Luigi Ravizza e l’invenzione della macchina da scrivere (1926)

Da Secolo XX, Anno XXV, N. 9, settembre 1926.
Di F. Savorgnan di Brazzà.

“Questo articolo costituisce una pagina poco nota della storia delle invenzioni italiane, e mostra chiaramente come la prima invenzione di una pratica macchina da scrivere sia vanto italiano.


Aprite un’enciclopedia moderna, ed in qualsiasi lingua sia essa stampata, se cercate alla lettera S il nome Sholes leggerete presso a poco quanto segue: «Cristoforo Latham Sholes, nato a Milwanke [Milwaukee] nel Wisconsin (Stati Uniti) iniziò la carriera come giornalista con modesta fortuna. Il suo nome doveva però passare alla Storia come quello dell’inventore della macchina da scrivere. Assieme al tipografo Samuele W. Soulé e ad un certo Clidden, che fornì i denari necessari, egli creò, fra il 1867 e 1873, alcuni modelli, prima in legno, poi in metallo, ottenendo diversi successivi brevetti, di cui il primo in data 23 giugno 1868. Nel 1873 cedette lo sfruttamento della sua invenzione a Philo Remington, il famoso creatore dell’omonima fabbrica d’armi. Questi iniziò la costruzione della nuova macchina scrivente, curandone il lanciamento nel mondo, ottenendo l’enorme successo a tutti noto. La prima di queste macchine giunse in Europa nel maggio 1876, suscitando subito il più vivo interesse.
La macchina da scrivere fruttò al costruttore ed all’inventore somme enormi. Il solo Sholes incassò come diritti sui suoi brevetti oltre 15 milioni di dollari (più di trecentocinquanta milioni al cambio attuale).
Nel 1923, Milwanke eresse un monumento ad imperitura memoria… dell’inventore della macchina da scrivere». I puntini con cui ho inframezzato le ultime parole di questo riassunto hanno bisogno di una spiegazione, che invano rintraccerete nell’inciclopedia consultata. Infatti, se aprite il volume alla lettera R, e cercate il nome di Ravizza, nulla troverete, malgrado che l’elementare giustizia storica avrebbe dovuto in quel punto far annotare: « Giuseppe Ravizza, nato a Novara il 10 marzo 1811, letterato ed inventore. Uomo di grandissimo ingegno, fin dall’età di 18 anni gli sorse in mente la creazione di una macchina scrivente. Vi lavorò accanitamente per quasi vent’anni, prendendo un primo brevetto il 14 settembre 1855. Il suo apparecchio, chiamato «cembalo scrivano», conteneva la quasi totalità dei dispositivi, che tredici anni dopo, dovevano essere la base del fortunato brevetto dell’americano Cristoforo Latham Sholes. Fu il primo inoltre a creare una macchina a scrittura visibile, precedendo anche in ciò, quasi di un ventennio, ogni altro inventore. Ben 17 modelli di macchine da scrivere furono costrutte dal Ravizza ed alcune vendute servirono per parecchi anni. Invano cercò gli appoggi per lanciare in grande la sua invenzione, a cui lavorò per tutta la vita aggiungendovi continui perfezionamenti. Il vero inventore della macchina da scrivere morì povero e dimenticato a Livorno il 30 ottobre 1885, mentre l’America principiava ad innondare i mercati con una macchina costruita esattamente secondo i principi da lui ideati».

Questa premessa basta a far comprendere al lettore, come ci troviamo di faccia ad una di quelle ingiustizie storiche, non rare nella storia della scienza e delle invenzioni. Recentemente riportavo, in queste stesse pagine, ciò che avvenne a padre Barsanti da Pietrasanta inventore del motore a scoppio, attribuito poi sia al francese Lenoir, sia al tedesco Otto. Ed altrettanto si potrebbe dire di Meucci per il telefono, di Pacinotti per la dinamo, di Calzecchi Onesti per il «coherer», di Cerebotani per le centrali telefoniche automatiche, senza contare infiniti casi minori. Se l’insolita frequenza di queste ingiustizie storiche, è da ricercarsi in parte nell’innata modestia dei nostri inventori, in pieno contrasto con il necessario spirito praticamente commerciale, essa però può pure largamente attribuirsi alle nostre passate condizioni. Ad un meraviglioso rigoglio di facoltà inventive, dote caratteristica della stirpe che diede al mondo un Leonardo da Vinci, un Galileo, un Volta e tanti altri sommi, non corrispondeva nel pubblico nostro un eguale interessamento. In Francia, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti, fioriva una vastissima letteratura di volgarizzazione scientifica, con alla testa nomi come quelli di Figuier, Poggerdorft, Zurcher, Tissandier, e tanti altri, mentre in Italia nulla o quasi si faceva in argomento. È puerile il pretendere, in tali condizioni di cose, un così disinteressato altruismo negli stranieri da anteporre nomi italiani a quelli nazionali. E se qualche coraggiosa voce di tanto in tanto si alzava a rivendicare glorie nostre misconosciute, restava isolata, impotente a lottare contro versioni ormai saldamente ancorate, poiché, di fronte a tante opere straniere, mancava, come manca tutt’ora, una storia completa delle invenzioni italiane.


Nell’accingersi a fare una rivendicazione storica bisogna sempre procedere assai cautamente, esaminando documenti e fatti a lume di critica il più possibile oggettiva. Né la cosa si presenta sempre facile, poiché è ben raro che un’invenzione qualsiasi, specialmente se applicazione meccanica, sorga spontanea ed isolata, senza essere stata preceduta da tentativi minori.
La storia della macchina da scrivere è oltremodo complessa, ed in ciò che riguarda i precursori ricca in tentativi. Il conte Emilio Budan di Venezia, che ha consacrato la vita a queste ricerche storiche, riunendo in proposito un archivio, che non a torto può dirsi il più completo esistente al mondo, ha rivelato non pochi di questi progetti in cui abbondano i nomi italiani.
Nell’archivio di Stato di Reggio Emilia, esistono sedici lettere scritte a macchina da Carolina Fantoni, donna di grande coltura ed ingegno, malgrado fosse priva della vista fin dalla più tenera età. Questa corrispondenza, che porta date varianti dal 1801 al 1808, è diretta al nobile Pellegrino Turri, nato a Castelnuovo di Garfagnana nel 1786. Appassionato di meccanica ricorse a quest’arte per dare all’amica il mezzo per corrispondergli, senza ricorrere ad aiuto altrui. Le ricerche che ho compiuto, non mi hanno permesso di por mano sopra alcun disegno rappresentante l’apparecchio del Turri. In una delle lettere, a data 8 ottobre 1808, vi sono però alcuni dettagli sulla cosidetta «tavoletta scrivente», i quali permettono di argomentare che si trattasse di un ingegnoso compositoio. Vi si fa pure accenno a fogli di carta nera, preparati dal Turri, e che servivano per ripetere l’impressione, ed in ciò vi sarebbe il primo esempio della cosidetta «carta a carbone» ora universalmente usata per le copie dattilografiche.

Nel 1821, un certo Pietro Conti di Cilavegna, in provincia di Pavia, costrusse una macchinetta, dall’inventore chiamata tachitipo, che: «avrebbe dovuto servire alle persone che hanno difficoltà di tenere in mano la penna». Sembra che il modello sia stato presentato all’Accademia di Scienze di Parigi, non con brillante risultato, poichè, a ragione od a torto, non se ne parlò più. Mi è impossibile far qui cenno ai tentativi, o piuttosto tentennamenti compiuti parallelamente all’estero. Ci sarebbe da perdersi in un labirinto di progetti, se il vero titolo di priorità, fosse costituito dall’aver avuto per primo l’idea del fine da raggiungere, mentre invece la palma deve essere concessa a colui, che, eliminando le incertezze, seppe indicare e creare i mezzi necessari alla realizzazione.
E questo è esattamente il caso del novarese Giuseppe Ravizza, il quale riuscì a creare fin dal 1856 una macchina da scrivere corrispondente alle esigenze moderne, perseverando poi per quasi quarant’anni nell’apportarle i più notevoli perfezionamenti, e ciò in ben 17 successivi modelli. La maggior parte di questi ingegnosi dispositivi si trovano nel fortunato brevetto che l’americano Latham Sholes doveva prendere ben tredici anni dopo, e sono tutt’ora in uso in molte delle macchine dell’oggi. Per rendersi conto quale esattezza di concezione guidasse l’inventore italiano, basta riportare questo brano che egli scriveva nel 1855, poco tempo prima di chiedere il suo primo storico brevetto: «Chiamare la meccanica in aiuto all’estesa ed importante operazione dello scrivere, sostituire nell’uso generale alla mano che traccia le lettere l’azione d’un meccanismo, in cui le lettere sono già formate perfette ed uniformi, invece che operare con una mano, operare con ciascuno delle dieci dita, ecco il problema che mi sono proposto ed alla cui soluzione attendo da ben 19 anni».
E fissava la soluzione in questi termini: «…disporre attorno un cerchio tanti martelletti, aventi alla loro estremità i tipi delle lettere e gl’interpunti; fare che tutti battano ad un punto centrale, dove ruoti la carta destinata all’impressione dei tipi: muovere d’un passo, ogni lettera percorsa, questa carta e muoverla di un passo in senso inverso: svolgere la serie delle impressioni in regolare allineamento…».
Scendendo a maggiori dettagli scriveva: «I tasti sono centrati e guidati come quelli dei cembali, i martelletti portanti le lettere sono posti in giro d’un cerchio di bronzo, sopra un altro di legno, infisso per mezzo di quattro colonne al fondo della macchina. Questi martelletti girano sulle estremità coniche del loro asse, che è sostenuto da due ponticelli di acciaio, forniti di molla solida e di poca elasticità, in modo che i martelletti possano con grande facilità roteare dal basso in alto, ma non possano menomamente roteare lateralmente onde abbiano da portar il tipo sempre esattamente al punto centrale. I martelletti vengono rialzati al tocco dei tasti mediante leve a gomito poste dietro ad essi, in modo che vadano a battere la carta liberamente ed in virtù unicamente della forza viva loro trasmessa dalla leva. L’abbassare di un tasto, oltre a far battere i tipi, determina anche un movimento della carta, corrispondente allo spazio di ciascheduna lettera, quindi ritorna immediatamente e con grande celerità alla prima posizione, per lasciar libero il movimento al colpo seguente».

Non si potrebbe essere più esatti di così. Se ho creduto dilungarmi in queste citazioni, a rischio anche di annoiare il lettore, è per dimostrare che qui non si tratta di una di quelle rivendicazioni «chauvinistiche», come ne riscontriamo spesso oltr’Alpi, ma di documenti irrefutabili, i quali dimostrano nel modo più assoluto il diritto storico italiano. Del resto esiste ancora in possesso di un nipote dell’inventore, l’avvocato Federico Negri di Casal Monferrato, un interessantissimo diario, di oltre mille pagine, nel quale il Ravizza quotidianamente annotava le vicende delle sue ricerche, le sue speranze, e spesso purtroppo la sua disillusione nel non trovare negli altri corrispondenza alla sua incrollabile fede.


Curiosa ed interessantissima figura quella dell’inventore Luigi Ravizza, quale ho potuto ricostituirla da numerosi documenti e dal conversare con qualche anziano novarese, che ebbe ventura di conoscerlo e che ne serba tuttora il più affezionato ricordo. Ingegno esuberante, ed un poco vulcanico, non fu soltanto inventore geniale, ma buon scrittore ed appassionato ricercatore di memorie storiche della sua plaga, tanto da essere in corrispondenza con personalità fra le più note, fra cui, in primo luogo, con il grande Mommsen di cui era amicissimo e con cui ebbe un carteggio seguito, che durò fino agli ultimi mesi della sua vita.
Nacque, come dissi, a Novara, il 10 marzo 1811, nel Palazzo del Mercato, in uno degli ammezzati sul lato di levante. Fu ivi del resto che ideò, e costrusse con le proprie mani, i primi modelli della sua macchina.
Compì i suoi studii di giurisprudenza a Torino, il padre volendolo avviare alla carriera giuridica. Ma questa non adattandosi al suo temperamento esuberante, l’abbandonò per occupare varie cariche pubbliche; fu sindaco di Nebbiolo, consigliere di Novara, direttore del Monte di Pietà, ecc. Ottimo latinista, tradusse la «Novaria Sacra» del vescovo Bescapé aggiungendovi una vita dell’autore, ed assieme al Mommsen cercò di stabilire il posto ove fu ucciso Cicerone, scrivendo in proposito interessanti monografie. Fu nel 1839, secondo quanto si può desumere dal diario già citato, che gli sorse in mente l’utilità della scrittura meccanica. All’inizio si pose al lavoro, più per l’idea di un passatempo, che con la volontà di ottenere un risultato preciso. Col passare del tempo, con i primi risultati e con la necessità di risolvere sempre maggiori problemi, vi si appassionò talmente da farne lo scopo principale della sua vita, sacrificando alla riuscita buona parte del suo patrimonio.

Lavoro paziente accanito, sostenuto dalla più incrollabile fede, non disunita da un’autocritica implacabile, poichè fu solo dopo 19 anni dal sorgere della prima idea, che si decise finalmente a chiedere un brevetto, persuaso ormai di aver raggiunto un primo stadio di vera praticità. Questo venne richiesto il 1 settembre 1855, ed accordato il 30 dello stesso mese, titolo dell’invenzione «Cembalo scrivano ossia macchina da scrivere con tasti». Il 31 marzo dell’anno dopo richiedeva un secondo brevetto comprendente importanti perfezionamenti.

Questa macchina, la prima fatta conoscere al pubblico, portava il n. 10, poiché era il decimo modello costrutto dall’inventore. Essa venne esposta all’esposizione di Novara del 1856, e su di essa un certo avvocato Costanzo Bensi scrisse un entusiastico opuscolo di propaganda in cui, nello stile caro all’epoca, il Ravizza era paragonato a Newton, a Fulton, a Watt. L’inventore, sperando in un prossimo sfruttamento industriale, ne fissò il prezzo in appena 200 lire, annunciando di accettar prenotazioni. Se queste non vennero, l’inventore ebbe però in cambio l’invidiato orgoglio di scrivere una lettera in presenza di Vittorio Emanuele II, il quale, interessato all’inaspettata novità, volle battere alcune parole compreso il suo nome. Fu indubbiamente la prima dattilografia regale, degno premio di un gran Re ad un grande inventore.
La giuria dell’esposizione si contentò, quasi a malincuore, di una modesta medaglia di argento, onorificenza che doveva pure essere ripetuta all’esposizione di Torino nel 1858, ove la macchina fu esposta.
Questo storico modello esiste tutt’ora, conservato religiosamente dalla famiglia. Malgrado i suoi settant’anni e più di vita, è atto ancora a funzionare, costituendo così il più eloquente e indiscutibile documento di priorità. Questa prima macchina era ancora a scrittura cieca, vale a dire che il dattilografo non poteva seguire lo scritto. Il Ravizza, che in essa aveva risolto già tanti problemi, non doveva tardare ad eliminare anche questo difetto. Infatti nel suo diario, in data 21 luglio 1860, già stabilisce le basi di questa importantissima modificazione, aggiungendovi il dispositivo di cilindro per spostamento della carta, la tastiera non più disposta in ordine alfabetico, ma secondo la frequenza di ricorrenza delle lettere. Alla ricerca di sempre maggiore perfezione, doveva però tardare a prendere il brevetto per la macchina a scrittura visibile fino al 26 gennaio 1883.
E qui s’impone un altro raffronto di date: Cristoforo Latham Sholes, il magnificato inventore americano, in quell’epoca si sforzava ancora invano di risolvere il problema della visibilità. Ne diede una soluzione solo poco tempo prima della sua morte, avvenuta il 17 febbraio 1890.
Malgrado tutta la sua genialità, Giuseppe Ravizza fu un grande misconosciuto. Per lui meglio che ad ogni altro può applicarsi lo spesso doloroso adagio: Nemo propheta in patria.
I suoi concittadini, che pur ne apprezzavano le altissime doti di coltura e di cuore, avevano finito per considerare la sua ostinazione nel parlare dell’avvenire della macchina da scrivere come di una mania di visionario. Né la famiglia si distaccava dall’opinione generale. I congiunti stessi avevano del resto soprannominato la macchina da scrivere, con l’appellativo novarese di «’l piano d’la bigota», il pianoforte della bambola.

Le poche macchine vendute (una dei primi acquirenti fu una signora forestiera, la baronessa Elisabetta di Klinkowström), non bastavano certo a coprire anche lontanamente le spese di costruzione e di perfezionamenti, le quali sempre più assorbivano le risorse dell’inventore. Due volte sembrò dovesse combinarsi una cospicua società di sfruttamento, una delle quali costituita con l’intervento di un avvocato romano e di un ricchissimo inglese, Mr. Fournes, ex ambasciatore alla Corte Ponteficia. Ma ambedue tramontarono, l’ultima a causa dell’ormai scossa salute dell’inventore, il quale aveva trasportato la sue residenza a Livorno.
Fu appunto nella vicina Genova che, nel 1883, ebbe il supremo dolore di vedere la prima «Remington» in cui poté riscontrare applicate la maggior parte delle idee che egli aveva realizzato da tanti anni.
Ciò non gli impedì di costruire nel 1884 un diciassettesimo ed ultimo modello. Il Ravizza morì povero a Livorno il 30 ottobre 1885, nell’epoca cioè in cui al di là dell’oceano Latham Sholes stava realizzando a passi giganteschi la sua colossale fortuna.
Né la macchina da scrivere è la sola invenzione realizzata dal Ravizza: egli creò pure un telaio da tessere a disegni, che espose all’esposizione di Milano del 1881. Anche per questo cercò invano appoggi. Si recò in proposito in Francia, ove a Lione ebbe ottime accoglienze e… molte promesse. Poi non se ne fece nulla. Viceversa pochi anni dopo una macchina del tutto consimile veniva lanciata sul mercato fruttando anch’essa milioni.


Ora giungiamo, per concludere, al punto più delicato della questione. Cristoforo Latham Sholes, i cui primi brevetti sono di tredici anni posteriori a quelli del Ravizza, ed hanno con essi una stranissima rassomiglianza, ebbe conoscenza dei dispositivi creati dal nostro, oppure le stesse idee germogliarono indipendentemente nei due diversi cervelli? Probabilmente una risposta definitiva non sarà mai data, contrariamente a quello che poté ottenersi per il Meucci circa l’invenzione del telefono. Del resto due altre nazioni contestarono al Sholes il suo primato: il Brasile con Joao de Avezedo di Pernambuco (1861) e l’Austria con il tirolese Mitterhofer (1866). Lasciando da parte, nei riguardi di date, la precedenza del Ravizza, mentre la macchina brasiliana era da essa del tutto dissimile e rudimentale, quella austriaca aveva pur essa delle strane rassomiglianze con l’ italiana, quindi si potrebbe in proposito ripetere quanto si è detto per lo Sholes.

Due circostanze importanti possono però dar da riflettere e permettere delle deduzioni la cui conclusione lascio all’arbitrio del lettore. La prima sta nel fatto che la macchina del Ravizza fu esposta a Londra all’esposizione del 1857, come lo dimostra un diploma di partecipazione tuttora in possesso dei discendenti dell’inventore. È molto probabile che qualche rivista, data la novità della cosa, ne abbia parlato, ed ognuno sa quanto la stampa inglese sia stata in ogni tempo letta in America.
Vi è di più. La notissima rivista di New-York, lo Scientific American, ebbe prima del 1866 occasione di occuparsi ripetutamente di tentativi di macchine scriventi e, fra l’altro, parlò anche del Ravizza; cosa naturale del resto, poiché Elia Beach, comproprietario del diffusissimo periodico americano, aveva pur esso costrutto una macchina da scrivere. Latham Sholes era giornalista, ed aveva per socio un noto tipografo: il Soulé: sembra quindi per lo meno improbabile, che non abbia letto questi articoli, lo Scientific avendo indubbiamente a Milwanke parecchi abbonati, e chi sa, fra questi, forse… il Sholes stesso.
Comunque siano andate le cose un fatto inoppugnabile sussiste; è che Giuseppe Ravizza, e con esso l’Italia, ha il diritto alla gloria dell’invenzione della macchina da scrivere. Macchina pratica nel vero senso moderno della parola, poiché come si può vedere dai due cimelii sopravissuti, di cui uno a scrittura visibile, in essa troviamo la tastiera azionante piccole leve, lo spostamento della carta per mezzo di un carrello automatico, l’inchiostratura pur essa automatica ottenuta per mezzo di nastro spostantesi con moto più lento della carta e perfino l’avvicinarsi del finire della linea segnalato dal tintinnio di un campanello.
Come ebbi recentemente a scrivere, trattando brevemente dell’argomento in un grande quotidiano, sarebbe opera veramente degna dell’epoca storica che attraversiamo se i cimelii ravizziani potessero essere riuniti o se almeno un bronzo od un marmo ricordasse la casa ove nacque ed oprò per tanti anni il padre della macchina che ha rivoluzionato la pratica quotidiana della scrittura.
Né la mia modesta voce sembra questa volta dover cadere nel vuoto, come avvenne per il passato, per altri che, prima di me, coraggiosamente tentarono di ottenere solenne, pur se tardiva riparazione ad una grande ingiustizia storica commessa a detrimento della genialità italica.”