La schiavitù nel Putumayo (1914)

Voce dalla rubrica “Varietà”, da Rivista Enciclopedica Contemporanea, 1914.

“La schiavitù nel Putumayo. — Son circa vent’anni che gli amici della libertà si occupano «della sorte delle popolazioni nere del Congo, cui l’avidità barbara dei bianchi ha sottomesso, nel loro proprio paese, a una schiavitù senza esempio per sfruttar le ricchezze delle loro foreste. Ma nessuno, o ben pochi, ha pensato alla sorte delle tribù brune del Putumayo, le quali subiscono da anni oppressioni anche peggiori.
Il vice-presidente della Lega Svizzera per la difesa degli indigeni del Congo, il Dr. H. Christ-Socin, tratta questa questione in un lucido e vibrante articolo.
Nella regione del Putumayo che appartiene al Perù, ma che per la sua distanza enorme dalla capitale e dai maggiori centri dello Stato, è quasi interamente sottratta ad ogni controllo del governo, i superstiti indi sono fatti schiavi, torturati e adoprati principalmente alla ricerca del caucciù. Nessuno si è mai dato pensiero di questi infelici e solo nel 1907, un giornale inglese, The Truth, richiamò l’attenzione de’ suoi lettori su «un sistema di atrocità» che impera tuttora sulla rete di riviere formanti il fiume del Putumayo, uno dei più grandi affluenti delle Amazzoni. Ma le rivelazioni del Truth passarono inosservate: troppo poco interessava una regione di cui s’ignorava perfino il nome.
Fu dato un nuovo allarme. Un giovane ingegnere americano, certo Hardenburg, ritornato dal Putumayo nel 1909, rimise alla Società antischiavista di Londra una relazione particolareggiata degli orrori di cui egli era stato testimonio. Questo manoscritto conteneva particolari così atroci che la detta società esitò a credervi.
Eppure la società accusata non era né peruviana, né esotica, ma inglese, la «The Peruvian Amazon Rubber Company», regolarmente registrata nell’ottobre 1907, per un milione di lire sterline come capitale di azioni, domiciliata a Salisbury House, London Wall, sfruttante il caucciù del Putamavo con numeroso personale di agenti bianchi e di cacciatori di schiavi armati, di cui 200 neri e sudditi britannici, stabiliti nell’isola inglese di Barbadah, il tutto basato sul lavoro forzato delle tribù brune della regione, e su un terrorismo omicida che non indietreggia mai nemmeno davanti ai delitti più vergognosi e che al contrario li erigeva a metodo di «politica indigena».
I giornali seri di Londra, il Daily Chonicle, Morning Leader, Daily News, con un coraggio lodevole pubblicarono alcune delle rivelazioni dell’Hardenburg. La società si dichiarò naturalmente innocente. Due volte ai secretari della Società antischiavista si rifiutò di dare spiegazioni. Un giorno un redattore di un giornale sollecitò un’intervista coi direttori della P. A.R.S.: gli fu mandata una lettera: l’aprì, non conteneva che un biglietto di banca.
Il Ministero degli Esteri inglese s’interessò anch’esso della questione, dando a un uomo assai benemerito nel servizio consolare, Sir Roger Casement, l’incarico di fare un’inchiesta sul luogo. Il compito era difficile. Oltre la resistenza sorda degli interessati bisognava tener fronte anche alle autorità peruviane che avevan tollerati gli abusi.
Nell’agosto 1910, il console generale Casement arrivò a Iquitos, un mese dopo a la Chorrera, centro della P. A.R.S. Ivi sino al dicembre, studiò a fondo la situazione e riempì non meno di trenta protocolli particolareggiati contenenti le deposizioni testuali degli abitanti, testimoni oculari e partecipi essi stessi degli orrori che da anni e anni funestavano quel paese.
Ecco il piano d’azione della Rubber Company. L’operazione preliminare, dalla quale tutto il resto dipende, è la «questione operaia» che questi industriali han risolto nella maniera più semplice. Organizzano delle correrias (scorrerie) di briganti arruolati, armati di fucili Winchester con 100 o 200 cartuccie a testa: sorprendono i villaggi di notte, incendiano le capanne, fanno fuoco contro quegli sventurati che oppongono resistenza o che tentan fuggire, e si trascinan via la preda: uomini, donne, bambini. Nella relazione annuale del Ministero della giustizia indirizzata al Congresso della Repubblica, si legge: «Pautumayo. In questa riviera non è possibile stabilire una missione a causa degli abusi dei caucheros (cacciatori di caucciù) contro i pagani, che essi maltrattano e assassinano pei motivi più frivoli impadronendosi delle mogli e dei figli».
La stessa relazione contiene i lamenti del prefetto apostolico di San Francisco de Ucayali, il quale protesta contro la tratta infame che spopola quelle regioni, contro il commercio dei giovani e delle giovani.
Questa tratta provoca e incoraggia frequenti caccie dirette contro quei poveri selvaggi che si strappano dalle case, si uccidono e si lasciano marcire impunemente.
Nulla è stato fatto da parte del Governo, per reprimere tali errori; si parla al contrario di spedizioni armate, dirette contro questi poveri indigeni per punirli del delitto d’aver difeso le loro famiglie e di aver vendicata la morte dei loro più cari.”

La vista dei pesci (1914)

di A.P.
Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di giugno, 1914.

“Recentemente uno scienziato tedesco, E. v. Hess, ha fatto esperienze assai interessanti per indagare il senso della vista nei pesci, e precisamente riguardo all’intensità e al colore della luce.

“N. 1. A. – Giovani pesci sparsi in una camera oscura in tutto l’acquario.
B. – I pesci si dirigono verso una piccola sorgente luminosa a destra in basso.”

Egli ha distribuito uniformemente del nutrimento in recipienti di vetro dove si muovevano liberamente dei giovani pesci, e ha illuminato coi diversi raggi dello spettro i recipienti. Ha così constatato che i pesci si raccoglievano intorno al mangime nella zona illuminata dai raggi violetti, in quella illuminata dei raggi rossi invece evitavano di riunirsi, non vedendo il nutrimento. Vale a dire che i pesci vedono il violetto come noi, ma non vedono invece il rosso.

“N. 2. A. – I pesci si riuniscono nella zona rossa dello spettro, costretti dall’applicazione di uno schermo nero
N. 2. B. – Appena tolto lo schermo, si sparpagliarono nuovamente.”

Quanto all’intensità, l’Hess ha dimostrato che i pesci tendono sempre a recarsi dove la luce è più intensa; ciò che del resto avviene per molti altri animali. I pesci hanno preferenza per il colore giallo e giallo-verde, ma non per se stesso, bensì perché più chiaro degli altri colori dello spettro. Infatti provando ad intensificare successivamente le varie luci dello spettro, l’Hess osservò che i pesci si dirigevano nella zona più illuminata, senza predilezione per l’uno o per l’ altro colore.

“N. 3. A. – Applicato lo schermo nero, e avanzato questo nel recpiente i pesci si erano diretti verso la zona violetta; appena tolto lo schermo, ritornano verso il verde-giallo, come vedesi nella figura.
N. 3. B. – I pesci si riunirono preferibilmente nella zona giallo-verde dello spettro.”

E pare da ciò dimostrato che nell’acqua i pesci non fanno distinzioni se non fra la zona superficiale, illuminata, e quella profonda, via via più oscura. Cadrebbero così tutte le supposizioni e gli studi bellissimi che si eran fatti sull’abito di nozze dei pesci, vale a dire sui colori brillanti che assumono certi pesci nell’epoca degli amori. E il color rosso quello più diffuso in questi pesci … ammaliatori, ed invece, sembra proprio il rosso il colore meno percettibile dai loro occhi. Ogni tanto la natura gioca i suoi tiri agli instancabili suoi scrutatori!”

Rotazione della Terra (1914)

di Adriano Michieli.
Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di Febbraio, 1914.

“È noto che le principali prove della rotazione terrestre sono il moto apparente del cielo, il succedersi del giorno e della notte, lo schiacciamento dei poli e il rigonfiamento dell’equatore già divinato dal Newton e fermato in cifre dal Bessel coi famosi elementi del suo elissoide di rotazione, le variazioni di accelerazione dal polo all’equatore o viceversa, i diversi valori della forza centrifuga in opposizione a quella di gravità, la deviazione verso oriente dei gravi che cadono da una altezza più o meno notevole, la deviazione delle correnti aeree e marine e quindi di ogni corpo sia liquido, sia solido, moventesi sulla superficie (postulati del Ferrel e di E. de Baer), il famoso esperimento del Pendolo eseguito nel 1851 da Leone Foucault sotto la cupola del Pantheon in Parigi (fig. 1) e la sua geniale invenzione del giroscopio così feconda di molteplici applicazioni scientifiche, il modo di comportarsi delle maree, tutte le analogie della meccanica terrestre con quella celeste e infine secondo alcuni, la stessa distribuzione dell’uomo sull’ecumene (Issel) e la direzione degli strati terrestri (teoria dei carreggiamenti).

Niccolò Copernico pubblicò la sua famosa opera De revolutionibus orbiun coelestium nel 1543; Galileo Galilei stampò il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo nel 1632, ma solo nel 1648 si iniziarono per opera del Calignon i primi esperimenti per la dimostrazione del moto di rotazione della terra. Essi, come tutte le ricerche sui più alti problemi scientifici, hanno una storia molto interessante; e vanno divisi in cinque grandi periodi o fasi. La prima, che parte dal 1643 e giunge fino al 1770, comprende indagini fatte dal Calignon, dal Mersenne, dal Viviani, dal Newton, dal Poleni coi mezzi più diversi (filo a piombo, proiettili, pendolo, caduta di gravi); la seconda va dal 1791 al 1831 ed è occupata dagli studi del Laplace e del Gauss e dalle esperienze sulla caduta dei gravi fatte dal Guglielmini a Bologna, dal Benzenberg ad Amburgo e dal Reich a Freiberg; la terza non riguarda che le prove ricercate e raggiunte lal 1832 al 1852 col pendolo semplice da Hengler, Bartolini, Foucault, Bravaise P. Secchi; nella quarta, che va dal 1852 al 1879, si perteziona l’esperimento del Foucault, e il nostro Porro propone per primo (1852) l’uso del pendolo composto, mentre il Perrot, sette anni dopo, tenta alcune esperienze con le correnti liquide e Kamerlingh-Onnes sviluppa la teoria del Porro e dal Gauss, trovandovi l’ispirazione per alcuni suoi eleganti e importanti corollari; nella quinta fase, infine, che dura tuttora, vengono riprese a scopo di controllo e coi metodi e strumenti più moderni le diverse forme d’indagine e di prova ideate nel passato, come ci mostrano le esperienze di Hall a Cambridge (Mass.) sulla caduta dei gravi, di Foppl a Monaco (Bav.) sul giroscopio, di Tumlirz a Vienna sulle correnti liquide e infine del Padre I. G. Hagen, direttore della Specola Vaticana, sui pendoli di torsione e la macchina di Atwood.

“Fig. 1. – Esperimento di Foucault.”

Lasciando l’esposizione delle altre ricerche si dirà qui brevemente di quest’ultime del P. Hagen, sopratutto pel fatto che esse hanno condotto l’insigne studioso ad inventare un nuovo strumento: l’Isotomeografo o misuratore dei settori o aree eguali, che, non solo dimostra il moto di rotazione della terra, ma, quel che più vale, lo misura; e perché gli hanno di recente permesso di dare una nuova e quasi perfetta dimostrazione sperimentale dei teoremi del Gauss e del Laplace sulla caduta dei gravi. E lo faremo sullo tracce di una dotta monografia dello stesso P. Hagen e su quelle di una nota presentata di recente dal Dr. Gianfranceschi alla R. Accademia dei Lincei (P. Hagen, La rotation de la terre, Roma: Pubblicazioni della Specola Vaticana, 1912-1913. G. Gianfranceschi, Misure di deviazioni dei gravi, Roma, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei», 7 dicembre 1913).
Vediamo anzitutto in che cosa consiste la prima parte delle nuove ricerche del Direttore della Specola Vaticana e a quali quesiti risponda il suo Isotomeografo.
Sia gli studi che lo strumento sono strettamente legati ai più noti principî scientifici sul momento d’inerzia e sulla legge delle aree. Se tutti non lo ricordassero, il momento d’inerzia, come c’insegnano tutti i trattati di fisica, è uguale al prodotto di una massa pel quadrato della sua distanza dall’asse intorno a cui gira; e secondo le leggi formulate dal Keplero «le aree descritte dai raggi vettori sono proporzionali ai tempi impiegati dal pianeta a descrivere gli archi corrispondenti». Il primo di questi due principî, cioè quello sul momento d’inerzia, fa si che più masse moventisi intorno ad un asse abbiano accelerazioni e velocità diverse, secondo che la forza agisce, o no, sopra di esse; e che, tanto le accelerazioni come le velocità, siano in rapporto costante con le rispettive distanze dall’asse. Pel secondo, cioè la costanza delle aree, è a ricordare che G. Keplero, dopo aver scoperto la natura elittica delle orbite planetarie, constatò come, congiungendo col raggio vettore i punti raggiunti da più corpi in un medesimo spazio di tempo, gli archi da essi descritti non fossero affatto eguali, ma fossero invece eguali le aree descritte dal raggio.
È anche noto che un terzo principio su cui si basano, coi due precedenti, tutte le prove meccaniche della rotazione è quello della forza viva (usufruito dai pendoli composti e dal giroscopio) e che tutti e tre insieme si possono ricondurre al principio fisico e meccanico dell’inerzia.
Fu ricorrendo a tali concetti che si poterono formulare anche matematicamente varie prove indirette della rotazione terrestre; che il Foucault ebbe le idee del suo pendolo e poi del giroscopio; e che il Poinsot infine intravvide la prima vera esperienza sulla legge delle aree che doveva essere feconda di molteplici, ulteriori applicazioni.
Quest’ultimo studioso infatti concepì fin dal 1851 la possibilità di uno strumento dimostrativo costituito da una molla le cui due anse fossero più o meno avvicinate fra di loro e «legate insieme alle due estremità da un filo che le mantenesse in quello stato». Questa molla, egli pensava, così piegata, sarebbe sospesa alla sommità dell’angolo nella direzione della verticale e le si darebbe la maggior libertà possibile per girare:su questa verticale.
Essendo il congegno in questo stato e in riposo, ad un supposto taglio del filo che tiene unite le due anse, l’angolo della molla si apre e determina un piano che non può girare attorno la verticale che con una velocità angolare v’, minore della velocità v ch’esso aveva attorno la stessa linea, quando le due anse non ne formavano per così dire, che una sola.
Il che vuol dire che, se la terra non gira, la molla aperta dovrebbe muoversi intorno alla verticale colla stessa velocità angolare di prima; e, se la terra gira, pel principio della costanza delle aree, la molla dovrà muoversi invece con una velocità angolare minore di quella che aveva prima.
Tale idea del Poinsot, pur raggiungendo il grado massimo di semplicità per la costruzione di un apparecchio basato sul principio della costanza delle aree, non suggerì né a lui, né al Foucault, cui la sua nota era diretta come un «remarque sur l’ingenieuse expérience» dei pendolo, alcuna decisione in proposito. È inoltre doveroso osservare che nell’abbozzo di esperienza del Poinsot non v’era cenno alcuno sulla riversibilità dell’apparecchio e che il Foucault, pur usufruendo nell’invenzione del giroscopio (da lui presentato all’Accademia delle Scienze nel 1852) del concetto del Poinsot «di un piano più persistente di quello del pendolo», ne basava il funzionamento sul principio della forza viva.

“Fig. 2. – Esperimento pendolare di Hagen.”

In ogni modo le ricerche del Foucault e del Poinsot furono usufruite dal noto meteorologo Ferrel, che, rettificando le osservazioni fatte quasi cent’anni prima dall’astronomo Hadley, poté delineare uno studio sistematico delle correnti aeree in relazione colla meccanica terrestre. L’anno dopo (1859) il Perrot ebbe per primo l’idea di valersi dello studio delle correnti liquide per la dimostrazione della rotazione terrestre, ritenendo che pel principio della costanza delle aree, un liquido scorrente in direzione radiale dovesse essere deviato dai mutamenti di velocità angolare. Le sue esperienze, fatte senza tener conto delle norme dell’idrodinamica, non riguardarono che le correnti centripete, ma ispirarono in ogni modo nello stesso anno al Combes alcune altre esperienze sulle correnti centrifughe che non si sa perché non siano state nemmeno iniziate.
Dagli studi del Perrot e del Combes l’insieme membro dell’Accademia Francese Jacques Babinet dedusse una prima osservazione essenzialmente geografica sulle deviazioni dei fiumi in armonia alle leggi del moto rotatorio. La curiosa esperienza del Perrot, egli scrisse, mi ha richiamato «ce fait curieux observé d’abord dans le cours des grands fleuves de Siberie… qui coulent vers le nord et qui étant arrivés en plaine, rongent continuellement leur rive droite… D’après une importante remarque de M. Foucault, il en est de même pour les rivières allant de l’est à l’ouest ou de l’ouest à l’est, ou même dans une direction quelconque… Dans les cyclones, les masses d’air, en se dirigeant vers le centre, prennent à droite comme l’eau dans l’experience de M. Perrot, si c’est dans notre hémisphère, et si c’est dans l’hémisphère austral, elles prennent à gauche. A l’équateur cet effet est nul».

“Fig. 3. – L’Isotomeografo.”

L’osservazione del Babinet non fu fatta invano, poiché, oltre ai vari studi da essa provocati più tardi, inspirò quasi subito ad E. de Baer la nota memoria sullo spostamento degli alvei fluviali pubblicata nel 1860 che è a tutti nota sotto il nome di Legge fluviale de Baer. Per tale legge una molecola d’acqua «che discende dal sud verso il nord, porta con essa l’impulso, diretto dall’ovest all’est, che la rotazione della terra le ha comunicato. Questo impulso divenendo sempre minore man mano ch’essa si avvicina al polo, la molecola nella sua discesa conserva, rispetto alle regioni in cui arriva un eccesso di velocità verso l’est che la getta verso la riva destra». E se la molecola o il corso d’acqua considerato scende invece dal nord al sud la sua riva più battuta sarà, com’è ovvio, la sinistra.
Il P. Hagen, come molti fisici e matematici, non ritiene, però, la Legge de Baer per dimostrativa, pensando che l’intensità della forza centrifuga composta, che risulta dal movimento relativo dell’acqua sopra il globo sia troppo debole per erodere più una che un’altra delle rive o accumulare su di essa i materiali di trasporto. E certo, tuttavia, che esaminando i vari fenomeni constatati e messi acutamente a raffronto, per non dire che dei più recenti studiosi, dal Prof. Jean Brunhes ora del College de France, e dal suo rimpianto fratello Bernard, già Direttore dell’Osservatorio del Puy de Dôme, tanto la legge Ferrel che quella de Baer hanno nuova luce e non si può non restare convinti del loro fondo di verità. Di fatto, come ha ben dimostrato Jean Brunhes, l’erosione fluviale è opera prevalente dei vortici. Ora, escluso il caso dei vortici prodotti da ostacoli dell’alveo, il senso in cui essi si verificano nell’emisfero nord per l’azione della rotazione terrestre è sempre quello inverso alle lancette di un orologio, dal che consegue che in un corso d’acqua scorrente dal sud al nord il vortice inverso attacchi la riva destra più della sinistra sommandosi con la forza della corrente.

“Fig. 4. – Macchina a sospensione.”

Ma, per tornare al breve excursus sui precedenti dell’Isotomeografo, dirò, che, in ordine di tempo, dopo il Braschmann che studiò algebricamente, ma pare in modo inesatto, la formula Perrot, viene l’astronomo Louis Maillard che ha ripreso con ricerche di laboratorio la questione, concludendo che per lui la deviazione delle correnti è da porsi «nella serie delle prove classiche della rotazione terrestre». Ultimo, o almeno ormai noto, viene il Tumlirz che ha fatto nel 1903 alcune interessanti esperienze nei locali dell’Istituto Geografico Militare di Vienna. Il loro risultato fu più qualitativo che quantitativo, ma confermò l’importanza della ricerca e la possibilità dimostrativa, che, malgrado i suoi errori contiene l’idea del Perrot.
Il P. Hagen, pur valendosi delle indagini di tutti questi predecessori, è riuscito a porre il problema sopra nuove basi sperimentali. Egli ha infatti ideato un esperimento pendolare nel quale, anziché una sola massa, ve ne fossero due sopra un’armatura a forma di losanga (fig. 2), spostabili, mediante la fusione d’un filo di comando, non solo dall’angolo superiore dell’armatura stessa ai lati, cioè da B a B’ e da C a C’, ma da questi all’angolo inferiore.
Le masse, in un primo modello del suo apparecchio erano rappresentate da una certa quantità di mercurio, scorrente, attraverso tubi posti sulle braccia dell’armatura, dai due serbatoi centrali superiori ai due serbatoi laterali e da questi ai due serbatoi centrali inferiori. Ma, essendo quasi impossibile che il mercurio scorresse nel tubi con eguale velocità e non restando perciò l’apparecchio in quello stato d’equilibrio ch’era necessario, l’inventore sostituì le masse di mercurio con due parallelepipedi di piombo foggiati a carrelli e mossi, anziché dalla gravità, da un peso centrale opportunamente collegato con funicelle e carrucole a tutto l’apparecchio (fig. 3). Tale peso, che può discendere ad una profondità di cinque metri, permette che i carrelli scorrano dal centro alla periferia e viceversa in modo così regolare da non produrre al congegno alcuna oscillazione verticale. Il luogo ove, fin dalle prime prove si svolsero le esperienze è quello fra le torri leonine che porta l’equatoriale fotografico dell’Osservatorio Vaticano. I suoi muri molto grossi e ben fondati danno sicuro affidamento di non oscillare e la sua altezza è più che sufficiente per portare una lunga asta metallica che serva da pendolo. Il P. Hagen, con l’aiuto di un teodolite, fece tracciare quindi sulle pareti del piano inferiore di essa un circolo diviso di 10 in 10 gradi per le necessarie misurazioni e attaccò poi il suo pendolo di torsione al sottosuolo del terzo piano della torre. Ora, tanto sperimentando col primo modello che col secondo, se all’equilibrio dell’apparecchio abbandonato a se stesso in assoluto riposo, si fa subire una qualsiasi variazione, spostando dal centro ai lati o viceversa le masse che vi sono attaccate, si osserverà che tutto il congegno si sposta anch’esso di un tratto ben misurabile. E non si può constatare solo questo, ma, ciò che vale di riprova, che, se lo scorrimento delle masse è avvenuto dalla periferia al centro, lo spostarsi del pendolo si verifica nella stessa direzione del moto rotatorio della terra e in quella invece perfettamente contraria se le masse si muovono dal centro alla periferia. Ora, dato che il sistema che sostiene le due masse potesse rotare senza attrito e nel vuoto, esso, se fosse stato messo prima in moto, conserverebbe indefinitamente pel principio d’inerzia tale suo moto uniforme e colla stessa velocità angolare. Ma, poiché spostando le masse si osserva che per la legge delle aree la velocità angolare cresce proporzionalmente all’accorciarsi del raggio vettore e diminuisce col suo aumentare, converrà pur concludere, che se la terra stesse ferma, nessun movimento proverrebbe al descritto apparecchio riposante nella sua posizione orizzontale dallo spostarsi delle masse, mentre la rotazione dell’apparecchio nel senso stesso della terra o in quello contrario, secondo che lo spostarsi delle masse si verifica col massimo o col minimo in esso possibile del momento d’inerzia, non solo conferma detto fenomeno, ma permette di misurarlo. Questo, perché se le esperienze dell’Isotomeografo col modello a mercurio diedero sopratutto le prove indirette e retrovertibili del moto; quelle col modello a carrelli di piombo permisero in modo più preciso la misura degli spostamenti, cioè delle differenze fra la velocità del pendolo e quella dell’ambiente.
Tali spostamenti, calcolati in anticipo colle costanti dello strumento, permettono di stabilire anche i momenti d’inerzia e la velocità angolare dell’ambiente. Ora, con tutte le esperienze eseguite, si è trovata una media velocità angolare di 0°168 ± 0.006, che corrisponde ai dati teorici cercati col calcolo per Roma. Com’è ovvio, se si portasse un isotomeografo all’equatore, essendo colà il piano d’oscillazione perpendicolare all’asse, la velocità angolare sarebbe eguale a zero; mentre se si esperimentasse ai poli, essa sarebbe di 15° ogni ora, poiché il piano d’oscillazione coinciderebbe con l’asse. Nei luoghi di latitudine intermedia, la velocità angolare sarà, secondo la nota formula, eguale a 15° sen. h = 15° sen. lat. x. Ora la latitudine di Roma è 41° 54′ e l’esito sarà quindi per essa di 10°. Il che, ridotto a unità di tempo e di angolo (v = 10°/60) dà quasi preciso il valore trovato collo sperimento, cioè 0°,167.
La fede nelle conclusioni scientifiche del passato, dati i molteplici mezzi di scrupoloso controllo che abbiamo ora a disposizione, dev’essere sempre relativa e si vede intatti come, riprendendo in esame problemi in apparenza già risolti, si riesca a portarvi spesso nuovi lumi o a considerarli da punti di vista per l’innanzi nemmeno sospettati.
Una bellissima prova di ciò la si ha nella seconda parte delle ricerche istituite negli Osservatori del Vaticano dal Ch. P. Hagen e nelle ricerche istituite dal Dr Gianfranceschi. E valga il vero.
Fin da principio delle sue esperienze il P. Hagen si serviva come di apparecchio ausiliario di una carrucola a sospensione bifilare posta dall’Ing. Mannucci nella scala triangolare del Giardino della Pigna, che gli permetteva di controllare le indagini fatte col pendolo orizzontale dell’Hengler o coi pozzetti di mercurio del Puiseux-d’Abbadie. Tale carrucola, su proposta dell’Ing. Mannucci, il P. Hagen pensò già da qualche anno di trasformarla in una Macchina d’Atwood a sospensione (fig. 4, 5, 6), aggiungendovi tre anelli di piombo, onde studiare il problema della deviazione dei corpi in movimento verticale che le ormai classiche esperienze del Guglielmini, del Benzenberg, del Reich e le più recenti del Prof. Hall hanno tutt’altro che esaurito. Come si sa la prima idea di tali ricerche non spetta già al Galilei, che si limitò ad affermare il fatto della deviazione verso est dei corpi che cadono, ma al Newton, che nel 1679, cioè 48 anni dopo la stampa del Dialogo supra i due Massimi Sistemi, proponeva all’Hooke di fare qualche esperienza in proposito. Solo il Gauss e il Laplace, dopo gli studi del Benzenberg, tracciarono una esauriente teoria del problema, svolgendone tutti ì precedenti e i conseguenti.

“Fig. 5. – Grande macchina d’Atwood.”

Di tutte le indagini sperimentali fatte prima di quest’ultime del P. Hagen nessuna riuscì ad accordarsi con la teoria, sia per i difetti di metodo, sia per l’insufficienza dimostrativa dal lato quantitativo, se non qualitativo. Poiché ben fu osservato come il problema presenti due quesiti: se esista la deviazione orientale dei gravi che cadono sulla superficie della terra, e se questa deviazione è quella prevista dalla teoria.
Ora, se si poteva ritenere dimostrato il primo, il secondo era insoluto e lo era soprattutto per la difficoltà di regolare e sorvegliare la caduta dei vari gravi scelti per l’esperimento. Il fenomeno non è certo constatabile senza infinite precauzioni. Il suo modo di attuarsi dipende, oltre che dalla forma del grave, dal mezzo usato per liberarlo dal suo primo punto d’appoggio, dall’altezza della torre o del pozzo in cui ci si trova, e dalle correnti d’aria che possono investire il grave stesso lungo la sua caduta. L’idea di guidare il corpo che cade, senza però impedirgli di «seguire le forze che lo sollecitano» è un’idea geniale e risolutiva e va data lode a chi l’ebbe per primo e al P. Hagen che seppe efficacemente valersene. Di fatto, appena l’Ing. Mannucci gli suggerì di valersi della puleggia fissa per lo studio delle deviazioni dei gravi, fu dato incarico al Ch. P. Stein dello stesso Osservatorio di studiare teoricamente il problema e il P. Hagen, dopo soli sei mesi dall’inizio dei lavori, poteva «presentare al mondo matematico riunitosi al congresso di Cambridge in Inghilterra, una soluzione completa del problema che da più di due secoli e mezzo aveva formato l’oggetto di studio di tanti scienziati».

“Fig. 6. – L’esperienza della puleggia secondo il dispositivo del P. Hagen.”

Ecco, in breve, come procedettero le esperienze. Nella parte superiore della scala del Bramante nel giardino della Pigna in Vaticano si pose una puleggia fissa, cioè una macchina di Atwood ridotta alla sua forma più elementare. I fili di seta «che reggono il peso e il contrappeso scendono, per un foro praticato sul pavimento nello spazio vuoto sottostante per un’altezza di 23 metri». I due fili scorrono entro un tubo che li ripara dalle correnti e finisce in una specie di cameretta fornita di due finestrini per le osservazioni. All’estremità superiore del filo è attaccato un peso d’ottone di 50 gr. preso come grave, mentre a quella inferiore od opposta è attaccato un contrappeso che è circa 3/4, del primo, staccabile dal suolo (ov’è trattenuto con un filamento fusibile) per mezzo d’una corrente elettrica. Come si può tosto intuire, s’inizia l’esperienza fondendo il filo d’attacco e liberando perciò il contrappeso. Il peso comincia allora la sua caduta che viene regolata da un anello lì sovrappeso e quindi da una molla che impedisce l’urto e il contraccolpo della fermata finale. Le deviazioni del grave non subiscono perciò alcuna alterazione secondaria di notevole importanza e possono essere studiate nel modo più preciso. Per ottenere le misure più esatte il P. Hagen pensò di servirsi di un teodolite rivolto sul filo o meglio sulla parte di filo cui è attaccato il grave e di munire l’oculare di una scala in vetro a divisioni graduate. Ogni deviazione del grave è quindi misurabile nel modo più scrupoloso. Com’è ovvio, se «l’asse del teodolite è nella direzione Nord-Sud si potranno vedere le deviazioni del filo verso Est o verso Ovest, e se invece è nella direzione Est-Ovest, saranno visibili le eventuali deviazioni verso Sud o verso Nord».
L’esito delle esperienze non poteva essere più dimostrativo. Infatti non sì poté constatar solo come il peso deviasse verso Est, ma si poté misurare la deviazione, e, ciò che vale ad eloquente riprova, si trovarono, tanto per questa prima direzione della deviazione, quanto per le leggi della caduta verso mezzogiorno, dei valori corrispondenti con un approssimativo massimo a quelli dati dalla teoria. E valga il vero. Su 65 esperienze relative alla deviazione orientale e 22 a quella meridionale l’ errore probabile medio è di mm. 0.027, con una entità millimetrica di deviazione di + 0.010 ± 0.027 verso Sud e di + 0.899 ± 0.027 verso Est, cioè di appena + 0.010 mm. di differenza tanto nell’un caso che l’altro coi valori dati dal calcolo. In una parola queste esperienze colla macchina di Atwood hanno mostrato: 1°. che un corpo in caduta non ha alcuna deviazione verso sud; 2°. che ne ha una di chiaramente rilevabile e misurabile verso est; 3°. che questa deviazione si avvicina ben di più alle cifre teoriche che non tutte le deviazioni finora studiate col mezzo della caduta libera. A ragione, quindi, il P. Hagen ritiene che, avendo l’esperienza con detta macchina, dato risultati così soddisfacenti, non vi sarà più nessuno che studi le leggi della caduta dei gravi col vecchio sistema delle cadute libero.
È seguendo queste idee che il Dr Gianfranceschi ha iniziato nell’Istituto Massimo delle Terme in Roma una serio di esperienze con puleggia che hanno dato dei risultati pure assai importanti, soprattutto per alcune modificazioni sperimentali che gli hanno permesso di calcolare con maggior precisione anche i minimi valori delle deviazioni.
Approfittando di un canale verticale con una superficie di sezione di circa 2/3, di mt² e alto 32 mt. esistente lungo il muro maestro di una delle facciate, il Dr Gianfranceschi dispose lungo di esso i fili della puleggia «facendo colpire col peso che cade un cartoncino bersaglio. A tal fine nella parte più bassa del canale, ad un metro e mezzo da terra, egli ha fissato nel muro una forte base circolare in legno, al cui centro fissò una cornicetta metallica quadrata, atta a contenere un cartoncino di un decimetro quadro di superficie, nel centro di questo è stampato in litografia un quadratino millimetrato di un centimetro di lato. Il centro di questo quadratino corrisponde esattamente al piede della verticale abbassata dal punto di sospensione del grave. Al di sotto del cartoncino, il legno della base è sostituito da un sughero. Il peso di forma cilindrica porta nella sua estremità inferiore una punta sottile d’acciaio che nella caduta fora il cartoncino e penetra nel sughero». Evidentemente, dopo ciascuna esperienza, si segna su ogni cartoncino la esatta posizione della verticale per gli eventuali spostamenti. Si possono così determinare le coordinate del punto colpito rispetto dell’origine, che è nel piede della verticale, e a due assi scelti, uno nella direzione del meridiano, e l’altro in quella perpendicolare. Per ciò la cornicetta metallica su cui sì fissa il cartoncino è già orientata in modo che i suoi lati sono paralleli a quelle due direzioni».
L’esito delle 175 esperienze, eseguite dal Gianfranceschi dal 26 giugno al 2 agosto 1918, sì possono riassumere così:
Deviazione Est
media di 175 prove = + 1.866 mm.;
Deviazione Sud
media di 175 prove = – 0.083 mm.
Il calcolo degli errori probabili diede per risultato, per la prima media, il valore di ± 0.0142 mm.; e per la seconda quello di ± 0.0104 mm.
I valori complessivi ottenuti furono quindi:
per la deviazione orientale mm. 1.866 ± 0.014.
per la deviazione meridionale mm. 0.033 ± 0.010.
Il che si avvicina assai ai valori teorici, che, date le condizioni di fatto e di posizione dell’esperimento, erano, rispettivamente, di 2.081 per la deviazione est, e di 0 per quella sud, calcolando tanto l’una che l’altra con le formule di Gauss sulla caduta libera e con le modificazioni apportate al P. Hagen alla macchina di Atwood.
Quale siano per essere le conclusioni definitive del problema, prospettato oggi sotto una nuova luce, non solo per queste geniali e importanti ricerche del P. Hagen e del Dr Gianfranceschi, ma per le considerazioni critiche di R. S. Woodward (The orbits of freely falling Bodies, in Astronom. Journal, agosto 1913), non è qui il luogo di prevedere, ma è certo che esso ha fatto un grande passo in avanti ed ha aperto tanto agli studi teorici che sperimentali un campo per l’innanzi nemmeno preveduto di proficuo lavoro.”

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