Un paio di calze di seta (1937)

Da La Lettura, Anno XXVII, N. 4, 1 aprile 1937.
Di Tito A. Spagnol.

” ■ Gli antichi, che amavano il nudo e che si coprivano meno che potevano, ignorarono le calze come oggetto di abbigliamento ordinario. Solo i malati si avvolgevano le gambe con fasce di stoffa, ma l’idea di tenerle sempre coperte nacque molto più tardi, nel Medioevo, quando gli uomini incominciarono a portare i calzoni, corti dapprima, e poi sempre più lunghi, fino a rivestire la gamba intera. Ma erano calzoni di stoffa, portati unicamente dagli uomini, e non vere calze.

“Macchina circolare automatica. L’operaia rammaglia l’orlo superiore d’una calza”

■ Queste non compaiono che nel XVI secolo, e la loro origine resta misteriosa. Forse sono di invenzione veneziana, se è vero che il punto a maglia, cioè il sistema di fare dei tessuti intrecciando il filo con i ferri, ha avuto la sua culla sulle rive della laguna. Nella pittura italiana del Rinascimento, nelle tele del Carpaccio e dell’Angelico specialmente, sono ritratte sovente figure di paggi che indossano calze
■ aderentissime, quasi sempre di color rosso o nero. Ma erano di stoffa, oppure di tessuto a maglia? L’esame di queste pitture non ha permesso di chiarire il piccolo enigma. La prima notizia storicamente sicura sulla venuta al mondo delle calze, si trova nelle cronache francesi che riportano i particolari delle nozze del Delfino Enrico di Francia, poi Enrico II, con Caterina de’ Medici, nel 1533.

“Calze di ultimo modello.”

■ Quel giorno il Delfino indossò un paio di calze di seta, dono di nozze del conte di Arundel al futuro sovrano, ed esse furono oggetto di molta sorpresa e meraviglia. Anche Emanuele Filiberto di Savoia, quando sposò Margherita, sorella di Enrico II, portava calze di seta.

“Una delle prime calze da signora fatte a macchina: 1870.”

■ Sul principio, dunque, sembra che le calze fossero appannaggio esclusivo dei re, — le regine, poverette, ne facevano senza — oggetti di rarissimo pregio, indumenti indossati solo nelle grandi cerimonie. Ma l’uso dilagò rapidamente. In pochissimi anni non ci fu dama o cavaliere di una certa eleganza che non usasse le calze, e il fastoso ’500 non le lasciò stare come erano, cioè semplici cilindri di maglia, ma le adornò di merletti, di ricami, di trafori, di arabeschi a fili d’oro e d’argento. In Francia ben presto si formò anche la corporazione dei calzettai, con tanto di stemma, cinque navi d’argento in campo azzurro e argento, ma le calze più pregiate restavano sempre quelle che venivano dall’Italia e dalla Spagna, ove allora si dettava la moda. Intanto anche la borghesia prese a portare le calze, e le donne dei mercanti, dei notari e dei banchieri impararono presto a sferruzzare, in ogni momento libero della giornata, come fanno ancora le nostre nonne di campagna.

“Questa macchina rammaglia, cioè riattacca i punti estremi del tessuto.”

■ Fino al 1600 la fabbricazione delle calze venne fatta unicamente a mano. Ma nei primi anni di quel secolo si pensò di ottenerle con un sistema meccanico. La leggenda narra che fu un pastore inglese, il reverendo William Lee, di Calverton, presso Cambridge, ad averne per primo l’idea, per far piacere a sua moglie, ch’era una pia donna, ma che non aveva pazienza di sferruzzare tutto il santo giorno per provveder di calze i figlioli e il suo venerabile marito.


■ Il reverendo Lee ci studiò sopra, costruì coll’aiuto di un magnano una macchina dalla quale uscirono, bene o male, delle calze. Piuttosto male, sembra, perché nessuno a Cambridge volle portare le calze del reverendo Lee, ma egli, ch’era tenace e industrioso, si trasferì in Francia, a Rouen. dove, forse dopo aver perfezionato la sua macchina, aprì un laboratorio. L’industria della calza era nata, ma rimase un’industria casalinga, familiare, perché il timorato reverendo Lee si guardava bene dal far vedere la sua macchina, fino al giorno in cui un certo Hindret riuscì a rubargliene il disegno e ad aprire a Parigi, sotto il regno di Luigi XIV, una manifattura che viene considerata come la prima veramente importante.

“Cimeli – Macchina da far calze dell’Ottocento.”

■ Da allora le fabbriche si moltiplicarono, mentre l’uso delle calze si diffondeva sempre più, anche fra il popolino e nelle campagne, fino all’epoca del Direttorio e del Consolato, in cui esso venne temporaneamente abbandonato, in omaggio alla mania della moda romana. Ma passato questo periodo tutti tornarono a portare le calze, colorate gli uomini, e rigorosamente bianche le donne. Non è che verso il 1880 che Parigi lanciò anche per le donne la moda delle calze colorate, a righe, e di quelle nere, fatte esclusivamente a macchina, e da qui incomincia l’epopea romantica della calza di seta.

“Incannatura – Il filo viene dipanato e avvolto nei fusi.”

■ Con i calzoni lunghi, essa è rimasta per l’uomo appena un particolare del suo abbigliamento, mentre per quello della donna, accorci essa o allunghi volubile le vesti, la calza è diventata un elemento fondamentale, non solo dei suoi abiti, ma quasi della sua personalità, uno strumento sottilmente diabolico di seduzione che ha un immenso potere suggestivo sui sensi dell’uomo. In un certo senso la calza è ormai quasi un simbolo della femminilità. Degas e altri pittori lo hanno ben sentito, come certi poeti.
■ La comparsa poi, avvenuta solo nel dopoguerra, delle calze velate, tinte in modo da adombrare appena lo splendore delle carni, intonandosi nel medesimo tempo al colore degli abiti, ha fatto sì che il loro impiego si estendesse e che parallelamente ne aumentasse il consumo. La spesa per le calze occupa forse la voce più ingente nel bilancio della donna contemporanea, poiché la caducità delle calze oggi usate è estrema, in ragione diretta della loro tenuità.

“Stracannatura – Il filo si paraffina scorrendo sui dischi bianchi.”

■ Questo ci insegnava un grande artefice italiano di queste tele di ragno, che sono la gioia ma anche uno dei più vivi crucci delle nostre donne, facendoci ammirare nel museo della sua fabbrica un paio di calze tessute nel 1870, a righe trasversali gialle e rosa, pesanti duecento grammi, e confrontandole poi con le ultime uscite dai suoi telai, quasi impalpabili, quasi invisibili, otto paia delle quali attorcigliate insieme passano facilmente attraverso il lume di un anello di donna.


■ Quante sono le cose meravigliose di cui noi non ci meravigliamo? Prendiamo in mano una di queste calze, che è appena un soffio di materia, aerea, evanescente. Pensiamo al ragno, subito. Ma il ragno è una creatura di Dio, e Dio può ogni cosa, mentre questa calza l’ha fatta l’uomo, ed essa in più della tela del ragno possiede altre qualità: si distende, si allarga, si restringe, senza rompersi, senza sformarsi.

“Il filo viene calibrato e avvolto sui rocchetti destinati ai telai.”

■ È fatta di filo, sta bene, di un sottilissimo filo di seta, ma come è stata intrecciata, da quali aghi è stata trapunta, guidata, senza che una sola volta il filo, le migliaia di metri di filo che la compongono, si spezzasse? La delicatezza di quali dita di angelo ha potuto compiere questo piccolo miracolo, quali fate pazienti hanno creato questa magia?
■ Non siamo in una grotta azzurra col soffitto a stelle d’argento di un libro di fiabe, e neppure fra le nuvolette sfumate di un paradiso da santino della prima comunione. Una distesa di enormi capannoni ci è dinanzi, bianchi e rossi di mattoni e di calce, risonanti di macchine in moto, e la nostra guida ci fa entrare nel primo, nel quale, ci spiega, si compie la più importante di tutta la serie di operazioni del ciclo di lavorazione, quella da cui dipenderà più che da ogni altra cosa la buona riuscita di una calza, e cioè la dipanatura delle matasse di filato, e il loro avvolgimento nei fusi. Questa operazione si svolge in due tempi. Nel primo le matasse di filato disposte sopra gli arcolai, vengono avvolte intorno ai rocchetti. Nel secondo tempo, i rocchetti passano ad un’altra macchina che disimpegna molteplici compiti: quello di riavvolgere il filo più regolarmente nei fusi, di provarne la uniformità di resistenza e di tensione, quello di mondarlo dalle sbavature e infine quello di paraffinarlo, onde possa scorrere senza inciampi e asprezze quando sarà posto sui telai.

“Macchina circolare automatica che produce le calze tubolari.”

■ Alla fine di queste operazioni, che si chiamano di incannatura e di stracannatura, i bei fusi lucenti e gialli come l’oro del filato di seta greggia sono pronti per la tessitura.
■ I sistemi, e quindi le macchine per la tessitura, sono diversi, ma noi seguiremo la lavorazione soltanto dei due principali: quello con le macchine circolari automatiche, che producono le calze tubolari senza cucitura o con finta cucitura, e quello del telaio Cotton orizzontale. che produce le calze sagomate con cucitura, che sono le più perfette e preglate.


■ Se si guarda una calza si vede che essa non è un cilindro di diametro uniforme. Per quanto elastico sia il tessuto che la compone, dovendosi adattare alle diverse grossezze di una gamba, dalla coscia al malleolo, la calza deve essere modellata secondo i diversi dell’arto che è destinata a rivestire. Le macchine automatiche circolari, per quanto ingegnosamente studiate, riescono a sagomare il tessuto che esce dai loro molteplici aghi in forma tubolare, ma fino ad un certo limite, e a detrimento della uniformità della maglia, la quale nei luoghi ove deve restringersi risulta più spessa, mentre ove i diametri sono più ampii, alla coscia e al polpaccio, si allarga. In altre parole, in una calza tubolare, i punti di un giro di maglia alla caviglia sono gli stessi come numero di quelli di un giro di maglia alla coscia. L’occhio non avverte quasi questa differenza di spessore, ma quando la calza viene usata, la differenza si traduce inevitabilmente in un contrasto tra le forze di tensione delle parti più fitte con quelle più leggere della maglia, e il risultato è che i punti cedono, e la calza si rompe facilmente o si sforma prestissimo.

“Macchina che tesse con punti diminuiti l’intera sagoma di una calza.”

■ È vero che le calze prodotte col telaio circolare automatico, che compie da solo la calza, dal colletto alla punta, eseguendo i rinforzi e ogni altro particolare, sono le più economiche, ma la tendenza generale della clientela, specialmente la femminile, punta ormai decisamente verso il tipo superiore, ottenuto col telaio Cotton.

“Cucitura anteriore della calza, del tallone e della punta.”

■ In confronto al telaio circolare, il Cotton è un mastodonte, ma come tutti gli esseri di vaste proporzioni, esso è lento e non esegue ben pochi movimenti. L’immagine del ragno operoso che sorge spontanea dinanzi al telaio circolare, dilegua col Cotton, ch’è una enorme macchina lunga più di tre metri e alta due, che stride come un drago. Eppure è da questo corpo mostruoso di acciaio che nascono quelle delicate e perfette meraviglie che sono le calze di lusso, ed è stranissimo vederne una, impalpabile come un raggio di sole, uscire a poco a poco, ancora informe, allungarsi da quel grembo di neri congegni strepitosi.


■ La tessitura del Cotton è detta a diminuzione, poiché la maglia che esso intesse con un punto uniforme, diminuisce ai margini secondo lo schema della proiezione piana della forma di una gamba e della parte superiore del piede. A questo momento, il tessuto ottenuto viene trasportato sopra un altro telaio che tesse le parti rinforzate del calcagno, della suola e della punta, rammagliandole alla parte tessuta dal primo telaio. La calza è nata, i mostri ora non c’entrano più, e le loro tenui creature passano per un altro ordegno di aspetto più minuto e gentile, anche perché è guidato da una ragazza: la macchina che farà le cuciture.

“Ultimo controllo e apposizione di un’elegante etichetta.”

■ Ma le avventure del filo di seta non finiscono qui. Per quanto nobile e forte, l’uomo non si fida di lui. Da quando il baco lo ha tirato fuori dalla sua bocca per farsene una casa, quanti travagli ha subito, quante prove, quante trasformazioni! Ha sempre resistito fino all’ultima, fra le fauci puntute di centinaia di denti acutissimi del Cotton, che gli hanno dato una forma e una disciplina? Bisogna vedere. E così ogni calza viene esaminata accuratamente da uno stuolo di fanciulle, prima di essere mandata in tintoria, immersa in fumiganti miscele, lavata, risciacquata, asciugata e stirata. Un ultimo controllo, poi la calza verrà appaiata ad una identica per colore, peso e misura, distinta da un cartellino e finalmente, sempre assieme alla sua compagna, chiusa in una scatola con altre undici coppie gemelle. La dozzina di calze è compiuta, è pronta a partire verso i negozi scintillanti dove l’umanità va ad acquistarle.
■ L’umanità è una grande divoratrice di calze. Ne consuma mezzo miliardo di dozzine all’anno, con la più grande indifferenza, senza pensare un istante ai piccoli e grandi prodigi che ci sono voluti per metterle al mondo. Ma è altresì vero che le calze se ne vendicano perfidamente, infallibilmente. Oh, Dio, una maglia è andata giù! Oh, Dio, un buco! Ah. queste calze!… La loro fine è sempre una piccola tragedia per l’umanità che le adopera.”