L’Università di Pavia attraverso i secoli (1925)

di Renato Soriga.
Da Emporium, Vol. LXI, N. 365, maggio 1925.

“Nell’ultima decade di maggio vennero celebrate in Pavia con rito austeramente solenne le feste centenarie dell’ Ateneo lombardo auspice S. M. il Re d’Italia, che per il memorabile evento volle onorare con la sua presenza la millenaria capitale del Regno Italico, quasi ad augusta conferma dell’unanime plebiscito di omaggio tributatole dai più cospicui rappresentanti delle Università nazionali e straniere.

Due furono le date occasionali che determinarono tale celebrazione quella cioè del Capitolare di Lotario, datato da Corteolona nell’825, per il quale Pavia nella qualità di metropoli del Regno Italico veniva eretta a centro culturale della regione lombardo-ligure e la verosimile epoca dell’insegnamento del ticinese Lanfranco (1025), il quale col suo magistero diede nuova vitalità alle norme giuridiche langobarde preparando in tal modo il terreno favorevole al glorioso affermarsi della Scuola che s’intitola ad Irnerio giurista.

Giusto sopravvento; poiché dal sorgere dello Studio bolognese, Pavia non era più la città regia per eccellenza, ma bensì un bellicoso comune a tipo agricolo-militare, la cui esistenza agitata escludeva ogni possibilità di primato culturale.

Ad ogni modo questo, anche se lungo il corso del Medio Evo venne obliterandosi sino al punto di ridursi ad una umile scuola di professionisti dotati soltanto dell’orgoglioso ricordo di una tradizione di cui a pena sopravviveva la eco municipale impersonata nella orgogliosa iscrizione: Secunda Roma vale, questo primato ripeto, fu una realtà, le cui origini prime potrebbero facilmente spostarsi di varî secoli e riallacciarsi senz’altro al tragico tramonto di Ravenna imperiale, quando cioè le nuove monarchie barbariche eressero Pavia a capitale dei loro nuovi Regni così che questa divenneper storico trapasso la continuatrice di quella missione culturale di cui Ravenna nobilissima nella Italia bizantina era stata maestra.

Pavia per tanto a traverso il tramite fluviale del Po sino dalla caduta dell’Impero romano di occidente dovrebbe considerarsi come un anello di una unica catena che mettendo testa a Roma imperiale a traverso Bisanzio e Ravenna, trova la sua conclusione nella Bologna d’Irnerio.

Ma lasciando da parte tutti quegli svolgimenti che la presente tesi potrebbe offrire, per attenerci a considerazioni di carattere più generale, è certo che le vicende di Pavia studiosa assecondarono fedelmente tutti gl’impulsi politici di cui la città ticinense fu teatro a traverso i secoli.

Da ciò il significante diagramma della fortuna culturale della città dalle cento torri da cui agevolmente emerge che ogni qualvolta la causa dell’Impero prevalse anche i suoi studi superiori se ne avvantaggiarono e in modo tale da brillare di luce intellettuale vivissima.

Ciò da Teodorico a Federigo Barbarossa e da Galeazzo II Visconti a Maria Teresa per non ricordare Napoleone Bonaparte e Vittorio Emanuele II e III, dalla cui presenza Pavia universitaria oggi si ripromette una sempre più alta ascesa.

Ciò per la preistoria della Università di Pavia, ché solo dal 13 aprile 1361, data la fondazione del suo Studio generale mercé un solenne diploma di Carlo IV di Boemia rilasciato dietro intercessione di Galeazzo II, il nuovo dominatore della ghibellina rocca forte dell’Impero in Lombardia.

Da questo periodo infatti l’Università di Pavia assurge a splendore mercé il concorso dei più illustri rappresentanti dell’umanesimo che il mecenatismo intelligente dei Visconti faceva accorrere tra le sue vecchie mura.

Tale stato di cose venne per i progrediti impulsi culturali del tempo a consolidarsi vie più nel secolo XV e nel primo trentennio del secolo seguente, sino all’avvento della dominazione spagnuola, come lo attestano nel loro muto ma eloquente linguaggio, le nobili pietre tombali che ancora oggidì decorano i severi ambulacri della Università pavese, commemoranti uomini come Baldo da Perugia, Andrea Alciato e Giasone del Maino, e in mancanza di queste, i nomi del pari famosi del Grisolora, il restauratore della letteratura greca in Italia; dei Barzizza; del Panormita; del Valla; del Filelfo per ricordare gli uomini più rappresentativi di quel vasto movimento d’intelletti più che di spiriti che fu l’Umanesimo.

E a lato di essi innumerevoli turbe di studenti nazionali ed ultramontani, i quali percorrendo le secolari strade romane, che congiungevano il mondo d’Oltralpe con le feraci terre di Lombardia per i noti tramiti fluviali e montani, amavano soffermarsi tra le mura ospitali della città turrigera, ove era gran dovizia di alloggi, di vettovaglie e sopratutto d’impunità goliardica per quelle troppo frequenti intemperanze giovanili di cui abbiamo eco vivacissima in una saporita comedia latina rappresentata da studenti all’Ateneo pavese nel 1427 lo « Janus sacerdos » o nel boccaccesco dialogo dal sollazzevole titolo « Con quaestio uxoris Canichioli papiensis » della metà del ’400.

Non per nulla un acuto studioso della vita universitaria italiana nel secolo XV, Ferdinando Gabotto, così descriveva la vita goliardica di quel tempo:
«Nel secolo XV gli studenti formavano ancora un ceto distinto per origine, per abitudine e sopra tutto per privilegi dalle altre classi della cittadinanza. Raccolti strettamente in un corpo solo, avvinti da un fortissimo legame di solidarietà, formanti essi stessi, non già gl’insegnanti, la Universitas da cui eleggevano il rector magnificus e gli altri dignitarî, si credevano di fare ogni lor capriccio, dandosi specialmente bel tempo senza badare se recavano o no danno a qualcuno. Era una vita libera, gaia, spensierata, licenziosa; giuoco, donne, risse erano le passioni che animavano principalmente quei giovani baldi per l’ingegno e la robustezza. Facevansi una gloria generosa di essere immoderati in tutte le specie di disonestà e in vano si proibivano sotto pena di grosse ammende i cosi detti ludos hazardi; in vano si minacciavano punizioni maggiori e talvolta davasi anche la morte a quegli scolari che rapivano fanciulle o maritate o commettevano pubblici disordini. Essi pretendevano che erano liberi e padroni di fare all’amore con chi volevano, ed un giureconsulto, facendosi campione della loro causa, sosteneva con argomenti di diritto romano e canonico che non si potevano punire quegli scolari che mantenevano rapporti amorosi con le fantesche. Ai professori avevano pochi riguardi, anche quando li amavano; a Giasone, capitò più tardi di vedersi tolti i libri come era uso del tempo; contro il Porcellio furono scritte sconcie parole accompagnate da relativo disegno e in genere imbrattavano panche e pareti di motti osceni e di figure che lo erano ancora di più. Cantando allegre e libere canzoni, che essi stessi componevano, andavano tumultuando per le vie e spesso mascherati irrompevano nelle scuole a turbare i compagni, e sempre con le prepotenze e con le beffe mostravano quanto valevano. Così le donne non osavano prenderli a burla, anzi li ritenevano audaci e scaltri in amore».

Con la rinascita sforzesca e particolarmente per il vigoroso impulso dato da Ludovico il Moro alle lettere, alle arti ed al commercio del suo fiorente ducato, l’Università di Pavia, che nel passato non aveva mai usufruito di una stabile sede, vede sorgere un vero e proprio palazzo scolastico (1485-1490) composto «di due stanze contigue, da una sola parete separate, ciascuna delle quali ha un ampio cortile coi portici d’attorno, con molte scuole e di sopra e di sotto», che successivamente ampliate dal Piermarini tra il 1770 ed il 1785 diedero luogo all’attuale palazzo universitario.
Quasi un secolo dopo e cioè sotto la dominazione spagnuola, prevalendo gli spiriti innovatori della Controriforma, come ad emenda delle sfrenatezze umanistiche, cui si era abbandonata, senza ritegno, la gioventù gioiosa del Rinascimento sorgevano due fastosi palazzi su disegno dell’architetto più in voga di Lombardia Pellegrino de’ Pellegrini di Valsolda, che presero nome e carattere dal loro rispettivo fondatore San Carlo Borromeo (1564) e Antonio Michele Ghislieri, poi Papa Pio V (1569) a beneficio della gioventù studiosa sprovvista di mezzi di fortuna.

Da questi due focolari di feconda e raccolta operosità che ancora tutt’oggi sopravvivono gloriosamente a testimonianza della squisita sagacia di chi prima li ideò e li volle, la continuità dell’Ateneo pavese nella torpida epoca dello sgoverno spagnuolo durante il quale lo Studio ticinense si rinchiuse in sé stesso riducendosi come un tempo l’antica Schola papiensis ad un borioso vivaio di dottori in utroque e di mediocri insegnanti locali vessati in ogni maniera dalla invadente quanto vacua autorità governativa.
Per il decoro dello Studio pavese questo meschino stato di cose durò fino all’era teresiana alla cui operosità meravigliosa è dovuta la risurrezione della Insubre Atene e per ciò anche del suo secolare Ateneo, il quale in poco più di tre lustri (1757-1774) rivisse gli splendori dell’età sforzesca non solo ma venne arricchendosi via via di nuovi edifici: di una biblioteca, di gabinetti scientifici, di un orto botanico, di quanto insomma il Mascheroni nel suo classico Invito a Lesbia Cidonia celebrava come un dono di quella «Cesarea mano» in onore della quale fu meritatamente coniata nel 1772 una nobilissima medaglia commemorativa.

Parallelamente al rinnovamento culturale si affermava anche quello morale e politico; da ciò l’influsso informatore che l’Ateneo cominciò ad esercitare sul ceto più recettivo della città e quella spirituale intesa tra popolazione ed Ateneo, che in un non lontano avvenire si trasmuterà in azione generosa e concorde, costituendo in tal modo uno dei più cospicui fattori della politica rinascita della città dalle cento torri.
Ciò particolarmente cominciò a manifestarsi dai primi albori di quel moto irrefrenabile di principî e d’’uomini che suole chiamarsi abusivamente Rivoluzione francese.
Singolare preavviso degli eventi, che il prossimo domani doveva rendere manifesti, l’irrequieto agitarsi di alcuni studenti universitari ascritti nella più parte ai Collegi e a fianco di costoro numerosi professori e professionisti, di varia età, patria e condizione, che l’ ingresso delle truppe giacobine in Lombardia non accolsero impreparati.

Da ciò forse il singolare fervore col quale uomini come il Mascheroni, il Fontana, il Moscati, l’Alpruni, parteciparono al governo della prima Cisalpina, lungo il corso della quale con grave danno della loro libertà e dei loro averi, essi operarono ardite innovazioni sì nel campo legislativo che in quello culturale iniziando in tal guisa la serie gloriosa di quei nobili eroismi che nel decorso del tempo da Adeodato Ressi ad Adolfo Viterbi saranno tradizione costante del pavese Ateneo.
Infatti col sopraggiungere della reazione austro-russa non desta meraviglia che i Cosacchi del legittimismo trionfante licenziassero tutti quei professori che avevano servito sotto il passato governo e ad un tempo apponessero sigilli alla Università quasi a significare che essa più che i suoi componenti era ritenuta come la vera responsabile di quella generale sovversione politico-religiosa che aveva prodotto le audacie innovatrici del «triennio memorabile». Tali le prime albe patriottiche dell’Università pavese.

Un decennio di eroica vita napoleonica e le susseguenti vessazioni dell’Austria faranno poi il resto trasformando interamente cuore ed intelletto della gioventù studiosa, di guisa che questa altro non attenderà che l’ora dell’azione per prodigare a favore della Patria il suo sangue purissimo.
Così per il suo Studio glorioso Pavia compì una duplice missione culturale e politica ad un tempo; mentre dal suo canto dai magnanimi esempi da cui si trovò attorniata attinse nuovi e più alti incentivi a validamente operare a favore della comune redenzione politica.
Da ciò l’intimo ed indissolubile legame contratto a traverso i secoli tra la città ed il suo Ateneo; da ciò il materno orgoglio con il quale Pavia vive e partecipa della vita della sua Università poiché solo in questa essa scorge e scorgerà sempre la continuatrice ideale di quella politica grandezza che fieramente conservata sino al sorgere della dominazione viscontea venne ad infrangersi contro forze prevalenti per dar vita ad un altro primato più nobile e più certo d’ogni altro, quello della civiltà e della cultura, che ancora oggi essa afferma autorevolmente in ogni dove nel nome venerando del professore Camillo Golgi.”