Roald Amundsen e di alcuni suoi precursori (1925)

di Arcangelo Ghisleri.
Da Emporium, Vol. LXVII, N. 367, luglio 1925.

“Singolare tipo di audacia e di ostinazione questo norvegese. Già compagno del De Gerlache nella sua spedizione della « Belgica » (1897-1898) verso il Polo Sud, la quale fu la prima che abbia trascorso uno sverno nelle estreme regioni australi, s’era coperto di gloria riuscendo vittorioso nella spedizione da lui stesso ideata e comandata (1903-1906) per andare con una piccola nave di sole 47 tonnellate, la Gjôa e con soli sei compagni, alla scoperta del Polo Magnetico e alla nuova ricognizione del passaggio di Nord-Ovest. Malgrado le peripezie e le difficoltà di tre inverni passati nei labirinti delle isole e dei canali dell’arcipelago nord-americano, sorprese l’Europa e l’America, rimaste tanto tempo senza sue notizie, quando finalmente un telegramma dal capo Nome, sullo stretto di Behring, annunciava laconicamente: «La Gjòa è qui giunta felicemente – Amundsen».

“Le terre artiche – Particolare della «Carta delle Regioni Settentrionali» nell’Atlante di Abramo Ortelio. Anversa, 1570.”

E ciò significava un viaggio di oltre otto mila miglia fra i ghiacci e le bufere di un lembo del globo inaccessibile e in gran parte inesplorato; solitudine perenne e spaventosa, privazioni e pericoli e incertezze d’ogni istante e un’energia quasi sovrumana, con una tenacia incrollabile di fede nel possibile trionfo.

“R. E. Peary.”

Non pago, e non capace di riposo, quando l’Inghilterra, dopo le precedenti spedizioni Scott del 1902 e Shackleton del 1907, organizzò nel 1910 la terza spedizione Scott colla «Terra Nova» diretta alla scoperta del Polo Sud, l’Amundsen partiva col Fram annunciando che intendeva girare l’estremità meridionale del continente americano per penetrare poi, dallo stretto di Behring, nel bacino polare settentrionale per dedicarsi a studi oceanografici. Ma, con sorpresa di tutto il mondo scientifico, si apprese poi che il Fram aveva mutato rotta, dal capo Horn dirigendosi a sud-ovest per gettar l’àncora (12 gennaio 1911) di là dalla Terra di Edoardo VII, indirizzato a un’impresa antartica in evidente concorrenza con quella inglese dello Scott. E fu così fortunato che il 14 dicembre 1911, dopo soli 506 giorni di corsa non interrotta, l’Amundsen giungeva con un tempo splendido al punto, che le sue osservazioni designavano come il Polo, a un’altitudine di 3201 metri — precedendovi lo Scott, che per altra via e con un tempo meno fortunato, arrivava al Polo il 18 gennaio del 1912.
Non bastano i successi d’imprese così ardue e grandiose alla soddisfazione di un uomo? L’Amundsen vagheggiò di tentare ancora una volta l’esplorazione della calotta glaciale settentrionale, valendosi di nuovi mezzi e delle risorse dell’aviazione. Non era soltanto un assalto ai ghiacci millenari, era tentare i venti e l’ignoto dell’atmosfera, di un’atmosfera nemica ad ogni fauna e ad ogni flora e ad ogni vestigio di esseri viventi. Questa volta gli ostacoli della natura furono più forti del suo ardimento; e l’intrepido esploratore per la prima volta dovette rassegnarsi a una rinuncia.

“Bellezze eschimesi di Godham.
(Dall’opera di Amundsen: Il passaggio a Nord-Ovest. Ed. Fr. Treves.)”

Possono confortarlo nel ritorno i ricordi dei precursori, taluni dei quali immensamente giovarono al progresso dello spirito d’indagine e della scienza, pur sembrando sconfitti. In questo campo delle esplorazioni geografiche, la brama dell’oro o di ricchezze sognate, la cupidità d’imperio, che trasse governi e avventurieri a seminare di ossa e di delitti le regioni incognite invase, più forte d’ogni belluina passione e d’ogni ladra cupidigia ci apparve e splende incoercibile ed eroico l’amore della scienza.
Gli esploratori dei secoli passati infatti furono in gran parte trascinati dalla brama delle ricchezze, che sognavano esistenti in paesi sconosciuti; e non sarebbe esagerato l’affermare che i più di loro non si sarebbero mossi, senza questo substrato di speranza di utili materiali.
Ma tutte le esplorazioni, che ebbero per meta i ghiacci eterni delle regioni polari — osservava lo stesso Amundsen nel volume in cui narrò le peripezie della sua spedizione sulla Gjôa — è in servizio della scienza che furono condotte. «Se prescindiamo dalle spedizioni fatte a scopo di pesca (alle quali pur bisogna convenire che l’esplorazione dei mari polari deve non poco) ben possiamo affermare che anche l’uomo più facile alle illusioni non ha mai preso la via del polo per la lusinga di trovarvi montagne d’oro».

“La Nuova Zembla.
(Dalle «Tre Navigationi degli Olandesi», Venezia, Ciotti, 1599.)”

Eppure, ad onta delle molte tragedie che ripetutamente hanno fatto ritornare scoraggiati gli animosi sui loro passi, contrastati dall’insuperabile muraglia del ghiaccio più volte millenario, e i casi innumerevoli di quelli che più non tornarono, sempre nuovi animosi si mossero a ritentare la prova. E questa indomabile pertinacia è riuscita a squarciare in più parti l’impenetrabile mistero, sino a raggiungere la meta fissa, a cui s’appuntavano d’ogni parte i desideri e le speranze d’una legione di audaci.
Venne violata gagliardamente la soglia del gran mistero quando il norvegese Nordenskjòld intraprese e condusse a termine (1878-79) la scoperta del passaggio del Nord-Est, navigando sulla Vega dall’Atlantico al Pacifico, sottraendo alla zona delle regioni incognite tutto il litorale estremo del continente asiatico (!). E già una generazione prima l’inglese capitano Franklin, avendo riportato da sue precedenti spedizioni (1819-22 e 1825-27) e da altre contemporanee, la certezza dell’esistenza di una zona di mare aperto lungo tutta la costa settentrionale dell’America, il 26 maggio 1845 salpava colle navi Erebus e Terror (già gloriose di tre fortunate crociere antartiche) con 168 uomini alla ricerca del passaggio di Nord-Ovest. Sui primi di luglio lasciava Disko (nella Baia di Baffin) una delle ultimi stazioni groenlandesi… e da quel giorno non si seppe più nulla. Passarono mesi, un anno, due anni, tre anni: nessuna tragedia dei ghiacci polari ha mai commosso così profondamente gli uomini come quella di John Franklin e de’ suoi; nessuna li ha spronati tanto a riprendere con maggiore accanimento la pugna. Dal 1848 al 1880 fu un seguito di spedizioni, per via di terra o per via di mare, d’inglesi, americani, norvegesi, alla ricerca dell’infelice esploratore (*).
Ma nulla si trovò, se non pochi resti della spedizione lungo le coste occidentali della Terra di Re Guglielmo; tra questi prezioso l’autografo di cui diamo il fac-simile, in data del 28 maggio 1847 in cui l’eroico comandante pregava «chiunque avesse trovata quella carta, di registrarvi il tempo e il luogo dove l’avesse trovata, e di farla pervenire al Segretario dell’Ammiragliato Britannico a Londra o al Console Inglese del porto più vicino».

“Dalle «Tre Navigationi fatte dagli Olandesi e Zelandesi» descritte da G. di Vera. Venezia, Ciotti, 1599.”

L’Amundsen, quando nell’agosto del 1903 giunse sulla Gjôa nella baia Erebus dell’isola Beechers, ch’era stato l’ultimo rifugio invernale sicuro di John Franklin, mentre la notte calava e gli stanchi compagni già dormivano, uscito all’aperto e seduto sopra una cassa «col senso intimo e profondo di essere sopra un suolo sacro» sentì il bisogno di contemplare da solo quella terra, e ricorrendo col pensiero a un passato tanto lontano, di rivivere nella immaginazione le ore belle di speranza del suo precursore:
«Eccola lì, davanti a’ miei occhi, la magnifica flotta di Franklin, com’essa era entrata nel porto e aveva gettato l’àncora.
L’Erebus e il Terror sono ancora nella pienezza del loro antico splendore. Sulle vette de’ loro alberi sventolano ancora i colori inglesi, e i due bellissimi legni rigurgitano di vita: ufficiali nelle loro brillanti uniformi, equipaggi coi loro pifferi, marinai con le loro divise azzurre! Due fieri rappresentanti della prima nazione marittima qui, sovra lo sconosciuto deserto di ghiaccio!…
Dalla nave del comandante si vede chiaramente staccarsi una barca. Sir John vuole essere posto a terra. Le giubbe azzurre si mettono con ardore ai remi, orgogliose di portare il loro comandante. Sul suo viso intelligente e pieno di forza riluce la bontà: egli ha una parola cortese per tutti, ed è per questo che l’amano i marinai. Per questo anche nutrono illimitata fiducia nel vecchio ed esperto condottiero delle regioni polari. Ora tendono attento l’ orecchio ad ogni parola che viene scambiata tra lui e i due ufficiali in mezzo ai quali Franklin siede: la conversazione s’aggira sulle condizioni sfavorevoli del ghiaccio e sulla possibilità di svernare. a simile pensiero. Ma sa pure per vecchia esperienza che spesso in queste regioni si è costretti a fare proprio quello che meno si vorrebbe…
Quegli uomini valorosi erano pur riusciti a esplorare parte d’un paese sconosciuto; ma, costretti dagli impraticabili massi di ghiaccio, dovettero poi rinunciare a tutte le loro speranze in un pieno adempimento del compito loro, al passaggio del Nord-Ovest.
In questo posto trascorse l’inverno 1845-46.
Le linee oscure di croci funerarie là giù sul suolo, ch’io posso scorgere dalla nave, ne sono testimonianza evidente.
Per la prima volta allora qui apparve lo spettro dello scorbuto, e richiese il sacrificio, se pure non di molte, di alcune vite umane almeno.
Quando, l’anno seguente 1846, i ghiacci si apersero, tornarono liberi l’Erebus e il Terror. Ancora una volta echeggiarono lieti canti di marinai, e i due legni navigarono tra il capo Riley e l’isola Beechey, ancora una volta sventolò fiera la bandiera inglese. E’ l’estremo saluto della spedizione di Franklin; poi tutto piombò nelle tenebre, nella morte….. »

“Effigie dei rosmari mostri marini. (Dalle «Tre Navigationi fatte dagli Olandesi e Zelandesi» descritte da G. di Vera. Venezia, Ciotti, 1599.”

Dei 124 uomini, che avevano preso parte alla sua spedizione, non uno tornò indietro.
Ebbene: è lo stesso Amundsen che celebrava gli effetti morali di quel grande sconfitto: «L’orribile incertezza sull’estrema sorte toccata a Franklin mise tutto il mondo in movimento: negli anni che seguirono di poi furono inviate numerose spedizioni a farne ricerca, a portargli in qualche modo aiuto». Di queste non poche pervennero a buoni risultati; ma, rigorosamente parlando, riguardo al passaggio del Nord-Ovest ebbero principalmente una sostanziale importanza i viaggi di Sir Richard Collinson e del dott. Sir John Rae. L’ammiraglio inglese Collison, con la sua Enterprise, navigò nel 1850 nelle acque dello stretto di Behring, ed esplorò le rive occidentali della Terra del Principe Alberto e della Terra di Wollastone, dove passò l’inverno. L’anno di poi, traversati gli stretti Dolpin e Union, si avanzò nel golfo della Coronation, e proseguì oltre per lo stretto di Dease, dove fu costretto a svernare una seconda volta, e più precisamente nella baia di Cambridge, sulla costa meridionale della Terra Victoria. Le sue note di scandaglio, le sue misurazioni cartografiche di questo stretto angusto e mal praticabile, dovevano più tardi essere di grande profitto per la spedizione della Gjôa.

“«Disegno… come sendo assaltati dagli orsi…».
(Dalle «Tre Navigationi fatte dagli Olandesi» descritte da G. di Vera. Venezia, Ciotti, 1599.”

«Ed io riconosco in Sir Richard Collinson — scriveva l’Amundsen — uno dei più arditi e più abili uomini di mare che sian mai stati sulla terra. Egli seppe guidare il suo naviglio grosso e pesante in mezzo a passi dove eravi spazio a mala pena sufficiente per la piccola Gjôa. E, ciò che ha ancora più valore, egli seppe riportare a casa la nave sua ancora in buono stato, sebbene in patria l’aspettasse una ricompensa limitata assai in confronto alla sua opera valorosa. Sir Robert Mc Clure, suo primo ufficiale, il quale aveva dovuto abbandonare la propria nave, l’ Investigator, nella baia di Mercy sulla costa nord-est della Terra di Bank, e ricorrere poscia all’aiuto degli altri per tornar in patria, raccolse tutti gli onori della spedizione, e ottenne insieme a’ suoi compagni la metà della ricompensa destinata agli scopritori del passaggio del Nord-Ovest. E, in realtà, tutte due queste spedizioni per il problema di girar la costa settentrionale dell’America presentavano una eccezionale importanza. McClure aveva provato l’impossibilità di passare per la via ch’egli avea tentato di battere; ma il merito di Collinson era di gran lunga maggiore: col suo avanzarsi arditamente lontano come nessun altro prima di lui, aveva indicato alle navi, che verrebbero di poi, una via sicura da percorrersi. In altre parole, McClure aveva scoperto un passaggio di Nord-Ovest che non era praticabile; Collinson ne aveva scoverto un altro che, per quanto non attraversabile da tutte le navi, dava per lo meno a capire che vi si poteva passare». Avvenne adunque del Mac Clure per questa impresa, che precedette quella di Amundsen, ciò che della popolarità di Amerigo Vespucci rispetto a Colombo.
Talvolta invero nel più puro entusiasmo per le scoperte scientifiche s’insinua — ed è umano — un sentimento d’orgoglio e di rivalità nazionale; e questo si vide e si notò fin troppo nell’Amundsen medesimo, per la successiva sua spedizione al Polo Sud (1911). La tragica fine dello Scott, che a poche settimane dalla meta raggiunta, soccombeva sulla via del ritorno tra la desolazione delle nevi e dei ghiacciai della Grande Barriera, e la fine pure tragica de’ suoi compagni, di Evans prima, di Oates poi, che impressionarono profondamente il mondo civile, fecero giudicare allora poco favorevolmente nel mondo scientifico il fortunato rivale norvegese. Questi aveva fatto i suoi preparativi in grande segretezza, non rivelò da principio il suo piano, lasciò credere che altra fosse la meta del suo viaggio; onde si osservò, pur tra gli ammiratori suoi, esservi anche una specie di cavalleria scientifica e che quando si organizza una spedizione c’è l’abitudine di partecipare i propri disegni ai competenti, che si trovano sullo stesso campo, anche per mantenere alla gara il suo carattere di purezza e di lealtà. E si ricordò, a proposito, che quando il Duca degli Abruzzi si preparava alla sua progettata spedizione al Polo Nord, pur mantenendo un dignitoso riserbo, volle però informarne minutamente il Dr. Nansen e si recò espressamente con quello scopo a Cristiania (1),

“Le navi di Barentz – Dal giornale di Gerrit De Veer.
(In alto scorgesi il caratteristico doppio alone solare quale fu osservato, per la prima volta, da una spedizione polare.)”

Quando però si ripensa ai rischi di ogni giorno, alle fatiche, alla costanza e alle virtù messe alla prova in codeste spedizioni, è più equo e più confortante ricordare in ciascuno di chi si vota alla morte per un ideale così disinteressato, ciò che di alto e di puro ha dovuto sostenerli. E sono dell’Amundsen queste nobili e semplici parole colle quali chiudeva la sua narrazione del «Passaggio del Nord-Ovest»:
«Così aveva termine il nostro viaggio. Era stato un periodo pieno di fatiche, perché nei deserti di ghiaccio bisogna tener sempre gli occhi aperti. Non è necessario commettere errori speciali per mettere a repentaglio la vita: basta un passo sbagliato, perché si sia puniti con la morte.
Ma è la vita dell’uomo libero! Ci si sente liberi là all’aperto, dove la propria volontà è legge, anche se la vita possa essere dura, perché la si conduce in mezzo ad ogni sorta di ostacoli. Là si imparano a conoscere la fame, e il freddo, e l’umidità che ti penetra le ossa, e gli sfinimenti supremi; il vitto è uniforme; bisogna dire addio alla pulizia, là dove una goccia d’acqua ti richiede consumo di combustibile, ossia di quanto si ha di più prezioso. Ma non di meno tu vai avanti; ogni miglio percorso ti pare una vittoria. E la vita…..
La vie n’est pas un plaisir ni une douleur, mais une affaire grave, dont nous sommes charges, et qu’il faut conduire et terminer à notre honneur».

“Sebastiano Caboto in età di circa ottant’anni.”

E se stavolta la meta del polo Nord da lui non venne raggiunta, niuno può contestare che meritasse le grandi onoranze fattegli da’ suoi concittadini al ritorno da quest’ultima sua impresa polare. I rapidi mezzi d’informazione che già tennero ansiosi i lettori di tutti i giornali del mondo, ci dispensano dal ripetere quanto è noto a tutti. Amundsen aveva scelto, come punto di partenza del suo volo aereo verso il polo, la riva meridionale della King’s Bay sulla costa occidentale dello Spitzberg. Da questa baia al polo la distanza in linea retta è di circa 1250 Km. Partì con due idroplani il 21 maggio, con un equipaggio ciascuno di tre uomini, con un cielo splendido e la previsione d’un tempo tranquillo; ma, dopo 45 minuti di volo, la scena mutò bruscamente, il sole disparve e una nebbia densissima dominò l’orizzonte. A questa improvvisa variabilità delle condizioni meteorologiche, con le bufere di neve, che succedono quasi a un sole estivo, s’aggiungono le sorprese del mare di ghiaccio, dove la corrente tiepida del Gulf-stream s’incontra con le acque gelide cariche di enormi natanti massi di ghiaccio, la cui mobilità non offre agl’idroplani, che vogliano scender su di un blocco o profittare di un momentaneo canale, se non la probabilità di rimanerne catturati e stritolati.
Ad Amundsen e ai suoi compagni questa scena appunto d’un caos di blocchi mostruosi e mobili di ghiaccio s’offerse nella direttiva dell’itinerario, che la spedizione intendeva percorrere e dal quale non poteva allontanarsi, pena l’ignoto, l’insufficienza delle provvigioni, la fame, l’impossibilità del ritorno. A un dato momento, alla distanza di 1000 Km. dal punto di partenza, l’Amundsen decise di scendere nel primo largo canale scorto sotto di sé: ma dei due apparecchi, quello di Ellesworth (il n. 24) urtato da un grande masso di ghiaccio e danneggiato non poté più liberarsi, e solo dopo pericoli incredibili i tre uomini dell’equipaggio poterono ritrovarsi uniti con quelli del n. 25, comandato dall’Amundsen.

“Sir John Franklyn comandante delle due navi «Erebus» e «Terror» inviate alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest.
(Da un disegno del Negelin.)”

Fissata astronomicamente la posizione raggiunta, risultò di 87° 44’ di latitudine e di 10° 20° Est di longit. Greenwich. Calcoli più esatti diedero poi 88°. La spedizione aveva dunque dovuto fermarsi a 220 chilom. dal Polo. Per 24 giorni gli esploratori dovettero rimanere sul ghiaccio della banquise, lavorando instancabilmente per liberare dalle morse dei blocchi l’unico apparecchio loro rimasto pel ritorno e dovettero a colpi di ascia e di coltelli livellare un possibile campo d’aviazione, da cui riprendere il volo cogli ultimi residui delle loro provviste. Fu alleggerito il carico dell’idroplano perché potesse trasportare i tre compagni dell’apparecchio perduto; le razioni del vitto furono ridotte a 300 grammi al giorno, appena quanto occorreva per non morire! Finalmente il 15 giugno la spedizione partiva per il ritorno, con una direttiva più ad est che, favorita dal vento, lo trasportò in 8 ore e 35 minuti dall’88° di latitudine al capo Nord della Terra di Nord-Est, isola che forma la parte nord-orientale dello Spitzberg. Per buona ventura, un piccolo battello a motore norvegiano, condotto da cacciatori di foche, si trovava in quei paraggi, il quale trasportò Amundsen e i suoi compagni alla King’s Bay, tra gli applausi entusiastici de’ suoi compatrioti.
Nulla di nuovo per la scienza — s’è detto da chi guarda con invidia gelosa ad ogni gloria de’ vicini — ha fruttato codesta avventura; ma la scienza è sperimento, e non s’acqueta se non «provando e riprovando». Il volo di Amundsen sino all’88° di latitudine ci ha confermato che nessuna terra si stende a nord dello Spitzberg nella direzione del Polo, e i suoi sondaggi hanno confermate le osservazioni di Nansen sulla profondità dell’oceano boreale, poiché all’88° di latitudine Amundsen trovò un fondo di 3750 m. E l’essenziale sta nell’aver dimostrato quale prezioso strumento di esplorazione, per le zone glaciali, siano gli apparecchi dell’aviazione. Una superficie di circa 100 mila chilometri quad. dianzi affatto sconosciuta venne esplorata in circa sedici ore di volo: pensate, coi vecchi mezzi di locomozione, sopra un oceano di ghiaccio, tra massi mobili e barriere impervie, da superare in carovana di slitte tirate dai cani, quanti mesi non dico, ma quanti anni, sarebbero occorsi per arrivare dallo Spitzberg a quella breve distanza dal Polo!
Il suo ritorno desterà in lui e in altri, il desiderio e la tentazione della riprova; si tesoreggierà l’esperienza dei pericoli e dei danni; si studieranno altri veicoli aerei ed altre vie d’approccio. La storia delle esplorazioni polari, per ora di certo, non è chiusa (!).

“Fac-simile del documento trovato sulla P. Vittoria (Terra del Re Guglielmo) che attestò il disastro della spedizione di sir J. Franklyn. (Dalla relazione del capitano L. M. Clintock.)”

É noto che, dopo ripetuti, faticosi e ostinati tentativi, chi giunse primo in slitta al Polo Artico fu l’americano Peary, che il 6 aprile 1909 piantava finalmente la bandiera stellata in quel punto matematico del nostro globo, ch’è ancora la meta di tante aspirazioni. Da questi risultati, se volgiamo indietro il pensiero alle prime informazioni, che si hanno di quelle regioni inabitate e inabitabili, troviamo menzione bensì di avventurosi Normanni che sino dalla fine del secolo IX sarebbero arrivati alle coste dell’Islanda e della Groenlandia, e di coloni norvegesi stabilitisi, nel fitto medio evo, nei posti accessibili di quelle estreme e ignote regioni. Ma delle scoperte fortuite, che rimangono segreto di gelosi avventurieri, com’erano quelle dei Fenici, e non hanno sèguito di fatti e svolgimento di tradizione, poco può interessarsi la Storia. Fu nel secolo XV e XVI che il fervore destato dalle grandi scoperte di Colombo e dei Portoghesi mosse anche Enrico VII d’Inghilterra (1497) ad accordare a Giovanni Caboto, veneziano, di spingersi verso i mari settentrionali e di ponente alla ricerca di nuove terre. Giunse egli infatti all’isola di Terranova, e vi ritornava l’anno appresso coi figli. Del padre non si seppe più nulla, ma il figlio Sebastiano completava quelle ricognizioni costiere e più tardi suggeriva di andare alla ricerca di una via marittima diretta al Cafai, il paese delle spezie, o pel nord-ovest (a nord dell’America) o pel nord-est (a nord dell’Asia). Le carte di Tolomeo, che la diffusione della stampa, aveva popolarizzato, facevano credere l’Asia orientale assai più vicina che non fosse alle coste dell’Europa. Varie spedizioni si succedettero: di Willoughby (1553) che giunse alle coste della Nova Zembla; di Martino Frobisher (1576-78); di J. Davis (1585-87) e di altri sino a quelle di Hudson (1610) e di Baffin (1616) che riconobbero le baie, che portano il loro nome. L’esito negativo interruppe quelle avventure, e non vennero riprese se non due secoli dopo.
Audacemente s’erano spinti a quelle imprese marittime gli Olandesi, che avevano da poco conquistata la propria indipendenza; e nel 1594 Guglielmo Barentz, superate le coste nord della Norvegia, spingevasi verso est, con quattro navi esplorando per primo la costa occidentale della Nuova Zembla, giungendo a nord sino al 77° 55’ di latit. urtando nei primi ghiacci galleggianti, mentre un’altra parte della spedizione aveva riconosciuto il mar di Kara e s’illudeva d’aver scoperta la via diretta per il Catai.

“I componenti la spedizione Amundsen del 1908.
(Dall’opera: R. Amundsen: Il passaggio Nord-Ovest. Ed. Trad. Treves.)”

Questi risultati incoraggiarono le autorità olandesi a una seconda spedizione, come si legge in una relazione italiana edita a Venezia nel 1599: «Di modo che i potenti Ordini delle Provincie confederate, insieme con l’Illustrissimo Prencipe d’Orangia, deliberarono al far della primavera di metter all’ordine alquante navi, non solamente come nella prima navigazione per investigar, e aprir la strada al Levante; ma per condurvi anco delle mercantie, che i mercanti, secondo che loro fosse paruto commodo, havessero sopra quelle caricate, aggiungendo li soprastanti che havessero a distribuire in quei luoghi dove arrivassero quelle merci libere, e esenti da nolo, e ogni sorte di gabella». Una specie di crociera, dunque, con mostra di merci e campioni, quale a’ giorni nostri parve una novità! Sette navi salpavano da Texel il 12 luglio del 1595, ma dopo aver oltrepassato lo stretto di Vaigatz, i ghiacci impedirono la rotta, sicché la flotta fu obbligata al ritorno. L’insuccesso scoraggiò il Governo dei Paesi Bassi, che si rifiutò d’allestire a proprie spese altre navi, decidendo però un lauto compenso a quei privati, che avessero risolto il problema.
«E dopo dispute diverse, e diversi pareri, si venne finalmente da gli Ordini a questa deliberatione, che se v’era alcuno, o Cittadino, o Mercante, che volesse di nuovo a sue spese esperimentare tal navigatione, potesse a suo beneplacito ciò fare, et finita la navigatione, per la quale apparesse chiaramente che si ritrovasse passo aperto per naviganti, gli havesse ad esser fatto a nome delle provincie un ricco, e honorato donativo, costituendo anco per tal effetto una certa summa di danari. Con cotali conditioni furono dall’honorando Senato d’Amsterdam al principio dell’anno apparecchiate, e fornite due navi, e condotti li marinari, alli quali furono proposte questi due partiti, cioè che cosa erano per havere se ritornavano senza haver fatto nulla, e che cosa anco havessero a conseguire se havessero potuto passare, fattali di ciò solenne promissione che quando havessero commoda e utilmente fornita la navigatione sarebbe stato fatto loro un presente non volgare, per incitar gli animi de’ marinari, ricordando loro che si sforzassero più che fusse possibile di trovar huomini che non fussero maritati, perché da l’amore, e desiderio delle mogli, e de’ figliuoli fussero meno travagliati, e distolti dal fornire la navigatione » (!). Gente savia e pratica quei cittadini olandesi.

“R. Amundsen sta per partire sull’idroplano (21 maggio 1925).
(Dall’Illustration Française.)”

Furono equipaggiate da alcuni mercanti di Amsterdan due sole navi, l’una agli ordini del Barentz e di Heemskerk, l’altra di Cornelis Rijp. Ma questa terza spedizione fu più sfortunata della precedente. Lasciata Amsterdam il 20 maggio 1596, scoprivano un mese dopo un’isoletta, ch’ebbe il nome di Beeren Eylandt (isola dell’Orso) e il 29 giugno alla lat. 80° 11’ N. si trovarono di fronte a una terra a loro ignota, che essi credettero una dipendenza della Groenlandia e chiamarono Spitzberg dall’aspetto aghiforme delle sue montagne. Le difficoltà dei ghiacci li decisero al ritorno e all’isola dell’Orso le navi si separarono: ma i ghiacci opposero ostacoli così gravi, che solo dopo penosi sforzi riuscirono a toccare l’estrema punta settentrionale della Nuova Zembla e il 31 agosto quivi gettarono le àncore, obbligati a passarvi l’inverno. Fu il primo sverno d’europei nella zona polare e durò più di dieci mesi! Soltanto il 14 giugno del 1597, dopo una serie di lotte e di sofferenze inaudite poterono salpare pel ritorno. Ma il Barentz cinque giorni dopo moriva e i superstiti furono da prima ricoverati da due battelli russi e poi, giunti a Cola, ritrovatovi il Rijp, a bordo del suo legno ritornavano in Amsterdam il 10 novembre 1597. Interessantissimo il diario di quelle tre Navigazioni, ed è notevole la prefazione in cui, ai facili critici delle audacie sfortunate, si contrappongono le sofferenze e le lotte durate da quei pionieri.

“Itinerario aereo verso il Polo Nord della recente spedizione Amundsen.
(Dall’Illustration Française.)”

«… anco per chiuder la bocca a quelli che van dicendo, che questa nostra impresa era inutile e vana, ma forse che per l’avvenire apporterà qualche beneficio; percioché non è da farsi beffe di chi tenta una cosa tenuta per impossibile: ma ben di chi per dapocagine non si mette ad impresa alcuna, perché gli paia difficile. Invero habbiamo conosciuto, che ci hà dato grande impedimento, e contrasto alla nostra navigatione la quantità grande di ghiaccio, che trovammo intorno alla Nuova Zembla sotto l’elevatione di gradi 73, 74, 75, 76, che però non era sì grande nel mare istesso tra l’una terra e l’altra. Onde si comprenderanno, che non la vicinità del Polo Artico, ma del gran ghiaccio, che va fluttuando, e rifluttuando nel mar di Tartaria inverso la Nuova Zembla, ci apportò quel gran freddo che patimmo. Non ci havendo adunque la vicinità del Polo quello apportato, se havessimo potuto seguire il nostro viaggio, che dal ghiaccio non fussimo stati impediti, forse havremmo verso l’Aquilone ritrovato qualche passo». Le difficoltà medesime, che trovarono gli esploratori dei tempi nostri; ma la medesima fede nella possibilità d’un passaggio! Ecco il vincolo spirituale, la medesimezza fraterna, per cui gli ultimi arrivati, anziché deridere, s’inchinano con ammirazione consapevole a quei loro precursori.”