Mezzi meccanici di scrittura per i ciechi (1921)

Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di luglio 1921.
Di G.A.

“La prima idea di fornire ai ciechi una scrittura leggibile col tatto risale alla seconda metà del Cinquecento. Più precisamente vengono considerati come precursori di questa nobile e geniale idea un certo Rampazzetto di Roma e un tal Lucas di Madrid che, verso il 1579, idearono dei dadi di legno mobili sui quali erano incise delle lettere. Combinando insieme i dadi, si potevano formulare delle frasi.

“Valentino Haüy, scopritore dell’alfabeto per ciechi.”

In seguito di tempo si tentarono anche altre vie per ottenere lo stesso scopo, per esempio: infiggere degli spilli in un cuscinetto; infilare in un lungo filo dei caratteri ritagliati; incidere delle parole sopra tavolette spalmate di cera; far dei nodi convenzionali in una cordicella; bucherellare a rovescio con uno spillo i contorni delle lettere sopra una carta, in maniera che fossero leggibili col tatto nel lato opposto e via via. Ma tra le varie strade che si cominciarono a battere parve più sicura e più pratica quella dell’insegnare al cieco a scrivere direttamente sulla carta; e a questo scopo, ancora alla fine del 1600 fu escogitato un guidamano che aiutasse il cieco a scrivere diritto. In pari tempo si può dire che tutti i generi di alfabeti calligrafici, tipografici e parecchi convenzionali seno stati esperimentati, per vedere quale si prestava meglio al bisogno.
Ma il cammino fu assai lento, perché i vari tentativi avevano sempre carattere personale.
Era il cieco tale, o il parroco tal’altro, o il pietoso benefattore di Ginevra, di Cambridge, di Stoccarda, di Madrid, di Parigi, di tutti gli angoli del mondo insomma, che, senza tanto strombazzare, adottavano questo o quel sistema, e la cosa, il più delle volte, non aveva seguito o per poca praticità, o perché rimaneva ignorata. In generale le invenzioni a favore dei ciechi sono sempre state lente a diffondersi anche perché in realtà gli interessati sono, per fortuna, relativamente pochi nel mondo, e per di più vivono disseminati uno qua, uno là.
Solo ai nostri giorni i facili mezzi di comunicazione permettono il riunirsi di frequenti congressi, dove si discutono e si diffondono le nuove trovate che possono tornare utili ai ciechi.
Comunque, col moltiplicarsi delle prove, nel 1800 si venne alla conclusione che gli alfabeti ordinari a linee (calligrafici od a stampa) per quanto perfezionati, richiedono sempre un lungo esame del tatto per essere leggibili e per di più non si adattano ad una chiara trascrizione delle note e dei segni musicali, mentre la musica è l’arte alla quale i ciechi si dedicano con maggior passione e soddisfazione. I caratteri pertanto più convenienti per i ciechi sono quelli a punti in rilievo.
Nel 1809 il Klein di Vienna ideò un sistema di scrittura assai pratico, servibile tanto per i ciechi quanto per quelli che ci vedono. Una scatoletta contiene tanti piccoli timbri come quelli che usiamo per la ceralacca. Ogni timbretto porta all’estremità una lettera dell’alfabeto maiuscola, tracciata a rovescio e fatta di piccole punte. Premendo questi timbretti uno vicino all’altro sopra una carta distesa su di un panno si ottiene una scrittura leggibile facilmente dal lato opposto. Naturalmente un semplice regolo aiuta il cieco a scrivere diritto.
Questa scrittura rimase di uso universale in Austria e in Germania fino al 1850 ma oggi è andata in disuso.
Ma il sistema di scrittura che superò tutti gli altri per praticità e che oggi sì è imposto in quasi tutto il mondo è quello introdotto dal Braille.

“Luigi Braille, perfezionatore dell’alfabeto per ciechi.”

Luigi Braille nacque nel 1809 a Coupervray, poco lungi da Parigi.
Accecatosi per disgrazia a tre anni, maneggiando un trincetto di suo padre sellaio, ed entrato nell’Istituto dei ciechi di Parigi, fece tali progressi negli studi che nel 1826 fu nominato professore nello stesso istituto. Egli studiò a fondo la questione dell’alfabeto e alla fine ne propose uno che era una semplificazione dell’alfabeto proposto poco prima da un altro francese, Carlo Barbier. Costui aveva preso come base per la formazione delle lettere convenzionali, un gruppo di 12 punti, che combinati in vari modi davano 26 segni. Braille invece prendendo una base di 6 punti, giunse a combinare 63 segni facilmente distinguibili.
Non è a credere però che il nuovo sistema si sia diffuso rapidamente; anzi bisogna dire che incontrò subito una viva opposizione da parte degli stessi insegnanti dell’istituto, troppo attaccati al vecchio sistema di alfabeto romano allora in uso. Ma nel 1854, riconosciutosi che il nuovo sistema rispondeva a tutte le esigenze dell’istruzione dei ciechi, lo si adattò ufficialmente e dopo d’allora piano piano, andò diffondendosi in tutto il mondo.
L’alfabeto Braille è il seguente. Esso parte da un «segno generatore» o base costituito da 5 punti disposti come il sei di danari delle carte da gioco, cioè 3 in altezza e 2 in larghezza.
Aggiungendo a questi primi dicci segni il punto al posto più basso della prima fila verticale si ha una seconda serie di lettere.
Aggiungendo anche il punto più basso della seconda fila verticale si ha una terza serie di lettere.
Aggiungendo, sempre ai primi dieci segni, il solo punto più basso della seconda fila verticale si ha un’altra serie di vocali accentate o doppie che però non interessano la lingua italiana, Per rappresentare i numeri basta far precedere i primi dieci segni dal «segnanumeri».
Con altri simili accorgimenti e combinazioni si ottengono i segni di interpunzione, i segni aritmetici, le note musicali e quanto basta per la trascrizione della musica.
Più tardi il dott. Russ di New York adattò il Braille alla lingua inglese, curando che le lettere che sono di maggior uso in inglese fossero rappresentate dal minor numero di punti e volle che il lato maggiore dell’intera lettera fosse orizzontale e non verticale.
Ultimamente il signor Mascarò di Lisbona ideò un alfabeto fatto di punti, ma disposti in maniera che riescono facilmente leggibili anche a quelli che ci vedono.
Intanto, come riassunto di quanto abbiamo detto fin qua, possiamo fissare che i ciechi oggi, quando scrivono per proprio conto o per comunicare tra loro adoperano universalmente l’alfabeto Braille; quando invece devono comunicare coi veggenti impiegano altri alfabeti che variano da paese a paese.

“Alfabeto Braille.”

Passiamo ora a vedere quali siano i mezzi meccanici che facilitano al cieco lo scrivere.
Entriamo anche qui in un mare magnum di innumerevoli svariatissimi congegni più o meno complicati e di uso più locale che universale.
Ogni paese, anzi ogni istituto, ha i suoi preferiti.
Trattasi di guidamano, di stilografi, di tavolette per scritture a matita, di tavolette per scrivere a punti rilevati, di compositoi e di macchine da scrivere. Diremo assai brevemente di ciascuno.
I guidamano servono specialmente a chi, avendo perduta la vista in età matura, sa già scrivere ed ha bisogno soltanto di una guida per andar diritto. Consistono per lo più in una falsariga con righe rilevate o in una cornice alla quale sono tesi dei fili orizzontali e ad intervalli equidistanti tra loro. I fili, sovrapposti alla carta da scrivere sostituiscono le righe.
Gli stilografi sono un’asta o stilo di metallo o di legno con cui si scrive, coll’aiuto di un guidamano, sulla carta distesa sopra un panno.
Si ottiene così, a tergo della carta, una scrittura rilevata che è leggibile anche da un cieco.
Anche delle tavolette per scrivere a matita vi è grande varietà. Consistono per la maggior parte di un telaio rettangolare. Lungo un’asta, che si trasporta di riga in riga mediante appositi fori praticati nella cornice, scorre un quadretto, fatto come un finestrino munito di due o tre otturatori o chiavistelli. Aprendo e chiudendo questi chiavistelli e riempiendo colla matita il contorno del vano lasciato libero, si ottengono facilmente delle lettere leggibili ai veggenti.
Le tavolette per le scritture a punti rilevati sono assai adoperate per il Braille e per ogni scrittura affine. In Italia è usata una tavoletta Braille tascabile delle dimensioni di 17 cm. di lunghezza per tre e mezzo d’altezza. Essa consta di due pezzi rettangolari, delle dimensioni dette, che mediante una cerniera si aprono a libro. La parte superiore, d’ottone, ha tre righe di fori rettangolari equidistanti; e l’inferiore, di zinco, ha la superficie scanalata in senso trasversale. Il foglio di carta (carta fatta a mano perché conservi le impronte) viene chiuso fra queste due parti e riceve, attraverso il finestrino, l’impronta dei punti della scrittura Braille che vien fatta con un semplice punteruolo. Ad ogni finestrino corrispondono di sotto tre scanalature separate da rialzi e così le impressioni fatte dal punteruolo rimangono perfettamente allineate. Terminate le tre righe di scritto, sì apre la tavoletta e si sposta più in alto la carta.
Un altro tipo, assai pratico, di tavoletta Braille è grande quanto un foglio di carta. Con essa, invece di spostare la carta man mano che si scrive, si sposta in basso il regolo recante le caselline rettangolari del Braille.
In Francia, in luogo della finestrina rettangolare si hanno 6 fori nei quali si introduce il punteruolo. In Germania e in Inghilterra al contrario nella parte superiore vi sono le finestrine e nella sottostante corrispondono le incavature.
In ogni caso per ottenere con queste tavolette una scrittura che sul rovescio del foglio sia leggibile da sinistra a destra, è necessario scrivere da destra a sinistra e di invertire ogni lettera e ogni segno Braille, I compositoi sono scatole che contengono un piccolo corredo di caratteri, presso a poco come le nostre tipografie tascabili. Componendo questi caratteri, allineati coll’aiuto di un regolo, si possono stampare o imprimere due o tre righe di scritto, dopo le quali bisogna scomporre, rimettere i caratteri a posto e ricominciare da capo per poter proseguire.

“Ezio Piacentini, autore di macchine per ciechi.”

Anche in questo campo i tentativi risalgono a molto tempo addietro.
Tra i più noti è quello di un meccanico viennese che nel 1779 fece una scatola compositrice per la cieca Maria Teresa de Paradis, celebre musicista e figlioccia dell’imperatrice Maria Teresa. Un altro tentativo è quello di un nobiluomo della Garfagnana che nel 1308 fornì alla sua amica, contessa Fantoni di Lunigiana, che da giovane aveva perduta la vista, una cassetta con caratteri così perfetti che gli scritti sembrano il prodotto di una moderna macchina da scrivere.
Oggi le scatole compositrici più in uso sono due: quella del Klein di Vienna coll’alfabeto a punte di cui abbiamo parlato prima; e quella del Vaughan di Parigi a doppio uso perché i pezzi dei caratteri in un’estremità portano il segno in Braille e nell’altra l’alfabeto comune leggibile a tutti.
Riguardo alle macchine da scrivere possiamo dire che dal 1840 a questa parte fu una continua produzione, alla quale tutti i paesi più civili del mondo hanno collaborato, di meccanismi sempre nuovi o meglio rispondenti allo scopo di dare al cieco un mezzo per scrivere speditamente. Non è il caso di soffermarci ad esaminare tutti i tipi di macchine costruite, perché la cosa ci porterebbe troppo per le lunghe; ci basterà dire che nei primi cinquant’anni si batterono vie diverse, per arrivare, verso la fine dell’800, a quei tipi di macchine che, come la Hall di Filadelfia e la Picht di Berlino, sono ancora di uso comune dovunque.. Sei tasti, che possono essere battuti anche contemporaneamente, mettono in azione altrettanti punzoni coi quali si combina qualunque segno in Braille. Nel mezzo della tastiera vi è un tasto spaziatore.
La carta che riceve l’impressione dei punzoni è poggiata sul rullo di un carrello che, dopo ogni impronta, sì sposta automaticamente, come avviene in tutte le macchine da scrivere.

“L’Autotiflotipografica Vicentini.”

In questi ultimi anni poi si è giunti a costruzioni più complesse, come quella dello Stockhorn di Helsinefors (Finlandia) in cui il cieco preme le lettere del Braille e la macchina scrive caratteri usuali e il veggente tocca l’usuale e la macchina scrive il Braille. Coll’apparecchio del Montrucchio di Torino il Braille e l’alfabeto comune si scrivono non solo separatamente, ma, se si vuole, anche simultaneamente. Consimili risultati con piccole varianti si ottengono pure con le macchine del Nowack, dello Stiltz, del Picht, ecc.
Tutti i congegni di cui abbiamo parlato fin qua hanno per iscopo di dare al cieco un mezzo per scrivere. Ora facciamo un ultimo passo in avanti e guardiamo di quali macchine dispongano i ciechi per stampare.
L’idea di offrire carte, libri, ecc. stampati è antica.
Ancora alla fine del 1500 in Italia e in Spagna si stampavano in rilievo per i ciechi, mediante piastre metalliche debitamente incise. Nel 1640 il francese Moreau tentò senza riuscirvi d’impiegare a ciò caratteri di piombo. Ma più tardi Valentino Haüy, francese, anch’esso, il più benemerito amico dei ciechi, nel 1786 riusci a stampare libri coi caratteri mobili.
Ma tutti questi tentativi erano fatti da veggenti in favore dei ciechi e il lavoro di stampa era fatto solamente da chi ci vedeva.
Bisogna venire ai nostri giorni per trovare dei congegni da stampa che possono essere affidati nelle mani dei ciechi, perché se ne servano a loro vantaggio.
Fra questi ricordiamo una pressa pneumatica che sì fabbrica a Lipsia, capace di stampare dieci copie alla volta; e un’ingegnosa pressa del cieco Theodorescu di Bucarest, fabbricata a Francoforte sul Meno. Quest’ultima consiste in una cassetta sul fondo della quale si appoggia un compositoio. Piegando a destra un manubrio che sporge sul davanti dell’apparecchio, si apre il coperchio della cassetta e ad esso si applica il foglio di carta. Girando a sinistra, il coperchio si chiude e contemporaneamente si alza la piastra del compositoio che va ad impressionare la carta soprastante. Il compositoio poi è un quadrato di alluminio di cm. 30 X 30 circa che contiene 27 righe di bucherelli per scrittura Braille. Per comporre la scrittura si innestano nei forellini della piastra d’ alluminio delle punte d’acciaio che rimangono prominenti.

“L’Autotiflografica Vicentini.”

Negli Stati Uniti per stampare si usa il seguente procedimento. Con una macchina a 6 tasti e uno spaziatore, sul tipo della Picht, ma fornita di leve e di punzoni assai potenti, sì scrive in rilievo sopra due lastre di zinco che costituiscono la matrice per stampare. Poi con un torchio qualunque si comprime la carta fra le due lastre di zinco e si ha la stampa.
Noi in Italia abbiamo due macchine recentissime ideate e fatte costruire dal signor Ezio Vicentini di Vicenza. Sono macchine assai complesse, ma che danno risultati veramente pratici.
La prima, detta «Autotiflotipografica» serve a comporre; la seconda, detta «Autotiflografica» serve a stampare. Sono però indipendenti tra loro e una non ha a che fare con l’altra.
Trattandosi di produzione italiana recentissima ne parleremo un po’ largamente.
La prima delle due macchine, quella per comporre, ha la forma e l’aspetto d’un pianoforte verticale con 4 pedali e una tastiera di sole due ottave. I 25 tasti però, coll’aiuto dei pedali, sono in grado di far agire 64 segni.
Nell’interno, e precisamente nella parte più elevata, vi è il deposito dei caratteri di piombo da stampa in Braille. Questi sono allineati lettera per lettera in tanti binarietti inclinati verso il mezzo della macchina. Premendo un tasto, la lettera corrispondente, che è capofila nel deposito, si stacca dalle compagne e, seguendo un canaletto, scende in basso e va a collocarsi sopra una piastra che serve da compositoio. Premendo successivamente altri tasti, altri caratteri o spaziature vanno a collocarsi vicino al primo.
Quando la riga è riempita un campanello ce ne da l’avviso e allora, premendo uno dei pedali, si smuove di una riga il carrello che sostiene il compositoio e il lavoro procede così spedito fino alla fine della pagina. Quando la composizione e terminata la si passa ad un torchio qualunque per la stampa.
Questa macchina costruita nel 1914 è stata acquistata dall’Istituto Configliacchi per i ciechi di Padova, e fornisce pubblicazioni, specialmente musicali, a tutti gli istituti del Regno.
Sopraggiunta la guerra, la difficoltà di rifornimento dei caratteri da stampa ha stimolato il Vicentini a nuovi studi.
Ed eccoci all’invenzione dell’«Autotiflografica» di cui i è parlato nel luglio 1920 nel Congresso interalleato di Bruxelles per la rieducazione dei ciechi di guerra, e che fu illustrata poi nell’ottobre dall’inventore stesso al Congresso di Genova.
Questa macchina consta di due parti. La parte inferiore è un solido banco lungo un paio di metri, nell’interno del quale sono allogati un motore elettrico della forza di mezzo HP e quegli altri congegni che hanno l’ufficio di trasmettere alla parte superiore tutti i movimenti di cui essa ha bisogno. La parte superiore, cioè la vera macchina da stampa, è un congegnino poco voluminoso, ma che fa sbalordire chi pensa che è stato ideato e per la massima parte eseguito da un cieco. Il Vicentini infatti ha perduto la vista per una disgrazia di caccia, ancora quando aveva 18 anni e frequentava l’ultimo corso della Scuola Industriale di Vicenza.
Bisogna premettere che questa macchina non impiega per la composizione né i caratteri di piombo, né le lastre di zinco usate in America; ma bensì un cartoncino di cuoio leggero nel quale, con una delle solite macchinette a 6 tasti e uno spaziatore, tipo Picht, è stato in precedenza scritto in Braille, non a rilievo, ma a buchi, ciò che si vuole stampare.
Il cartoncino colla scrittura forata, posto sopra un carrello che si muove rasente al banco, viene a passare, riga per riva, sotto ad una lista di ottone nella quale sono praticati dei gruppetti di 6 fori Braille, che corrispondono esattamente con la scrittura del cartoncino sottostante. Nel momento in cui il foglio passa sotto alla striscia di ottone si abbassano tanti fascetti di 6 aste sottili di ottone rigido quante sono le finestrine della riga. Le aste che nella discesa trovano il passaggio ostruito dal cartone si fermano, ma quelle che lo trovano aperto, perché corrispondono ai fori delle lettere scritte sul cartone, si sprofondano ancora un po’ e mettono così in azione altrettante leve che spingono all’insù altrettante aste di ottone le quali vanno ad impressionare la carta che passa in quel momento nella parte superiore del meccanismo.
Ora se si pensa che questa macchina stampa circa 60 righe al minuto; che essa non richiede per la composizione caratteri metallici, oggi molto costosi; che le matrici di cartone, dopo fatta la tiratura di cui al momento si ha bisogno, possono essere messe in magazzino per i bisogni avvenire, ciò che non si può fare coi caratteri metallici; che le dette matrici possono essere preparate personalmente da chiunque abbia desiderio di stampare i propri lavori; che infine con questa macchina si può produrre al massimo buon mercato qualunque opera letteraria, scientifica o musicale destinata alla coltura dei ciechi; se si considera tutto ciò, si può concludere che la genialità italiana, anche in questo campo, non è rimasta seconda a nessun paese del mondo.”