Mezzi meccanici di scrittura per i ciechi (1921)

Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di luglio 1921.
Di G.A.

“La prima idea di fornire ai ciechi una scrittura leggibile col tatto risale alla seconda metà del Cinquecento. Più precisamente vengono considerati come precursori di questa nobile e geniale idea un certo Rampazzetto di Roma e un tal Lucas di Madrid che, verso il 1579, idearono dei dadi di legno mobili sui quali erano incise delle lettere. Combinando insieme i dadi, si potevano formulare delle frasi.

“Valentino Haüy, scopritore dell’alfabeto per ciechi.”

In seguito di tempo si tentarono anche altre vie per ottenere lo stesso scopo, per esempio: infiggere degli spilli in un cuscinetto; infilare in un lungo filo dei caratteri ritagliati; incidere delle parole sopra tavolette spalmate di cera; far dei nodi convenzionali in una cordicella; bucherellare a rovescio con uno spillo i contorni delle lettere sopra una carta, in maniera che fossero leggibili col tatto nel lato opposto e via via. Ma tra le varie strade che si cominciarono a battere parve più sicura e più pratica quella dell’insegnare al cieco a scrivere direttamente sulla carta; e a questo scopo, ancora alla fine del 1600 fu escogitato un guidamano che aiutasse il cieco a scrivere diritto. In pari tempo si può dire che tutti i generi di alfabeti calligrafici, tipografici e parecchi convenzionali seno stati esperimentati, per vedere quale si prestava meglio al bisogno.
Ma il cammino fu assai lento, perché i vari tentativi avevano sempre carattere personale.
Era il cieco tale, o il parroco tal’altro, o il pietoso benefattore di Ginevra, di Cambridge, di Stoccarda, di Madrid, di Parigi, di tutti gli angoli del mondo insomma, che, senza tanto strombazzare, adottavano questo o quel sistema, e la cosa, il più delle volte, non aveva seguito o per poca praticità, o perché rimaneva ignorata. In generale le invenzioni a favore dei ciechi sono sempre state lente a diffondersi anche perché in realtà gli interessati sono, per fortuna, relativamente pochi nel mondo, e per di più vivono disseminati uno qua, uno là.
Solo ai nostri giorni i facili mezzi di comunicazione permettono il riunirsi di frequenti congressi, dove si discutono e si diffondono le nuove trovate che possono tornare utili ai ciechi.
Comunque, col moltiplicarsi delle prove, nel 1800 si venne alla conclusione che gli alfabeti ordinari a linee (calligrafici od a stampa) per quanto perfezionati, richiedono sempre un lungo esame del tatto per essere leggibili e per di più non si adattano ad una chiara trascrizione delle note e dei segni musicali, mentre la musica è l’arte alla quale i ciechi si dedicano con maggior passione e soddisfazione. I caratteri pertanto più convenienti per i ciechi sono quelli a punti in rilievo.
Nel 1809 il Klein di Vienna ideò un sistema di scrittura assai pratico, servibile tanto per i ciechi quanto per quelli che ci vedono. Una scatoletta contiene tanti piccoli timbri come quelli che usiamo per la ceralacca. Ogni timbretto porta all’estremità una lettera dell’alfabeto maiuscola, tracciata a rovescio e fatta di piccole punte. Premendo questi timbretti uno vicino all’altro sopra una carta distesa su di un panno si ottiene una scrittura leggibile facilmente dal lato opposto. Naturalmente un semplice regolo aiuta il cieco a scrivere diritto.
Questa scrittura rimase di uso universale in Austria e in Germania fino al 1850 ma oggi è andata in disuso.
Ma il sistema di scrittura che superò tutti gli altri per praticità e che oggi sì è imposto in quasi tutto il mondo è quello introdotto dal Braille.

“Luigi Braille, perfezionatore dell’alfabeto per ciechi.”

Luigi Braille nacque nel 1809 a Coupervray, poco lungi da Parigi.
Accecatosi per disgrazia a tre anni, maneggiando un trincetto di suo padre sellaio, ed entrato nell’Istituto dei ciechi di Parigi, fece tali progressi negli studi che nel 1826 fu nominato professore nello stesso istituto. Egli studiò a fondo la questione dell’alfabeto e alla fine ne propose uno che era una semplificazione dell’alfabeto proposto poco prima da un altro francese, Carlo Barbier. Costui aveva preso come base per la formazione delle lettere convenzionali, un gruppo di 12 punti, che combinati in vari modi davano 26 segni. Braille invece prendendo una base di 6 punti, giunse a combinare 63 segni facilmente distinguibili.
Non è a credere però che il nuovo sistema si sia diffuso rapidamente; anzi bisogna dire che incontrò subito una viva opposizione da parte degli stessi insegnanti dell’istituto, troppo attaccati al vecchio sistema di alfabeto romano allora in uso. Ma nel 1854, riconosciutosi che il nuovo sistema rispondeva a tutte le esigenze dell’istruzione dei ciechi, lo si adattò ufficialmente e dopo d’allora piano piano, andò diffondendosi in tutto il mondo.
L’alfabeto Braille è il seguente. Esso parte da un «segno generatore» o base costituito da 5 punti disposti come il sei di danari delle carte da gioco, cioè 3 in altezza e 2 in larghezza.
Aggiungendo a questi primi dicci segni il punto al posto più basso della prima fila verticale si ha una seconda serie di lettere.
Aggiungendo anche il punto più basso della seconda fila verticale si ha una terza serie di lettere.
Aggiungendo, sempre ai primi dieci segni, il solo punto più basso della seconda fila verticale si ha un’altra serie di vocali accentate o doppie che però non interessano la lingua italiana, Per rappresentare i numeri basta far precedere i primi dieci segni dal «segnanumeri».
Con altri simili accorgimenti e combinazioni si ottengono i segni di interpunzione, i segni aritmetici, le note musicali e quanto basta per la trascrizione della musica.
Più tardi il dott. Russ di New York adattò il Braille alla lingua inglese, curando che le lettere che sono di maggior uso in inglese fossero rappresentate dal minor numero di punti e volle che il lato maggiore dell’intera lettera fosse orizzontale e non verticale.
Ultimamente il signor Mascarò di Lisbona ideò un alfabeto fatto di punti, ma disposti in maniera che riescono facilmente leggibili anche a quelli che ci vedono.
Intanto, come riassunto di quanto abbiamo detto fin qua, possiamo fissare che i ciechi oggi, quando scrivono per proprio conto o per comunicare tra loro adoperano universalmente l’alfabeto Braille; quando invece devono comunicare coi veggenti impiegano altri alfabeti che variano da paese a paese.

“Alfabeto Braille.”

Passiamo ora a vedere quali siano i mezzi meccanici che facilitano al cieco lo scrivere.
Entriamo anche qui in un mare magnum di innumerevoli svariatissimi congegni più o meno complicati e di uso più locale che universale.
Ogni paese, anzi ogni istituto, ha i suoi preferiti.
Trattasi di guidamano, di stilografi, di tavolette per scritture a matita, di tavolette per scrivere a punti rilevati, di compositoi e di macchine da scrivere. Diremo assai brevemente di ciascuno.
I guidamano servono specialmente a chi, avendo perduta la vista in età matura, sa già scrivere ed ha bisogno soltanto di una guida per andar diritto. Consistono per lo più in una falsariga con righe rilevate o in una cornice alla quale sono tesi dei fili orizzontali e ad intervalli equidistanti tra loro. I fili, sovrapposti alla carta da scrivere sostituiscono le righe.
Gli stilografi sono un’asta o stilo di metallo o di legno con cui si scrive, coll’aiuto di un guidamano, sulla carta distesa sopra un panno.
Si ottiene così, a tergo della carta, una scrittura rilevata che è leggibile anche da un cieco.
Anche delle tavolette per scrivere a matita vi è grande varietà. Consistono per la maggior parte di un telaio rettangolare. Lungo un’asta, che si trasporta di riga in riga mediante appositi fori praticati nella cornice, scorre un quadretto, fatto come un finestrino munito di due o tre otturatori o chiavistelli. Aprendo e chiudendo questi chiavistelli e riempiendo colla matita il contorno del vano lasciato libero, si ottengono facilmente delle lettere leggibili ai veggenti.
Le tavolette per le scritture a punti rilevati sono assai adoperate per il Braille e per ogni scrittura affine. In Italia è usata una tavoletta Braille tascabile delle dimensioni di 17 cm. di lunghezza per tre e mezzo d’altezza. Essa consta di due pezzi rettangolari, delle dimensioni dette, che mediante una cerniera si aprono a libro. La parte superiore, d’ottone, ha tre righe di fori rettangolari equidistanti; e l’inferiore, di zinco, ha la superficie scanalata in senso trasversale. Il foglio di carta (carta fatta a mano perché conservi le impronte) viene chiuso fra queste due parti e riceve, attraverso il finestrino, l’impronta dei punti della scrittura Braille che vien fatta con un semplice punteruolo. Ad ogni finestrino corrispondono di sotto tre scanalature separate da rialzi e così le impressioni fatte dal punteruolo rimangono perfettamente allineate. Terminate le tre righe di scritto, sì apre la tavoletta e si sposta più in alto la carta.
Un altro tipo, assai pratico, di tavoletta Braille è grande quanto un foglio di carta. Con essa, invece di spostare la carta man mano che si scrive, si sposta in basso il regolo recante le caselline rettangolari del Braille.
In Francia, in luogo della finestrina rettangolare si hanno 6 fori nei quali si introduce il punteruolo. In Germania e in Inghilterra al contrario nella parte superiore vi sono le finestrine e nella sottostante corrispondono le incavature.
In ogni caso per ottenere con queste tavolette una scrittura che sul rovescio del foglio sia leggibile da sinistra a destra, è necessario scrivere da destra a sinistra e di invertire ogni lettera e ogni segno Braille, I compositoi sono scatole che contengono un piccolo corredo di caratteri, presso a poco come le nostre tipografie tascabili. Componendo questi caratteri, allineati coll’aiuto di un regolo, si possono stampare o imprimere due o tre righe di scritto, dopo le quali bisogna scomporre, rimettere i caratteri a posto e ricominciare da capo per poter proseguire.

“Ezio Piacentini, autore di macchine per ciechi.”

Anche in questo campo i tentativi risalgono a molto tempo addietro.
Tra i più noti è quello di un meccanico viennese che nel 1779 fece una scatola compositrice per la cieca Maria Teresa de Paradis, celebre musicista e figlioccia dell’imperatrice Maria Teresa. Un altro tentativo è quello di un nobiluomo della Garfagnana che nel 1308 fornì alla sua amica, contessa Fantoni di Lunigiana, che da giovane aveva perduta la vista, una cassetta con caratteri così perfetti che gli scritti sembrano il prodotto di una moderna macchina da scrivere.
Oggi le scatole compositrici più in uso sono due: quella del Klein di Vienna coll’alfabeto a punte di cui abbiamo parlato prima; e quella del Vaughan di Parigi a doppio uso perché i pezzi dei caratteri in un’estremità portano il segno in Braille e nell’altra l’alfabeto comune leggibile a tutti.
Riguardo alle macchine da scrivere possiamo dire che dal 1840 a questa parte fu una continua produzione, alla quale tutti i paesi più civili del mondo hanno collaborato, di meccanismi sempre nuovi o meglio rispondenti allo scopo di dare al cieco un mezzo per scrivere speditamente. Non è il caso di soffermarci ad esaminare tutti i tipi di macchine costruite, perché la cosa ci porterebbe troppo per le lunghe; ci basterà dire che nei primi cinquant’anni si batterono vie diverse, per arrivare, verso la fine dell’800, a quei tipi di macchine che, come la Hall di Filadelfia e la Picht di Berlino, sono ancora di uso comune dovunque.. Sei tasti, che possono essere battuti anche contemporaneamente, mettono in azione altrettanti punzoni coi quali si combina qualunque segno in Braille. Nel mezzo della tastiera vi è un tasto spaziatore.
La carta che riceve l’impressione dei punzoni è poggiata sul rullo di un carrello che, dopo ogni impronta, sì sposta automaticamente, come avviene in tutte le macchine da scrivere.

“L’Autotiflotipografica Vicentini.”

In questi ultimi anni poi si è giunti a costruzioni più complesse, come quella dello Stockhorn di Helsinefors (Finlandia) in cui il cieco preme le lettere del Braille e la macchina scrive caratteri usuali e il veggente tocca l’usuale e la macchina scrive il Braille. Coll’apparecchio del Montrucchio di Torino il Braille e l’alfabeto comune si scrivono non solo separatamente, ma, se si vuole, anche simultaneamente. Consimili risultati con piccole varianti si ottengono pure con le macchine del Nowack, dello Stiltz, del Picht, ecc.
Tutti i congegni di cui abbiamo parlato fin qua hanno per iscopo di dare al cieco un mezzo per scrivere. Ora facciamo un ultimo passo in avanti e guardiamo di quali macchine dispongano i ciechi per stampare.
L’idea di offrire carte, libri, ecc. stampati è antica.
Ancora alla fine del 1500 in Italia e in Spagna si stampavano in rilievo per i ciechi, mediante piastre metalliche debitamente incise. Nel 1640 il francese Moreau tentò senza riuscirvi d’impiegare a ciò caratteri di piombo. Ma più tardi Valentino Haüy, francese, anch’esso, il più benemerito amico dei ciechi, nel 1786 riusci a stampare libri coi caratteri mobili.
Ma tutti questi tentativi erano fatti da veggenti in favore dei ciechi e il lavoro di stampa era fatto solamente da chi ci vedeva.
Bisogna venire ai nostri giorni per trovare dei congegni da stampa che possono essere affidati nelle mani dei ciechi, perché se ne servano a loro vantaggio.
Fra questi ricordiamo una pressa pneumatica che sì fabbrica a Lipsia, capace di stampare dieci copie alla volta; e un’ingegnosa pressa del cieco Theodorescu di Bucarest, fabbricata a Francoforte sul Meno. Quest’ultima consiste in una cassetta sul fondo della quale si appoggia un compositoio. Piegando a destra un manubrio che sporge sul davanti dell’apparecchio, si apre il coperchio della cassetta e ad esso si applica il foglio di carta. Girando a sinistra, il coperchio si chiude e contemporaneamente si alza la piastra del compositoio che va ad impressionare la carta soprastante. Il compositoio poi è un quadrato di alluminio di cm. 30 X 30 circa che contiene 27 righe di bucherelli per scrittura Braille. Per comporre la scrittura si innestano nei forellini della piastra d’ alluminio delle punte d’acciaio che rimangono prominenti.

“L’Autotiflografica Vicentini.”

Negli Stati Uniti per stampare si usa il seguente procedimento. Con una macchina a 6 tasti e uno spaziatore, sul tipo della Picht, ma fornita di leve e di punzoni assai potenti, sì scrive in rilievo sopra due lastre di zinco che costituiscono la matrice per stampare. Poi con un torchio qualunque si comprime la carta fra le due lastre di zinco e si ha la stampa.
Noi in Italia abbiamo due macchine recentissime ideate e fatte costruire dal signor Ezio Vicentini di Vicenza. Sono macchine assai complesse, ma che danno risultati veramente pratici.
La prima, detta «Autotiflotipografica» serve a comporre; la seconda, detta «Autotiflografica» serve a stampare. Sono però indipendenti tra loro e una non ha a che fare con l’altra.
Trattandosi di produzione italiana recentissima ne parleremo un po’ largamente.
La prima delle due macchine, quella per comporre, ha la forma e l’aspetto d’un pianoforte verticale con 4 pedali e una tastiera di sole due ottave. I 25 tasti però, coll’aiuto dei pedali, sono in grado di far agire 64 segni.
Nell’interno, e precisamente nella parte più elevata, vi è il deposito dei caratteri di piombo da stampa in Braille. Questi sono allineati lettera per lettera in tanti binarietti inclinati verso il mezzo della macchina. Premendo un tasto, la lettera corrispondente, che è capofila nel deposito, si stacca dalle compagne e, seguendo un canaletto, scende in basso e va a collocarsi sopra una piastra che serve da compositoio. Premendo successivamente altri tasti, altri caratteri o spaziature vanno a collocarsi vicino al primo.
Quando la riga è riempita un campanello ce ne da l’avviso e allora, premendo uno dei pedali, si smuove di una riga il carrello che sostiene il compositoio e il lavoro procede così spedito fino alla fine della pagina. Quando la composizione e terminata la si passa ad un torchio qualunque per la stampa.
Questa macchina costruita nel 1914 è stata acquistata dall’Istituto Configliacchi per i ciechi di Padova, e fornisce pubblicazioni, specialmente musicali, a tutti gli istituti del Regno.
Sopraggiunta la guerra, la difficoltà di rifornimento dei caratteri da stampa ha stimolato il Vicentini a nuovi studi.
Ed eccoci all’invenzione dell’«Autotiflografica» di cui i è parlato nel luglio 1920 nel Congresso interalleato di Bruxelles per la rieducazione dei ciechi di guerra, e che fu illustrata poi nell’ottobre dall’inventore stesso al Congresso di Genova.
Questa macchina consta di due parti. La parte inferiore è un solido banco lungo un paio di metri, nell’interno del quale sono allogati un motore elettrico della forza di mezzo HP e quegli altri congegni che hanno l’ufficio di trasmettere alla parte superiore tutti i movimenti di cui essa ha bisogno. La parte superiore, cioè la vera macchina da stampa, è un congegnino poco voluminoso, ma che fa sbalordire chi pensa che è stato ideato e per la massima parte eseguito da un cieco. Il Vicentini infatti ha perduto la vista per una disgrazia di caccia, ancora quando aveva 18 anni e frequentava l’ultimo corso della Scuola Industriale di Vicenza.
Bisogna premettere che questa macchina non impiega per la composizione né i caratteri di piombo, né le lastre di zinco usate in America; ma bensì un cartoncino di cuoio leggero nel quale, con una delle solite macchinette a 6 tasti e uno spaziatore, tipo Picht, è stato in precedenza scritto in Braille, non a rilievo, ma a buchi, ciò che si vuole stampare.
Il cartoncino colla scrittura forata, posto sopra un carrello che si muove rasente al banco, viene a passare, riga per riva, sotto ad una lista di ottone nella quale sono praticati dei gruppetti di 6 fori Braille, che corrispondono esattamente con la scrittura del cartoncino sottostante. Nel momento in cui il foglio passa sotto alla striscia di ottone si abbassano tanti fascetti di 6 aste sottili di ottone rigido quante sono le finestrine della riga. Le aste che nella discesa trovano il passaggio ostruito dal cartone si fermano, ma quelle che lo trovano aperto, perché corrispondono ai fori delle lettere scritte sul cartone, si sprofondano ancora un po’ e mettono così in azione altrettante leve che spingono all’insù altrettante aste di ottone le quali vanno ad impressionare la carta che passa in quel momento nella parte superiore del meccanismo.
Ora se si pensa che questa macchina stampa circa 60 righe al minuto; che essa non richiede per la composizione caratteri metallici, oggi molto costosi; che le matrici di cartone, dopo fatta la tiratura di cui al momento si ha bisogno, possono essere messe in magazzino per i bisogni avvenire, ciò che non si può fare coi caratteri metallici; che le dette matrici possono essere preparate personalmente da chiunque abbia desiderio di stampare i propri lavori; che infine con questa macchina si può produrre al massimo buon mercato qualunque opera letteraria, scientifica o musicale destinata alla coltura dei ciechi; se si considera tutto ciò, si può concludere che la genialità italiana, anche in questo campo, non è rimasta seconda a nessun paese del mondo.”

Segreti dell’Orario ferroviario (1939)

Da La Lettura, Anno XXXIX, N. 10, 1° ottobre 1939.

“Questo libro, uscito or ora, è davvero modestissimo: sfoggerebbe una cifra iperbolica se l’editore volesse indicare la sua tiratura: duecentomila copie all’anno e milioni e milioni dalla sua nascita.
Dev’essere uno dei volumi più diffusi, più largamente venduti e più attentamente letti. Lo porta sempre con sé, e lo scorre l’uomo d’affari che della Divina Commedia conosce solo il primo verso dell’Inferno, e ignora — e se ne vanta — chi sia il romanziere di moda. Lo sfoglia e si indugia sulle sue pagine anche la bellissima signora (arie intellettualistiche) che lo custodisce fra la sua roba e qualche sera lo posa sul comodino prima di addormentarsi.
Non c’è pericolo che il compratore di questo volume lo butti in un angolo, dopo una prima scorsa, come fa con altre opere. Non c’è neppure pericolo che un paio di settimane dopo l’uscita dalla tipografia, il libro finisca su una bancarella. Su questi banchi delle liquidazioni letterarie si troverà il grande classico e l’ultimo venuto, ma non l’Orario generale delle Ferrovie dello Stato. Almeno, io non ce l’ho mai trovato.
Un libro che non presenta alee: l’editore non si chiede se sarà l’opera che la gente attende come una rivelazione, o quella che farà muffa nel magazzino. La gente attende con interesse, talvolta con lieve ansia, la ristampa dell’orario e lo sollecita al rivenditore. Un libro di grande, sicuro avvenire, come di glorioso passato.

“Uno dei primi orari italiani: 1863. Foto Urbani.”

E qui mi pare giunto il momento di tagliar corto col preambolo e di rivelare la mia intenzione di fare l’elogio dell’Orario ferroviario e un po’ la sua storia. Le Ferrovie italiane celebrano il loro primo centenario. Bene, nella circostanza — celebrazione più, celebrazione meno — festeggiamo anche il settantottesimo compleanno dell’Orario ferroviario.


Elogio. Sfidando le ire di quanti vedono nell’Orario una bestia nera, un libro di algebra ferroviaria, incubo della vigilia dei viaggi, affermo che è un volume istruttivo, interessante e anche divertente. Bisogna vincere la prima avversione per quelle colonne di cifre e penetrare nella stenografia dei suoi segni convenzionali e dei suoi simboli e farseli familiari. Poi, può diventare, nelle nostre ore di ozio, un libro di avventure di viaggio. Con un po’ di fantasia ci si sbizzarrisce nei viaggi più belli per il mondo, in ferrovia, autobus, piroscafo, aeroplano: e sono i viaggi veramente belli, non limitati o tormentati da esigenze di tempo, di luogo e di denaro. Se un treno non è comodo, se ne prenderà un altro o si preferirà la linea aerea.
Bassora? Bassora? Ecco, vorrei andare a Bassora, città dell’Asia occidentale, sull’Eufrate. Vediamo: la posso raggiungere per la prima parte del percorso in ferrovia fino a Roma e Brindisi o con l’espresso dell’Oriente fino ad Atene, e per il resto in piroscafo o in aereo. Questo viaggio non mi piace? Me ne scelgo un altro e, passando da un quadro e da una finca all’altra dell’Orario ferroviario, sogno di navigare verso l’Africa italiana e di compiere una gita sulla rete delle nostre ferrovie coloniali.
In giro per il mondo, nelle pagine di un indicatore ferroviario.

“L’austera redazione dell’Orario ferroviario. Foto Urbani.”

Stanco di correre con la fantasia, voglio fare poi un viaggio di istruzione tra le stesse finche dell’Orario. Quante nozioni in questa Crusca dei trasporti ferroviari, tranviari, lacuali, automobilistici, aerei e persino postali. Andando da Milano a Venezia, vedrò alla mia destra o alla sinistra il fabbricato viaggiatori della stazione di Sommacampagna-Sona? Questo segno mi dice che è sulla sinistra. Se poi mi interessa, posso sapere pure che l’abitato di Sommacampagna dista tre chilometri dalla stazione e due quello di Sona. A Romano potrò soltanto dissetarmi, mi avverte questo simbolo di bicchiere. E questo coltello incrociato con la forchetta mi indica che troverò da mangiare a Chiari e Rovato. A Romano posso disporre di un servizio automobilistico e a Peschiera c’è un battello.
Questa tromba da postiglione? Mi avverte che col diretto 415 viaggia un ambulante postale. Questo rettangolo con le ruotine che vuol simboleggiare una carrozza ferroviaria segnala la vettura diretta mista, per le tre classi, Boulogne-Laon-Basel-Luzern-Trieste. E quanto mi conforta quel lettino da bimbo nella colonna dell’N.V.: c’è da dormire in cuccetta, su quel treno.
Ci trovate persino l’esatta accentazione dei nomi delle stazioni. Si pronuncia Mignànego o Mignanègo? Mignànego, accento grave sull’a. Insomma, un’enciclopedia di viaggi.


Origini e storia dell’Orario ferroviario. Agli esordi delle ferrovie italiane c’erano diverse reti e ciascuna, si capisce, provvedeva con manifesti od opuscoli a comunicare gli orari al pubblico. C’era l’orario della Strada ferrata centrale toscana, quello della regia Strada ferrata da Napoli a Caserta, ecc.
L’idea di unire gli elenchi delle varie reti in una unica guida nazionale fu del cav. Stefano Demennevalle, da Torino, il quale nel 1861 compilò e stampò l’Indicatore generale delle Strade Ferrate: il bisnonno dell’Orario odierno. Una trovata. Con lettera del 28 ottobre dello stesso anno, il ministro dei Lavori Pubblici autorizzò il Demennevalle a dare alla sua pubblicazione il titolo di ufficiale.
Era un opuscolo quindicinale, in una trentina di pagine, in quarto di foglio. Eccolo qua, ingiallito ma ancora nitido, nella raccolta preziosa dei primi orari. La parte pubblicitaria è invasa da nomi e diciture francesi, dalla ditta industriale (di quanto si era tributari all’estero, allora!) all’hôtel meublé.
Non c’era da smarrirsi nei pochi quadri orari, fra le poche comunicazioni ferroviarie. Nel volume del 1865, putacaso, vediamo che fra Torino e Milano correvano quattro convogli sull’intera tratta e uno fra Torino-Novara. Verso sud, tre comunicazioni Torino-Alessandria e quattro Torino-Genova oltre a un locale Alessandria-Genova.
Si partiva alle 4.35 da Milano e si giungeva alle 11.25 a Genova. Partenza da Milano, in diretto, alle 10.25 antimeridiane, arrivo alle 3.25 pomeridiane a Bologna e alle 9.25 di sera ad Ancona. Chissà che disastro i treni dei mariti di allora (cerano già?) con il viaggio di una giornata, su quelle carrozze, per raggiungere la riviera!
Nell’Indicatore si parla di antimeridiano e di pomeridiano, e si precisa di che ora si tratti. Esempio: partenza alle 8.35 antimeridiane da Torino, ora di Torino, e arrivo alle 5.22 pomeridiane a Verona, ora di Verona. (Adesso — Novecento — c’è l’ora media dell’Europa Centrale.)
Si partiva alle 10.20 a. da Roma e, per Velletri, Ceprano e Capua, si arrivava alle 5.25 p. a Napoli, naturalmente ora locale. E i prezzi? Da Bologna a Pistoia, in prima classe, 10.80 (lire di allora) e rispettivamente 8.65 e 0.50 per le altre due classi. Da Torino a Novara 5.25 in terza classe e 3.05 da Novara a Milano…
Per quanto accurato fosse (conteneva persino una rubrica scientifica che segnalava via via le nuove conquiste nel campo delle comunicazioni) l’Indicatore del cavalier Stefano Demennevalle non ebbe vita felice. Tirò avanti fino al 1876, quando venne acquistato dai fratelli Pozzo che ne divennero i nuovi editori. E chi sono questi famosi fratelli Pozzo?
Giacomo e Paolo Pozzo erano nati a Mantova rispettivamente nel 1838 e 1840 e, giovanotti, avevano attraversato il Ticino insieme ad altri volontari lombardi per arruolarsi sotto Vittorio Emanuele II, nella campagna del 1859. Finita la guerra non erano più tornati alla città natìa. Paolo entrò nella carriera militare frequentando l’ Accademia di Modena e Giacomo divenne ingegnere: egli fu il vero iniziatore della ditta che doveva acquistare tanta notorietà.
L’ing. Pozzo cominciò con due torchi litografici per minuti lavori, si direbbero oggi, commerciali. I suoi primi clienti furono le ferrovie torinesi: clienti alla buona. Il capostazione chiamava l’ingegnere e gli ordinava mille o duemila biglietti per questa o quella relazione; a commissione eseguita, la fattura. Giacomo Pozzo era, si può dire, di casa, in ferrovia, e lo diventò realmente quando gli concedettero prima un locale per i suoi torchi e poi altre stanze per la nascente azienda, nello stesso edificio della stazione di Porta Nuova.

“Il signor Michele Bondante, da 48 anni redattore dell’Orario ferroviario. Oggi è capo-redattore. Foto Urbani.”

La clientela si estendeva anche alle altre compagnie ferroviarie. Giacomo aveva bisogno di un aiuto e indusse il fratello Paolo ad abbandonare la carriera militare per associarsi a lui nella tipografia. Questo nel 1870. Ed ecco come si formò la ditta Fratelli Pozzo. L’azienda prosperò, tanto che nel 1908 dovette lasciare Porta Nuova per trasferirsi nell’attuale sede.
Nel 1898, ai fratelli Pozzo si associò il cav. Carlo Sobrero che l’anno precedente aveva lasciata la carriera militare (era capitano di fanteria) e che diede nuovo impulso all’azienda. È difficile trovare una affinità tra orari ferroviari e milizia; eppure tutti i dirigenti del «Pozzo» vennero dall’Esercito, costituendo una bella tradizione militare: anche il cav. Domenico Canonica, amministratore dal 1928, aveva raggiunto il grado di maggiore di artiglieria da montagna ed è mutilato di guerra, tre medaglie al valore.
Giacomo Pozzo morì nel 1910, il Sobrero nel 1928 e Paolo Pozzo cinque anni fa.
L’originario Indicatore si trasformò più volte e continuò ad ampliarsi per raccogliere la crescente materia. L’attuale Orario generale, continuazione dell’antico indicatore, ebbe il nuovo titolo e la nuova veste nel 1898; e per questo segna, nella copertina, l’anno quarantunesimo.
Dalle trentadue pagine del 1865 si è saliti alle 484 del 1926 e alle attuali 640. E la guida ufficiale delle Ferrovie dello Stato è divenuta l’enciclopedia mensile di tutti i trasporti pubblici, o semplicemente «Il Pozzo», pubblicazione notissima anche fuori d’Italia. I Francesi hanno il loro Chaix (85 anni), i Tedeschi il loro Reichs Kurs Buch e gli Inglesi il Bradshaw, libri nazionali. E noi abbiamo il nostro Pozzo, dizionario italiano dei treni.
Un libro di glorioso passato, come dicevo, ma anche di sicuro avvenire, chè l’arricchimento delle sue rubriche e l’aumento delle sue pagine rappresenteranno i futuri progressi delle nostre comunicazioni. II cav. Demennevalle elencava pochi treni per ogni linea; ma ora i «fratelli Pozzo» devono pigiare in una pagina venti, trenta finche per altrettanti convogli. Per alcuni quadri non bastava più una sola lunga pagina: si è dovuto avanzare a poco a poco in quella di fronte. Le Ferrovie progrediscono e il «Pozzo» deve accrescere la materia nelle sue ristampe mensili: ogni treno che nasce, è una finca in più…


Nasce un nuovo treno e il «Pozzo» è incaricato di darne l’annuncio. Con l’aggiunta dei nuovi venuti e le modificazioni agli orari esistenti rinasce a sua volta, ogni mese, la guida ufficiale e con essa una filiazione di porzioni di orario generale: quattordici indicatori regionali e interregionali oltre all’orario internazionale che serve particolarmente per i forestieri ai quali si indicano le varie vie di ingresso in Italia. La famiglia degli orari, grandi e piccini, ha la tiratura annua di due milioni di copie.
Al lavoro di composizione è addetto un personale specializzato. Alcuni operai lavorano da venti, trent’anni per il «Pozzo»: il caporedattore, Michele Bondante, e il direttore tecnico della tipografia, Carlo Brunetti, hanno il primato dell’anzianità con 48 anni di lavoro ciascuno, agli orari; cominciarono da ragazzi e continuano tuttora, con il solo intervallo, a vent’anni, per il servizio di leva. Pensate, quasi mezzo secolo, tutta una vita di lavoro, otto ore al giorno, tra interminabili colonne di ore, tra segni convenzionali (trombe di postiglioni, lettini, forchette incrociate a coltelli) e avere la mente piena di accelerati, omnibus, modificazioni d’orario: il 456 che anticipa di un minuto, l’impostazione di una nuova automotrice…
E vivere le avventure e i drammi tipografici dei treni che mutano ora o che nascono. Presto, c’è da mandare a Roma la bozza del quadro 45, corretta. E l’AT 345 che per un minuto di anticipo manda all’aria tutto un quadro? E la correzione all’AT 316 è stata fatta? E quante apprensioni per il varo del nuovo AT 432. Poi c’è da mettere a posto una linea automobilistica della Sicilia, l’OS, il 17 e il 19.

“Fusione dell’Orario ferroviario. Foto Urbani.”

Ma, come il capostazione dell’aneddoto, gli uomini dal mezzo secolo di orari sul gobbo, che hanno approntato gli indicatori per milioni e milioni di viaggiatori, alla domenica dimenticano i treni lusso, i rapidi internazionali, la carrozza diretta Paris-Lyon-Roma che il giorno prima li hanno fatti ammattire, e sono felici di passeggiarsela sotto i portici o sul lungo Po. I loro viaggi preferiti sono stati per Trofarello o Lanzo, in gita. Ci si saranno ritrovati, fuori dalla tipografia, a consultare il loro orario, in veste di viaggiatori, e a trovare il treno buono?
Ma siamo noi che vediamo nella fucina degli orari questa farragine. In realtà c’è il massimo ordine; nessuna precipitazione, chè dote prima del compositore, con l’intelligenza, deve essere la pazienza. Figuratevi che ogni pagina dell’Orario ufficiale è formata da 13 mila pezzetti di piombo; 13 mila lettere in corpo sei. Bisogna comporle in righe, in finche, poi in quadri, poi in pagine, presto e bene. Non è ammesso il minimo errore negli orari. Cosa succederebbe se ne scappasse uno, provocato da un’inversione di lettere, e nell’indicatore si segnasse alle 8.51 la partenza del treno delle 8.15?
Le pagine di piombo composto vengono conservate (tenute in piedi, dicono i tipografi) in speciali scansie (60 tonnellate di metallo) per essere riprese per le nuove edizioni. Il compositore le slega, le seziona, aggiunge, taglia, modifica con una sicurezza e una precisione che stupiscono. Poi le pagine, man mano licenziate, passano in stereotipia; e mentre il pacco di piombo torna nello scaffale, la lastra stereotipata inizia il lavoro di stampa.
Dalle macchine piane e dalla rotativa escono le pagine stampate, che poi sono ripiegate, pure a macchina, e formano le segnature. Con la raccolta di queste, si comincia a vedere l’embrione del libro che, attraverso la rilegatrice e la tagliatrice automatiche, prende la sua veste perfetta. In pacchi gli orari sono poi spediti dovunque: alle rivendite, alle aziende, ai privati, alle agenzie di viaggio, nel Regno e fuori. (Questo volume in fascetta andrà al turista americano che l’ha richiesto da Nuova York o da Buenos Aires: gli serve per il suo prossimo viaggio in Italia).
Sì, per tutto il mondo, chè nei grandi alberghi cosmopoliti, nelle agenzie, negli uffici delle maggiori aziende, con lo Chaix, il Reichs Kurs Buch e il Bradshaw, c’è il Pozzo che, allora, non appare più un arido libro di orari, ma un’insegna della vita italiana che si esprime attraverso i suoi trasporti.
La diffusione e il successo librario dell’Orario ufficiale delle Ferrovie è veramente eccezionale; non gli può stare a pari nessun volume di versi, nessun romanzo. (Si ha migliore fortuna a pubblicare guide ferroviarie, che non poesie e novelle). Un’opera che va dappertutto, viaggia nelle borse degli uomini d’affari o nelle valigie profumate delle signore; viaggia per davvero e non si accontenta di far viaggiare gli altri, come i suoi compositori che alla domenica passeggiano sotto i portici o vanno in gita a Trofarello, Sassi e Soperga.
Ma ha una vita troppo breve, di un mese solo. Agli ultimi giorni del ciclo mensile, l’Orario ufficiale comincia a non interessare più; il suo proprietario attende la nuova edizione. E quando questa arriva, la vecchia, con le pagine spiegazzate, segnate da appunti e richiami a lapis e a stilografica, bruttate dalle impronte digitali dei suoi consultatori, è finita. Per questo gli orari vecchi non si trovano sulle bancarelle; non hanno più alcun valore, se non quello di cartaccia, e precipitano al macero o vengono squinternati per servire come cartaccia.

“Composizione dell’Orario ferroviario. Foto Urbani.”

Cartaccia. Non ci si preoccupa neppure di conservarli come cimelio. Ci sono i raccoglitori di etichette, ma, che si sappia, non c’è nessuno che faccia raccolta di orari ferroviari fuori corso.
Eppure questo volume, sgualcito e sudicio, nasconde tanti segreti nelle pagine che più nessuno consulterà. All’inizio del suo ciclo, prometteva tanti bei viaggi e faceva galoppare la nostra fantasia, nelle ore di ozio, a Bassora, a Cartum, Macugnaga o Mignànego. E alla fine del suo corso, racconta: è divenuto un libro di ricordi, di memorie, di avventure di viaggio vissute, naturalmente, per chi sappia interpretarlo e comprendere il perché di un segno, di un appunto a lapis, o della mancanza di una pagina strappata.
L’orario racconta o, almeno, dovrebbe raccontare. Ma chi se l’è tenuto insieme per un mese, informatore enciclopedico, guida dottissima, lo butta via in blocco: cartaccia.
Perché non strappare una pagina di questo volume, una certa pagina, da custodire in un libro familiare al posto dei petali secchi cari al Romanticismo?
INFORMATORE”

Diritto aereo (1913)

di Fabio Luzzatto.
Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di febbraio, 1913

“La scoperta, il perfezionamento e la diffusione dei mezzi di trasporto aerei non poteva non dar luogo a questioni o, per lo meno, alla possibilità di questioni che è interesse generale di veder risolte in base ai principî generali di giustizia e senza però che le massime tradizionali possano impedire di ostacolare comechessia lo sviluppo del nuovo mezzo di locomozione.
Le prime questioni che si sono affacciate sono quelle di diritto privato provenienti dal passaggio e dall’atterramento degli aeroplani e dei dirigibili.
Infatti, sino a che il fatto si presentava come eccezione fenomenica e quasi miracolo dell’arte o dell’acrobatismo, non dava luogo a dubbi o controversie, appunto per il suo carattere di eccezionale rarità. Ma ripetutisi gli esperimenti e accertata la possibilità di valersi di questo mezzo di trasporto; resisi anzi più frequenti, non solo le esperienze, ma addirittura l’esercizio abituale della locomozione aerea, non si è potuto a meno di pensare alla, risoluzione dei problemi giuridici che ne derivano.
Quanto all’atterramento, se evidenti ragioni di umanità non potranno certo mai opporvisi dovunque esso accada per suprema necessità di salvezza, certo è altrettanto che dovrà sempre essere procurato dai naviganti dell’aria che avvenga nel luogo e nel modo del minor danno, e che il danno che non sia stato causato da irrefrenabile forza maggiore, debba sempre essere risarcito. E fino a qui non vi è novità alcuna nella applicazione di principi generali del diritto che trovano luogo di essere richiamati.
Più viva e meno suscettibile di soluzione immediata è la questione relativa al transito degli aeroplani ed alla maggiore o minore altezza da osservarsi sui luoghi abitati ed attigui.
Certo nessuno invocherà l’antico principio della proprietà usque ad inferos, usque ad superos. I limiti del diritto di proprietà come di ogni altro diritto sono dati prima di tutto dai limiti delle stesse forze umane; né si può pretendere di conservare e di voler rispettata una pretesa che non si è neppure in grado di far valere nella materialità fisica.
Neanche si può pretendere (quando pur farlo si potesse) di impedire ad altri l’esercizio di atti che non recano danno e che non vengono a limitare per alcun modo l’esercizio del proprio diritto.
Converrebbe che la navigazione aerea fosse pervenuta a un alto grado di perfezionamento, perché si potesse pensare a divieti di librarsi sopra l’altrui proprietà, limitando con la propria permanenza il pieno godimento dell’immobile. E sia la risoluzione negativa per ciò che riguarda il rapido, fugace ed alto transito; sia la soluzione positiva quanto al divieto del getto e del danneggiamento, trovano già fondamento nelle vigenti disposizioni circa il divieto di recare altrui danno e l’obbligo generale di risarcirlo quando sia cagionato.
Dove invece fino dal primo istante si è potuto e dovuto pensare ad un regolamento giuridico è stato nei riguardi del diritto pubblico.
Un nuovo modo di locomozione infatti rende più agevole agli individui di sottrarsi dall’osservanza di quelle norme di polizia e di sicurezza che, dettate nell’interesse pubblico, esigono frequenti volte la coercizione degli organi dello Stato perché vi sia data da tutti e sempre esecuzione.
Di qui la necessità di accrescere e determinare ancor più norme preventive, là dove le repressive non avrebbero potuto facilmente applicarsi.
Basta infatti pensare al semplice fatto del contrabbando e alla rinnovata facilità di oltrepassare non visti il confine politico e di atterrare in luoghi discosti e sottratti alla vigilanza degli Ufficiali doganali e finanziari.
Basta pensare alla possibilità di avvicinarsi e considerare dall’alto fortificazioni terrestri o marittime non più custodite abbastanza dalle vigilanti scorte a distanza, all’efficacia degli aeroplani in guerra, e quindi alla dimostrata esigenza di accordi internazionali, in proposito.
Le principali dottrine informative del diritto aereo che tengono il campo sono due: quella dell’aria (o meglio dello spazio) territoriale, ossia soggetta alla sovranità dello Stato sottostante; e quella della libertà dell’aria.
ll Catellani adotta un’opinione intermedia così espressa: «Nei riguardi dell’uso innocuo a fine di passaggio e di via di comunicazione, tutto lo spazio aereo interessa la generalità e deve considerarsi comune a tutto il genere umano; nei riguardi del minimo necessario di integrazione di sovranità e di difesa del territorio sottostante, tutto lo spazio aereo deve considerarsi come una dipendenza del territorio corrispondente. Non trattasi di libertà limitata da certi diritti riservati al territorio, o di sovranità limitata da certe servitù di passaggio, ma bensì della coesistenza di due diritti che, nell’orbita della esplicazione rispettiva, si estendono l’uno a tutto lo spazio mondiale, e l’altro a tutto lo spazio corrispondente al territorio di ogni singolo Stato» (Il diritto aereo, p. 46-47).
E arrivando così ad un concetto di condominio ne trae la deduzione, «E poiché il diritto della generalità e il complesso dei diritti dei singoli Stati si estendono insieme a tutto quanto lo spazio, a quella guisa che due diversi gas possono espandersi a tutto l’interno di un medesimo recipiente, il loro coordinamento, così che l’un diritto non offenda l’altro, non può concepirsi se non come l’effetto di una legislazione internazionale».
Così nel 1909 si costituì a Parigi un «Comité Juridique International de l’Aviation», e altrove dei Comitati nazionali e locali, col proposito di preparare un codice dell’aria.
Questo sarebbe costituito da 6 titoli: 1.° Diritto pubblico aereo: carattere giuridico della atmosfera: approdo; nazionalità degli aerostati; convenzioni diplomatiche; 2.° Diritto privato aereo; proprietà dello spazio sottostante; forza maggiore: domicilio dell’areonauta; 3.9 Diritto commerciale aereo; 4° Diritto amministrativo aereo; 5.° Diritto fiscale aereo: 6.° Diritto penale aereo.
Così pure si è creduto conveniente di convocare un Congresso giuridico internazionale per il regolamento della locomozione aerea: e questo ha avuto luogo a fine maggio e primi giugno 1910, per opera di un Comitato ordinatore composto di spiccate personalità della scienza giuridica italiana e straniera in Verona.
Furono ivi posti all’ordine del giorno i temi seguenti:
I. Natura giuridica dell’aviazione in relazione all’atmosfera navigabile.
1. Rapporti giuridici tra il proprietario del suolo e lo spazio aereo sovrastante.
2. Rapporti giuridici fra lo stato territoriale e lo spazio aereo sovrastante (nazionalità degli apparecchi aerei, extraterritorialità, ecc.).
II. Norme d’ordine interno.
1. Diritti e funzioni dello Stato.
A) Sicurezza e sanità pubblica:
a) funzioni dello Stato in generale;
b) Polizia della locomozione aerea (sopra le città ed altri luoghi abitati, le vie ordinarie e ferroviarie, fluviali. ecc.; del getto).
c) Delle garanzie di capacità dei costruttori e degli aeronauti;
d) Della polizia amministrativa degli aerodromi e delle corse aeree.
B) Diritto finanziario (tasse, trattamento doganale).
2. Diritti è doveri dei navigatori e passeggeri:
a) Assicurazioni;
b) Privative industriali;
c) Delitti, quasi delitti, responsabilità garanzie in materia di aviazione.
3. Obblighi al soccorso e discipline relative.
4. Norme di giurisdizione e rito.
III. Regolamento internazionale.
1. In tempo di pace.
2. In tempo di guerra.
3. Prime linee di una unione internazionale per l’aviazione.
La discussione del Congresso di Verona e le conclusioni a cui pervenne, risentono dello stadio ancora arretrato di sviluppo della locomozione aerea. Si ripete in questo caso quello che è regola generale di diritto: ex facto oritur ius: è necessario che dalla realtà dei fatti sorgano e si verifichino nella realtà quei conflitti che dimostrano i bisogni e gli interessi più meritevoli di essere preteriti, I più notevoli voti del Congresso di Verona furono i seguenti:
1.° Che ogni aeronave abbia una nazionalità e ne porti con sé le prove;
2.° Che i criteri di determinazione della nazionalità siano identici per tutti gli Stati;
3.° Che il criterio di determinazione preferibile sia quello della nazionalità del proprietario;
4.° Che la nazionalità debba risultare dalla immatricolazione e annotazione in pubblici registri;
5.° Che siano istituiti punti speciali di atterramento dei veicoli aerei, con apposite indicazioni e segnati sulle carte. La discesa nei luoghi pubblici dovrà essere disciplinata dalle Autorità amministrative;
6.° Che debba ritenersi lecita, salvo l’eventuale risarcimento dei danni, la discesa di veicoli aerei anche nei fondi privati, nei soli casi in cui ciò sia richiesto dalla necessità, che si presume, sino a prova contraria;
[nota: il 7° punto manca nel testo originale]
8.° Che l’indennità sia dovuta in caso di responsabilità soggettiva diretta e indiretta, a termini del diritto comune e per i danni recati dall’esercizio dei diritti speciali (atterramento, ecc., che si richieda un minimo di garanzia per l’esercizio dell’aviazione, ma che non si ecceda per non impedire lo svolgimento dei fortunati tentativi di aviazione;
9.° Il Congresso ha ritenuto poi che in materia di assicurazione, allo stato attuale non si possano applicare né direttamente, né per analogia, le regole dell’assicurazione marittima.
Inoltre è stato approvato:
1.° Che lo spazio atmosferico sovrastante al territorio ed al mare territoriale di ciascuno Stato si debba considerare come spazio territoriale soggetto alla sovranità dello Stato medesimo, e che lo spazio sovrastante al territori non occupati od al mare libero si debba considerare come libero.
2.° Che anche nello spazio territoriale il transito e la circolazione dei veicoli aerei debbano esser liberi, salve le norme necessarie a tutela degli interessi pubblici e privati, e salvi e gli effetti giuridici inerenti alla nazionalità dei veicoli stessi.
3.° Che la circolazione dei veicoli aerei nello spazio libero debba, in quanto è necessario, essere disciplinata mediante accordi internazionali.
4.° Che nell’applicazione del regime doganale sanitario e militare gli Stati adottino sistemi che non vincolino soverchiamente la libertà della navigazione aerea.
5.° Che sieno introdotte nella nostra legislazione disposizioni intese a punire; a) chiunque taccia sorgere in qualsiasi modo il pericolo di danno agli aerostati e ai veicoli aerei; b) chiunque cagioni danni ai navigatori e ai loro apparecchi nell’atto del loro funzionamento.
Infine si è emesso un voto tendente:
1.° Alla periodicità dei Congressi giuridici internazionali per regolamento della locomozione aerea;
2.° Alla costituzione di un Comitato internazionale incaricato di perseguire l’attuazione delle decisioni votate e di preparare il programma dei Congressi successivi.
Quanto agli aeroplani in guerra essi furono per la prima usati volta nel Messico l’11 febbraio 1911, dove l’aviatore Hamilton fece dei rilievi sulle posizioni militari.
Più tardi furono largamente adoperati dalla Italia durante la guerra di Libia; e ognuno ricorda gli incidenti e le discussioni alle quali il fatto diede luogo. Furono pure adoperati nella guerra Bulgaro-Turca. A questo proposito, nella nota conferenza dell’Aja che ebbe luogo nel 1899 era deposta una dichiarazione concernente l’interdizione di lanciare proiettili ed esplosivi dall’alto dei palloni o per altri nuovi modi analoghi. Il testo delle dichiarazioni era il seguente:
«I sottoscritti plenipontenziari delle Potenze rappresentate alla Conferenza internazionale della pace all’Aja, debitamente autorizzati a questo effetto dai loro governi, inspirandosi ai sentimenti che hanno trovato la loro espressione nella dichiarazione di Pietroburgo del 29 settembre, 11 dicembre 1868, dichiarano: «Le Potenze contrattanti consentono per una durata di cinque anni, all’interdizione di lanciare proiettili ed esplosivi dall’alto dei palloni o in altri nuovi modi analoghi».
La presente dichiarazione non è obbligatoria che per le Potenze contrattanti, in caso di guerra fra due o più fra loro.
Essa cesserà di essere obbligatoria dal momento nel quale in una guerra fra le Potenze contrattanti, una Potenza non contrattante si unisse ad uno dei belligeranti.
La dichiarazione non fu rinnovata allo spirare del quinquennio e cessò di aver quindi effetto anche per quelle potenze che vi avevano aderito nel 1904.
Alla conferenza dell’Aja del 1907 venne riproposta: ma solo da alcune potenze (tra la quale non fu l’Italia) firmata.
Quanto alle legislazioni di singoli Stati, ricordiamo quanto segue:
Nella Gran Bretagna, un atto del Parlamento autorizza il Governo a vietare, quando lo creda, per proteggere il pubblico dai pericoli dell’aviazione, l’aereo-navigazione sopra determinati luoghi. Ma la prima legge completa, relativa al diritto aereo, ci arriva dagli Stati Uniti e precisamente dal Connecticut.
Nell’atto recentemente approvato dal Parlamento locale, e ormai in vigore, il termine «nave aerea» comprende ogni specie di veicolo o di apparecchio destinato come mezzo di trasporto per aria di passeggieri o di merci; il termine «areonauta» ogni persona che, trovandosi in o sopra una nave aerea o qualsiasi arnese ad essa appeso, imprende a dirigervi l’ascesa, la corsa o la discesa per aria della nave o dell’arnese; il termine «volare» o quello «viaggiare», ogni specie di locomozione mediante nave aerea.
Nessuna nave può volare da un punto d’un altro del Connecticut senza essere munita del certificato di registrazione indicante il nome e il domicilio del proprietario; il numero e la descrizione della nave: questa deve portare sempre ostensibilmente il suo numero con cifre di un’altezza non inferiore ai tre piedi. Ognuno può liberamente pilotare una nave aerea sul fondo proprio o sul fondo altrui dopo aver ottenuto permesso scritto dal proprietario: ma, ad eccezione di questi casi, per dirigere una nave aerea è necessario aver ottenuto, dietro esame, una licenza di capacità dal governo o da una società sportiva autorizzata a lasciarla. Le licenze sono di tre specie: per pilotare palloni sferici, per dirigibili o per aeroplani e macchine più pesanti dell’aria.
Il governo è in facoltà di revocare o sospendere i certificati di registrazione e le licenze per qualsiasi sufficiente ragione.
Chi non risiede nel Connecticut, ma abbia nello Stato di sua residenza ottenuto il certificato di registrazione e la licenza, può volare sopra il Connecticut, per non più di dieci giorni all’anno. Ogni infrazione alle riferite disposizioni è punita con una multa di non più di 109 dollari o con la prigione per sei mesi.
L’areonauta è responsabile dei danni recati dal suo viaggio aereo, e se è agente o dipendente da altri, la responsabilità risale al preponente. Queste disposizioni in gran parte conformi ai voti del Congresso di Verona possono essere di conforto agli studiosi, specialmente del nostro paese, che vedono così accolte le loro conclusioni e reso omaggio anche una volta alla scienza ed alla iniziativa italiana.”

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