Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa del gennaio 1919.
Di G. B. de Toni.
■ “Tutti conoscono l’importanza grandissima che venne assumendo il caffè negli scambi commerciali delle diverse regioni del mondo, in alcune delle quali (Olanda, Danimarca, Scandinavia, Belgio, Stati Uniti d’America) se ne consumano in media parecchi chilogrammi all’anno per abitante (in Italia press’a poco come in Portogallo, circa il 0,6 per abitante), in altre, come nell’India e nel Brasile, se ne esportano quantità enormi; nei porti di Genova, Trieste, Marsiglia, Amburgo, Rotterdam, Amsterdam, Goteborg, Malmo vengono scaricate rilevantissime spedizioni di casse, botti e sacchi di caffè destinati al consumo europeo, per tacere degli scali di minore movimento commerciale che tuttavia sono molti.
■ La bevanda soave e aromatica, dotata di peculiare azione fisiologica sui centri nervosi e sul cuore, allettò da lungo tempo l’uomo; alcuni arrivarono a pretendere che il caffè fosse il Nepentes di Omero dato da Elena a Telemaco, altri che fosse il Kali presentato da Abigaille a Davidde, ma queste opinioni sono molto incerte ed anzi lo Sprengel sostenne il Nepentes essere l’oppio, il Kali la semplice farina d’orzo; meno dubbiosa è l’asserzione che al caffè corrisponda il Bune o Buncum di Avicenna e di Rhazes, per quanto il primo con quel nome indicasse una radice, il secondo un composto muschiato.
■ Un nostro italiano, Prospero Alpino di Marostica (25 novembre 1553 — 23 novembre 1616) asserì nel 1592 che il caffè da lui veduto presso Ali bey era molto noto in Egitto, che i semi avevano i nomi di Bon o Ban e la infusione era designata come Caova; Linneo attribuì all’Alpino il merito di avere per il primo proposto in Europa l’uso del caffè scrivendo a riguardo della pianta che fornisce la droga: «P. Alpinus primus hunc potum graphice proposuit»; alcuni sospettano che i semi detti di Elkane, dei quali nel 1568 Alfonso Pancio da Ferrara scriveva al Clusio a Malines devano riferirsi al caffè.
■ D’altronde vuolsi ricordare che il botanico e viaggiatore L. Rauwolff (1583) scriveva che il «Buncho Avicennae et Rhasis» era la pianta «ex cujus fructibus Turcae potionem Chaube parant», allusione troppo evidente al caffè; queste notizie sono tardive perché l’uso della droga in infusione è certo assai remoto e sembra risalga all’anno 606 dell’Egira (ossia al secolo XIII dell’Era Cristiana); certamente ne era introdotto l’uso in Aden nell’anno 877 dell’Egira (1450 dell’Era Cristiana), poi nel 1517 a Costantinopoli, dove le botteghe di vendita della gradita pozione ebbero tale concorso di frequentatori da scapitarne il culto rimanendo deserte le moschee, così che fu obbligato tosto il Governo a proibire tali botteghe, riaperte solo nel 1554, indi nuovamente chiuse sotto Amurat III, fino a che ne venne rimesso l’uso, in guisa che il caffè costitiuisce presso i turchi la bevanda più comune in sostituzione del vino che non possono bere per le prescrizioni del Corano. In sul principiare del secolo XVII a Venezia sì parlava già del caffè recatovi nel 1591 da un medico (forse il già ricordato P. Alpino) venuto dall’Egitto; si conobbe poscia a Marsiglia nel 1648, in Inghilterra nel 1692 ed a Parigi, a mezzo dell’ambasciatore turco, nel 1669. A merito di Nicolò Winsten, console d’Amsterdam, si ebbero a Batavia (Giava) le prime piante di caffè d’ Arabia; da quell’isola dell’arcipelago della Sonda furono spediti esemplari nel 1710 all’Orto botanico di Amsterdam, nel 1713 al Giardino di Luigi XIV a Parigi, nel 1715 all’Orto botanico di Pisa, allora diretto da Michelangelo Tilli; la preziosa pianta, moltiplicata a Parigi, venne portata nel Surinam (1718) e alla Martinica (1720), indi se ne estese la cultura alle Antille e all’ America, soprattutto al Brasile (introduzione nel 1754 da Caienna al Perù, nel 1770 al Brasile).
■ Il caffè è fornito da alcune specie del genere, Coffea L. (Coffea arabica L., C. liberica Hiern, C. stenophylla Don, ecc.) della famiglia delle Rubiacee, alla quale appartengono tante altre piante utili, ad es.la China-China, la Cascarilla, l’Ipecacuana, la Robbia.
■ La Coffea arabica L. è un alberetto alto 5 a 6 metri, che nelle culture si suole tenere potato in maniera che non superi un metro; le foglie sono opposte, brevemente picciuolate, ovato-acute, ondulate, liscie, verdi lucenti, intiere; i fiori nascono in gruppetti alle ascelle fogliari, sono bianchi, odorosi, somiglianti a quelli del gelsomino; i frutti sono drupe ovoidi, prima verdi, poi rosse, da ultimo scure, contenenti due semi i quali combaciano per la superficie piana.
■ I chicchi di caffè del commercio sono appunto i semi convessi da una parte, piani dall’altra nella quale è un solco longitudinale, mondati dal loro involucro, appartenente alla drupa.
■ Bisogna riconoscere che poche droghe ebbero una fortuna così grande come il caffè, per quanto siasi detto esserne l’infuso un lento veleno; appena appena col caffè può gareggiare il tabacco, che rappresenta uno dei tre vizii più comuni nell’uomo.
■ I buongustai sanno con quanta soddisfazione, con quale senso ineffabile di benessere si sorseggia una tazza d’infuso di caffè preparato con le regole dell’arte, poiché infuso vuol essere, non decotto come fanno per economia male intesa molte massaie, guastando con la prolungata bollitura i migliori caffè del mondo.
■ La caffeina agisce per suo conto sull’organismo, il caffeone formatosi durante una bene eseguita torrefazione comunica alla bevanda l’aroma caratteristico. Sonvi alcune sorta di caffè (Coffea humblotitna Baill, delle isole Comore) che mancano del principio attivo (caffeina) ma sono dotate di sapore amarissimo: dal 1908 si cominciarono a vendere in Francia dei chicchi di caffè addirittura decaffeinizzati, analogamente ai famosi sigari denicotinizzati che non provocano nei fumatori gli inconvenienti della intossicazione tabagica.
■ Le qualità commerciali del caffè sono numerose e traggono quasi sempre il loro nome dal luogo di origine o dagli scali di provenienza.
■ Ai caffè esportati dalle regioni asiatiche e in genere orientali fino alle isole dell’arcipelago della Sonda vanno riferiti soprattutto i caffè:
1) di Moka o dell’Arabia, con chicchi piccoli, di color verde-gialliccio o bruno-giallognolo, rotondi, con i margini rivolti l’un verso l’altro in modo da presentare profondo il caratteristico solco (la produzione di questo caffè non è assai rilevante, ma la qualità è eccellente; i chicchi sono spesso sofisticati con grani provenienti da Bombay);
2) del Levante, di Abissinia o di Alessandria i nomi commerciali non molto appropriati, con semi piccoli, verdi, aromatici quasi come il Moka genuino (arrivano in Europa specialmente da Gedda, Suez, Cairo per Livorno, Trieste, Marsiglia);
3) di Giava, con chicchi più grandi e allungati del Moka. di colore che va dal giallastro al bruno sono esportati con arrivo ai porti di Rotterdam e di Amsterdam, dove subiscono la selezione per essere posti in commercio a più alto prezzo;
4) di Ceylon, con chicchi di colore brunastro, distinti in due sorta, cioè quelli derivanti da piante coltivate e quelli da piante rustiche; però la cultura del caffè va lentamente restringendosi, come nell’India meridionale, per cedere il posto alla coltivazione più remunerativa del thè; aggiungansi i gravi danni prodotti alle piantagioni della Coffea, tanto a Ceylon quanto nel Misore, nel Tonkino, a Giava, a Sumatra da un fungillo parassita delle foglie, Hemileia vastatrix, descritto fino dal 1869 dai botanici Berkelev e Broome nel Gardeners Chronicle e anche dal Cooke nella Popular Science Review n. LIX; parassita terribile, perché nel 1882 il Marshall Ward calcolò che in una pustola gialla della foglia sono contenute circa 150000 spore e constatò in un paio di foglie ben 127 di tali pustole patologiche;
5) di Manilla o delle Filippine, con grani di media grandezza, verde-giallognoli;
6) del Malabar, somiglianti al Moka.
■ Ai caffè africani vanno ascritti quelli provenienti dall’isola della Riunione (isola Borbone; qualità consumata pressoché totalmente in Francia), del Gabon, dell’Angola, del Congo, della Guinea.
■ Tra i caffè americani vanno enumerati quelli:
1) del Brasile, con semi di forma arrotondata irregolare, di grandezza media, di colore verde-gialliccio;
2) di Caracas, con chicchi in generale piccoli, verde-azzurrognoli;
3) di Avana o Cuba, con semi piccoli, un po’ irregolari, con solco profondo e margine alquanto convoluto, colore variabile dal verdastro al grigio o giallognolo;
4) della Martinica, con grani allungati, ottusi alle estremità, di tinta verde o azzurrognola, di aroma soave;
5) di San Domingo o Haiti, con grani allungati, assottigliati agli apici, di colore giallastro o verde pallido, di sapore forte, un po’ acidulo;
6) di Portoricco [con due “c” nel testo] con chicchi di media grandezza, ottusi, verde-azzurrognoli;
7) di Giammaica [con due “m” nel testo], con semi schiacciati, di eccellente aroma.
■ E altre sorta ancora provengono dal Venezuela, dall’Equatore, dal Surinam, dal Messico, dalla Colombia, da Costarica, Nicaragua, Guatemala, ecc.
■ In alcuni stati dell’America l’esportazione del caffè costituisce uno dei più forti redditi; tra essi primeggia il Brasile dove a San Paolo e Rio esistono parecchi jutificii i quali attendono specialmente alla tessitura dei sacchi d’imballaggio per il trasporto del prodotto che, per citare un esempio, nel raccolto compreso tra il 1 luglio 1906 e il 30 giugno 1907 fu di oltre venti milioni di sacchi da 60 chilogrammi cadauno, con un crescendo stupefacente perché le statistiche ci dimostrano essere stata 1’ esportazione del caffè brasiliano nel 1800 di sacchi 13 (sempre, ben inteso, di 60 chilogrammi ciascuno), nel 1813 di sacchi 17, nel 1817 di 66.000, nel 1837 di 751.599, nel 1847 di oltre due milioni, nel 1867 di più che tre, nel 1887 di oltre a sei, nel 1897 di 8.500.000 per arrivare alle cifre grandiose raggiunte in questi ultimi decenni, senza tener conto del consumo locale e dei limiti di coltivazione imposti dal decreto che proibì nuove piantagioni onde regolare la quantità del prodotto.
■ Malgrado però la enorme produzione, specialmente asiatica e americana, del caffè, sia per l’alto prezzo mantenuto dalla droga, sia per i dazii che ne gravano in alcuni Stati l’importazione, si ricorse dagli speculatori a molte sofisticazioni e all’impiego di surrogati per ritrarne più vistosi guadagni.
■ Talvolta i commercianti si limitano a, correggere i caffè avariati o, come soglionsi chiamare dai tecnici, marinati (perché durante i viaggi vennero danneggiati dall’acqua salsa) o a preparare miscugli di caffè di qualità inferiori gabellandoli per qualità di primissimo ordine o a levigare od a colorare artificialmente i semi con polveri d’indaco, azzurro di Prussia, ocra, giallo cromo ovvero con apposite verniciature; adulterazioni che il merceologo facilmente riscontra con mezzi fisici o chimici; in ogni caso, malgrado le manipolazioni a scopo di lucro, in questi tipi di caffè noi ci troviamo sempre di fronte alla droga che agisce sul nostro organismo come deve agire il caffè.
■ Di gran lunga più importanti sono però quelle forme di sostituzione completa al caffè genuino, che impropriamente vennero dette succedanei del caffè, che meglio potrebbero denominarsi surrogati o sostituti del caffè o, come li chiamò il Faldeau, caffè fantasia o, pseudo-caffè, nulla avendo questi a che fare con la droga genuina, della quale solo si accostano ad imitare il colore dell’infuso e il sapore più o meno amaro od aromatico, senza esercitare l’azione propria del vero caffè per gli elementi speciali in questo contenuti.
■ Di codesti falsi caffè il numero è grandissimo e conviene limitarsi a menzionare i principali.
■ La astuzia nelle sofisticazioni o surrogazioni s’è in varia maniera dimostrata, a seconda che si tratta di chicchi intieri crudi o tostati ovvero di polvere di caffè torrefatto.
■ Nel primo caso il consumatore acquista veri e propri grani artificiali di caffè. Di questi il Chevallier ne indicava fin dal 1855, ricordando chicchi imitati con argilla da modellare grigio-verdognola o giallastra; nel 1867 si prepararono a Vienna grani imitati con pasta di cereali e ghiande polverizzate, poscia inverniciati con una resina per dare l’aspetto lucido al prodotto accuratamente tostato. A Colonia, nell’Esposizione internazionale di sostanze alimentari figurò la Ditta Jean Heckhausen e Weiss di quella città con una macchina per confezionare grani di pseudo-caffè nei quali si introduceva una piccola proporzione di caffeina; con un cilindro metallico munito nella sua superficie di speciali escavazioni, matrici della forma usuale dei chicchi di caffè, si confezionavano grani in numero considerevolissimo. Anche la Ditta P. Gassen fabbricava con macchinarii appositi grande copia di chicchi artificiali lunghi 12 millimetri, larghi 8, grossi 4, col solco caratteristico: frode ovvia a riconoscersi perché questi falsi semi di caffè gettati nell’acqua vanno a fondo; grani di pseudo-caffè erano pure esposti, insieme ad un caffè di salute polverizzato, dalla Ditta Martin van Look. Tutte codeste imitazioni più o meno bene eseguite sono senza molta difficoltà riconoscibili dai periti, massime ricorrendo all’esame microscopico, che rivela la costituzione di tali impasti o al saggio del peso quando si abbia a fare con chicchi artificiali preparati con l’argilla, che rappresentano tra le frodi la più grossolana.
■ Molto frequenti sono invece i caffè fantasia costituiti da surrogati, i quali talvolta sono anzi preferiti al caffè genuino, vuoi perché mancando dei principii chimici di quest’ultimo non ne esercitano l’azione fisiologica, vuoi perché il loro modico prezzo ne favorisce l’acquisto ai meno abbienti, e l’infuso da essi ottenuto ci procura l’illusione di sorbire un discreto caffè, in qualche caso tale da non aver bisogno di venir dolcificato con lo zucchero, dando così un ulteriore risparmio di spesa.
■ Uno dei surrogati di più antica data è la cicoria, una pianta appartenente alla famiglia delle Compositae, che abbraccia buon numero di vegetali utili: l’Arnica ben nota, il Piretro di Dalmazia delle polveri insetticide, la Camomilla, la Lattuga, i Carciofi, lo Zafferano bastardo, l’Assenzio, i Crisantemi, le Dalie. La radice della Cicoria (Cichorium intybus L.) è lunga 20 a 60 centimetri, grossa 2 a 3 dita, ramosa, rivestita di corteccia giallo-bruna o grigiastra; l’interno è bianco e contiene un succo lattiginoso amaro (il così detto latice); seccata la radice e tagliata a fette viene, nelle fabbriche di «cicoria» torrefatta, macinata; la polvere messa entro pacchetti di vario peso di un quarto o di mezza libbra, va in commercio col nome di cicoria o di caffè tedesco; nella radice si trovano una sostanza organica ternaria isomera dell’amido (inulina), una sostanza amara, del tannino e degli zuccheri.
■ L’impiego della cicoria come sostituto del caffè in Prussia risale al maggiore Hein che insieme a Cristiano Amedeo Förster ottenne nel 1770 il privilegio di coltivare la pianta e di confezionarne il pseudo-caffè; in Olanda l’uso del caffè di cicoria si conosce dal 1772 e in Francia nel 1801 due belghi, Orban e Giroux, organizzarono le due prime fabbriche di tale surrogato; ma in Prussia, avanti ancora della cicoria, si conosceva nel 1693 un prodotto speciale, il «caffè delle dame» consistente in un infuso di mandorle dolci e mandorle amare tostate in parti uguali; nel 1789 si ottenevano altrettanti falsi caffè mediante le cariossidi di parecchie graminacee (orzo, avena, segale, mais) tostate o mediante castagne abbrustolite.
■ Il nostro bravo agronomo B. Bordiga nella sua Storia delle piante forestiere (Milano 1791) ricordò, tra i sostituti del caffè, i semi del girasole; l’impiego di questa Composita (Heliantus annuus L.) venne più tardi indicato dal Fumagalli all’insigne Filippo Re; intorno al 1877, come risulta dagli scritti di Antonio Keller di Ragusa, che fu professore a Padova, si beveva in alcuni siti del Padovano un buon caffè ottenuto dagli achenii tostati del Girasole; buon caffè se i buongustai citati dal Keller affermarono che l’aroma del caffè dei semi di Heliantus loro parve fosse emulo dell’arabico Moka: e si trattava di una tazza il cui contenuto poteva valutarsi del prezzo di pochi centesimi in moneta italiana!
■ Anche l’orzo tallito si usufruì, con acconcie manipolazioni, per fornire il «caffè malto» che ha un grande centro di preparazione in Milano, mentre altre fabbriche stanno a Vercelli e a Pontedera.
■ Le ghiande dolci di alcune specie di quercie, le nocciuole (Corylus avellana L.) abbrustolite e ridotte in polvere danno prodotti con i quali si riuscì abbastanza bene a sofisticare il caffè, spesso mescolandovi residui di polvere di vero caffè già usufruiti e poi disseccati; allo stesso uso vennero adibiti i semi di alcuni lupini, in particolare del Lupinus angustifolius L., i ceci (Cicer arietinum L.), l’Astragalus baeticus L. che ha piccoli semi color verdognolo, le Carrube (Ceratonia siliqua I..), lo Hibiscus esculentus L., la radice del Piscialetto (Tararmacum officinale Wig.), senza contare i gusci del Cacao, i semi del Dattero (questi utilizzati spesso, soprattutto in Algeria, per preparare il «caffè churmade» da churma, nome dell’albero del Dattero), i frutti della Palma da cera o Copernicia cerifera Mert. (questi vengono torrefatti nel Brasile); pure i tubercoletti ovoidi, giallo-bruni, di sapore dolce e aggradevole del Cyperus esculentus L. o mandorle di terra o dolcichini, con arte abbrustoliti, possono prestarsi a servire da surrogati, come, secondo il Kornauth (1890), le pere selvatiche, la Soia, la rosa canina; secondo De Wildeman (1902), i semi di Cassia occidentalis e di Spermacoce hispida sono usati per confezionare i caffè fantasia.
■ Ma il surrogato che occupa uno dei primi posti, così da aver superato la stessa cicoria, è fornito dai fichi, usati da oltre mezzo secolo in Austria, poscia in Germania e nei Balcani ed ora venuti in uso soprattutto in Francia; è sufficiente ricordare qualche cifra per comprendere lo sviluppo raggiunto dall’industria di questo pseudo-caffè confezionato con i ricettacoli tostati dal Ficus carica L.; nel 1898 furono importati dall’Asia Minore, in particolare dallo scalo di Smirne, due milioni e mezzo di quintali di fichi secchi; ogni quintale di fichi secchi può dare circa 75 chilogrammi di polvere di pseudo-caffè; nell’anno susseguente a Bordeaux si costituì una Società con officine per la torrefazione dei fichi e nel 1902 sorsero in Algeria due fabbriche allo stesso scopo. Il sapore dolce dei fichi, dovuto alla considerevole quantità di glucosio, rende il falso caffè aggradevole senza bisogno di aggiungere zucchero all’infuso e perciò sì ottiene anche in questo caso una bevanda assai economica. E tanto venne apprezzato il caffè fantasia da fichi abbrustoliti che esso fu a sua volta sofisticato, come dimostrò nel 1887 il Nevinny, coi semi oleosi di una Crucifera, cioè della Camelina sativa Crantz, semi di sapore amaro e alquanto acre. Questo è davvero un colmo: la falsificazione della sostituzione! Quanta distanza dal caffè autentico!
■ È destino che gli uomini, in una buona maggioranza, si accontentino riguardo al caffè delle illusioni; una pozione bruno-scura, ben calda, di sapore indefinibile tra l’amaro e il dolce, servita in una bella tazza di porcellana magari dipinta a vaghi colori, centellinata in una gaia compagnia potrà far loro provare lo stesso senso di benessere che è in grado di dare un infuso, fatto secondo le regole dell’arte, del più scelto dei genuini Moka; ciò sempre in base al motto ben conosciuto del «vulgus vult decipi».
■ Ma in qual modo l’uomo venne attratto ad usare il caffè? Una leggenda siriaca riferisce che un pastore essendo venuto a lamentarsi presso un religioso per uno stato di sovraeccitazione del suo bestiame, il monaco esplorò il paese per sapere quali erano le piante mangiate dagli animali e rinvenne parecchi arbusti di cui le bestie divoravano con piacere i frutti; avendo fatto bollire questi frutti nell’acqua constatò che la pozione allontanava il sonno e da allora fece prendere tale bevanda ai confratelli perché non dormissero durante le preghiere notturne. Questa leggenda si accorda con un’altra araba la quale essa pure ricorda che l’uso del caffè fu iniziato da un devoto del Yemen rifugiatosi nelle montagne, coi proprii discepoli, per isfuggire alle persecuzioni di cui egli era l’oggetto a motivo delle sue idee religiose. Comunque siano le cose il caffè è ora generalizzato nel suo uso e quand’è davvero eccellente, si può cantare col poeta Delille:
C’est toi, divin café dont l’aimable liqueur
Sans altérer la tète épanouit le coeur.“