo il risentimento contro gli stranieri, domato soltanto con la forza e la minaccia la xenofobia — che un giorno avrebbero desiderato invece di vivere all’ombra di una bandiera europea, andarono a ricostruire più lontano i loro tuguri.

“L’antico ponte di barche. – Il Consolato austriaco.”

■ Per parecchi e parecchi mesi le cose rimasero così. Vi era il possesso di fatto, giustificato sempre dalla presenza delle truppe e dalla necessità di alloggiarle e non tenerle troppo frammiste alla popolazione.

“La sponda del fiume durante i lavori nel 1904.”

GLI ITALIANI E I DIAVOLI ROSSI.

■ Le nostre truppe, lo hanno riconosciuto parecchi fra i più autorevoli giornali cinesi, hanno lasciato un ricordo simpatico…. Per quanto possono lasciare un ricordo simpatico fra i cinesi degli europei. Certamente, con quegli elogi, la stampa cinese alla quale alludo, ha mirato a colpire e biasimare indirettamente il contegno tenuto dalle truppe di altri paesi, che, al momento della occupazione di Pechino, hanno fatto man bassa nei palazzi imperiali come nelle case private, saccheggiando e appropriandosi quanto capitava loro sotto mano. E si rallegrò anche che queste nostre truppe, che dovevano d’accordo con le altre potenze cooperare alla difesa della ferrovia di Pechino, sieno state le prime ad essere ritirate da Huang-tsun e da Tien-tsin prima delle altre, mentre si richiamavano anche le navi, lasciando in quelle acque soltanto il Marco Polo. È stato invece, dal nostro punto di vista e in quelle circostanze, un errore che ha diminuito seriamente il nostro prestigio. Ma si comprende se ne sieno rallegrati i cinesi. I quali ebbero però un momento in cui ci odiarono forse più degli altri. Fu quando, a Pechino, l’Italia stabilì una stazione radiotelegrafica, che ha permesso di stabilire delle comunicazioni fra la capitale e le navi: comunicazioni delle quali è facile intuire l’importanza quando si pensa… che da un momento all’altro vi è sempre da temere un eccidio di europei. La telegrafia senza fili fu inaugurata, malgrado lo sdegno che la novità aveva provocato e le preghiere della vecchia Imperatrice, la quale scongiurò gli spiriti dell’aria perché impedissero ai diavoli rossi di parlarsi da lontano attraverso il loro elemento. Ma gli spiriti non l’ascoltarono… e lasciarono passare i radiotelegrammi che l’ ammiraglio Mirabello mandò da bordo della Vettor Pisani al Re d’Italia, alla Legazione nostra a Pechino… e anche all’Imperatrice. Che fu costretta a far rispondere per mezzo del principe Tcing!

“Il ponte internazionale. – Il «quai de France».”

■ Le nostre truppe occuparono la concessione, una zona cioè di un chilometro circa di lunghezza per mezzo di profondità sulla riva sinistra del fiume Pei-ho, fiume navigabile da Tient-tsin al mare da bastimenti di una certa portata.
■ Tien-tsin nella provincia del Tchi-li, una delle città più importanti della nuova Repubblica poiché la sua popolazione passa di parecchio il milione, è il porto di Pechino. Tien-tsin che vuol dire «guado celeste» è il porto estivo, da dove le merci venute per fiume vengono mandate per ferrovia a Pechino e in tutta quella parte della Cina del Nord, mentre, per tre mesi dell’anno, quando il Pei-ho gela le merci sono sbarcate a Shan-hai-k sul mare, che si considera come il porto invernale. Per la sua posizione e per le sue comunicazioni colla capitale e col mare, Tien-tsin ha quindi una importanza enorme, dal punto di vista commerciale, politico e strategico.
■ Il nostro settlement è situato fra il fiume e la ferrovia ed è, già da parecchi anni, percorso in quasi tutta la sua lunghezza dal tram elettrico che dalla città cinese va fino alla stazione della ferrovia attraversando quella che si è convenuto di chiamare la strada principale e il fiume, sul fronte della concessione austriaca.
■ La concessione francese, che già esisteva come le altre, è sulla riva destra. Quando scoppiarono i torbidi all’epoca dei boxers, gl’insorti facevano fuoco dall’altra sponda — il fiume ha ivi la larghezza di un centinaio di metri. Fecero fuoco coi fucili e anche con qualche cannone. Qualche palla è rimasta per parecchio tempo — non so se vi sia ancora — infissa nelle mura del Consolato. Per cui una delle prime operazioni fu quella di sloggiare questi ribelli che tiravano appiattati dietro degli enormi mucchi di sale, nella zona nostra. In quel punto, sul fiume, vi è come una banchina artificiale costruita dal monopolio del sale. Quando noi occupammo l’attuale nostro settlement vi trovammo le sentinelle francesi che montavano la guardia per non lasciar rubare quel sale confiscato, poi venduto dopo e per una somma relativamente ingente poiché si trattava di una forte quantità.
■ Il settlement che, come dicevo, ha circa mezzo chilometro di profondità dal fiume alla ferrovia può dividersi in tre zone.
■ La prima è quella lungo il fiume, la zona cosidetta delle saline destinata soprattutto a servire per deposito: la seconda è quella dove esistevano ed esistono ancora delle specie di villaggi cinesi: e, infine, la zona delle paludi che si è cercato di prosciugare e di risanare.

“Personale indigeno e italiano della Concessione. – In mezzo il cav. Fileti: alla sua destra il maresciallo dei carabinieri. – Interpreti, carabinieri e polizia indigena.”

L’AMMINISTRAZIONE ITALIANA.

■ Fu il cav. Chiostri, attualmente comandato qui a Roma al Commissariato dell’emigrazione e che per due anni fu titolare del Consolato di Tien-tsin che, d’accordo col nostro ministro a Pechino, stabili la prima organizzazione della concessione e ne tracciò il piano regolatore, modificato soltanto in qualche particolare da coloro che gli succedettero. Il problema più grave e più ingente da risolvere era per l’appunto quello di queste paludi formate dalle pioggie su degli antichi cimiteri. Questione gravissima e quanto mai delicata, in un paese nel quale tutta l’organizzazione sociale è basata sul culto degli antenati — e quindi sul rispetto alle tombe. Rispetto sentito, come vedremo, in un modo molto curioso, ma che non impedisce sia considerato un sacrilegio il lasciarle toccare da mani straniere. Il dovere dei superstiti è compiuto quando han deposto la cassa con tutti gli onori nel cimitero! Dopo, nessuno se ne occupa più! Cosiché avveniva spesso, durante le pioggie estive di assistere allo spettacolo macabro di casse da morto emergenti dalle acque e mezzo imputridite che lasciavano scorgere pezzi di scheletri…

“Palazzina del nostro Consolato.”

■ Il cav. Chiostri dovette incominciare col fare un bando, col quale si dava un certo tempo alle famiglie dei morti seppelliti in quei cimiteri per ritirare e collocare dove credevano, fuori della concessione, i sarcofaghi dei loro cari. Furono assai meno numerosi di quello che si sarebbe potuto credere coloro che si presentarono. Con tutto ciò, trascorso il termine stabilito e d’accordo con le autorità locali, fu concessa ancora una proroga abbastanza lunga. Finalmente, spirato anche tale termine, i morti furono, come chi dicesse, trasportati d’ufficio in un altro terreno lontano e fuori della concessione. Però le nostre autorità ebbero cura che tutte queste operazioni fossero fatte da cinesi, in modo da evitare che gli antenati potessero essere toccati da mani profane! E furono così trasportati nientemeno che 8000 sarcofaghi.
■ Oltre al Chiostri e al Baroli, allora ministro a Pechino, fu attivo collaboratore in questo periodo della prima organizzazione del settlement un ufficiale di marina, il cav. Fileti, diventato poscia — e lo è tuttora — l’amministratore della concessione.
■ Altro collaboratore modesto, ma utilissimo, è stato il cav. Fascina, maresciallo dei carabinieri, scherzosamente chiamato: il comandante supremo delle forze di terra e di mare della Colonia. È un bel soldato dai grossi baffi, che si distingue assai bene nel gruppo riprodotto da una fotografia in queste pagine, il quale ha sotto di sé otto carabinieri e una trentina di «scimpu» che costituiscono la polizia indigena formata ed istruita a poco a poco dallo stesso cav. Fascina e che ha reso veramente ottimi servigi.

“Interno della caserma Savoia.”

■ Una delle cose più difficili in Cina per noi europei è quello di riconoscere le persone. E sarebbe impossibile la sorveglianza senza l’aiuto di questi ausiliari.
■ Fanno parte del personale amministrativo quattro funzionari indigeni e due o tre interpreti.
■ La colonia italiana non è numerosa, ed è composta da due o tre commercianti e da quattro o cinque barbieri. A Tien-tsin come a Scianghai i nostri connazionali hanno il monopolio della barba. È lo stesso agli Stati Uniti. In un paese come il Texas, nel quale s improvvisano da un mese all’altro delle città dove si scopre una miniera di petrolio o dove s’impianta qualche industria agricola, i primi esercizi che si aprono sono il bar, la drogheria… e il parrucchiere: quasi sempre un italiano, e del Mezzogiorno.
■ Pur troppo malgrado il loro numero esiguo non si può dire vadano proprio sempre d’accordo.
■ Una particolarità che mi pare vada notata. Naturalmente si sono dovute mettere delle tasse per sopperire alle spese. Ma queste imposte sono relativamente assai lievi. Parecchio al disotto di quelle delle altre concessioni. Bisognava proprio andare in Cina per vedere il contribuente italiano trattato bene!….

L’’AVVENIRE DELLA CONCESSIONE.

■ La popolazione indigena si aggira intorno ai 17 mila abitanti i quali vivono in gran parte in tuguri di fango o presso a poco. Dormono in tre, quattro, cinque persone in uno stesso letto, e non sempre delle proporzioni che sarebbero necessarie. Ma, mentre dapprincipio i cinesi delle concessioni straniere parevano adattarsi a viverci, a malincuore, adesso vi è piuttosto la tendenza da parte loro a venirci. E si capisce benissimo per quali ragioni. In fondo, pur essendo in Cina, per molti effetti sono… all’estero. Si sentono garantiti contro i soprusi dei funzionari loro compatriotti. Soprattutto, in questi anni mentre si stava preparando la rivoluzione che doveva rovesciare in poche settimane la dinastia Mancese, le concessioni estere erano considerate un po’ come posti di rifugio. Tanto che, non nella nostra, ma in altre, hanno ancora oggi la loro sede le redazioni e le tipografie di parecchi giornali. Cosa contro la quale hanno protestato più volte, ma inutilmente, le autorità cinesi…
■ Come dicevo dapprincipio, fino ad ora si è avuto il torto di non occuparsi di quella nostra concessione. Mentre la nostra è ancora su per giù come era parecchi anni sono, le concessioni di qualche altra nazione hanno completamente mutato aspetto. Certamente ha contribuito a ritardare la messa in valore la crisi generale del paese che ha impedito quel grande e rapido sviluppo di Tien-tsin sul quale pareva non vi potesse essere dubbio all’indomani della partenza delle truppe internazionali da Pechino.

“La caserma Savoia, provvisoriamente concessa per sede di un reparto di truppe russe.”

■ La Francia si era già affermata fino da molti anni fa quando eresse il palazzo del Consolato, una delle più belle costruzioni delle antiche concessioni europee. Fu costruito coi fondi della indennità pagata dalla Cina al governo della Repubblica in seguito a uno dei soliti massacri di europei determinato dalla voce diffusa ad arte che le suore di San Vincenzo da Paola avessero rubato ed ucciso dei bambini cinesi strappando loro il cuore e gli occhi onde preparare dei rimedi. Furono trucidati il Console francese e sua moglie, due giovani sposi che erano ospiti del Console, parecchi negozianti e tutte le povere suore dell’ospedale. La calma ritornò soltanto quando comparvero le cannoniere inglesi, che per molti anni, insieme alle navi francesi e russe, stettero poi in permanenza a Tien-tsin per tutelare la vita degli europei ed essere pronte in ogni circostanza.
■ Nel nostro settlement gli edifici più importanti sono la palazzina del Consolato e la caserma Savoia dove stava il nostro distaccamento di marinai. In base al piano regolatore si è proceduto ora alla vendita di una certa quantità di terreni a condizioni abbastanza vantaggiose: e certamente qualche cosa si farà. Forse ci siamo lasciati sfuggire una buona occasione qualche anno fa quando i nostri missionari in Cina avevano l’’intenzione di costruire essi una chiesa, un ospedale e delle case coi denari toccati loro nella ripartizione della indennità data all’Italia. Le trattative durarono parecchio tempo senza poter arrivare ad una conclusione. Poi i missionari impiegarono quel loro denaro altrove. Nella concessione francese invece si sono incoraggiati i gesuiti (la Repubblica, atea in casa sua, ha sempre avuto come programma di aiutare le missioni religiose che direttamente o indirettamente fanno della propaganda francese) che vi posseggono parecchi edifici.
■ Per noi poi il problema è ancora più difficile che per le altre concessioni, perché abbiamo soltanto pochissimi connazionali, e per il momento — è doloroso doverlo riconoscere — non vi è speranza di un prossimo risveglio nel commercio con quella parte della Cina settentrionale, che, naturalmente dovrebbe far capo a Tien-tsin. Non è qui il caso di esaminare per quali ragioni le iniziative sorte qua e la non hanno ancora dato dei resultati. Pur troppo la situazione è questa. Per cui ci troviamo di fronte a questo bivio: o cinesizzare la concessione, come ha fatto l’Austria, la quale pare si sia preoccupata soltanto di fare in modo che la concessione bastasse a sé stessa, o aprire le porte ad europei di altre nazioni, col pericolo che il settlement italiano diventi una concessione internazionale nella quale l’elemento straniero di altre nazioni sia in grande prevalenza su quello italiano.
■ Quindi, perché le cose vadano un po’ meglio, e si possa evitare il pericolo della prima come della seconda soluzione, giova sperare che, finalmente, anche dagli italiani qualche cosa si faccia, poiché, come al solito, non si può pretendere che tutto debba fare lo Stato.”