Da Emporium, Vol. LXXII, N. 430, ottobre, 1930.
Di Diego Angeli.
“Nel 1890 viveva a Firenze un giovane abruzzese che le necessità della vita avevano costretto ad accettare un impiego nell’Istituto Geografico Militare. Lo stipendio come si può immaginare non era cospicuo e il giovinotto era ammogliato. Per necessità di economia domestica aveva affittato un appartamentino fuori di una delle porte cittadine e tutto il giorno lo passava in città non potendo spendere — co’ rudimentali mezzi di trasporto di quelli anni — per tornare a casa all’ora di colazione e non avendo il tempo per farlo a piedi. Così nel periodo di riposo che gli consentiva l’orario spezzato del suo ufficio, visitava la città e passava tutte le sue ore libere nei musei, nelle gallerie e nelle biblioteche fiorentine. Di natura entusiasta, con quel profondo amore per l’arte che sembra essere uno dei caratteri più precisi della natura abruzzese, il giovane fu a poco a poco preso da una grande passione: vedere soltanto non gli bastava più, bisognava approfondire con altri mezzi i misteri e i segreti di quell’arte che a poco a poco andava rivelandosi al suo spirito giovanile. Una cosa sopratutto, lo teneva inchiodato per delle ore in una muta ammirazione: la bellezza non superata dei codici miniati, che dai vecchi plutei della Laurenziana «ridevano» veramente agli occhi dei visitatori. E come egli, per lo stesso ufficio del suo impiego, era abile disegnatore, fu preso come da un irresistibile desiderio di ricopiare taluna di quelle lettere, taluno di quei fregi, taluna di quelle scenette che animavano di una vita immortale le pagine membranacee dei vecchi volumi. Fu così che incoraggiato dal barone Podestà — allora conservatore della Biblioteca Magliabecchiana — e dal Prefetto della Mediceo-Laurenziana, abate Anziani, che a una erudizione profonda univa una bizzarria di carattere che i vecchi fiorentini non hanno del tutto dimenticato, fu così che un nuovo artista nacque all’Italia. Un nuovo grande artista, aggiungerò, e forse l’ultimo a illustrare quell’arte dell’«alluminare» che con l’Attavante, con Oderisi da Gubbio, con tutta una serie di magnifici artisti non obliati, raggiunse la perfezione, fino al giorno in cui nuove invenzioni e nuove industrie non ne segnarono se non la morte, almeno l’ assopimento. Questo artista che con tanto amore e diciamo pure con tanto sacrificio, era riuscito a penetrare i segreti dei suoi predecessori illustri si chiamava Nestore Leoni ed era nato ad Aquila, negli Abruzzi, nel febbraio del 1862. La prima opera alla quale egli dedicò la sua attività nuova, fu la Canzone che Cino da Pistoia scrisse a Dante per la morte di Beatrice. Correva in quelli anni il supposto centenario di questo avvenimento e il prof. De Gubernatis — allora insegnante di Sanscrito nell’Istituto Superiore di Firenze — con più passione di poeta che con rigidezza di critico, aveva organizzato quelle feste fiorentine che furono per lui causa di tante ingiuste amarezze. L’illustrazione del Canto del Pistoiese era dunque, come si direbbe, d’attualità. Non solo, ma a pena il Leoni ebbe espressa l’idea di questa opera né facile né di piccola mole, il sindaco di Firenze, marchese Piero Torrigiani, plaudendo alla magnifica iniziativa volle costituire un Comitato fra le più elette gentildonne fiorentine, affinché il Canto di Cino, trascritto e alluminato, fosse offerto alla Maestà della Regina Margherita. La quale fu così lieta del dono, che non esitò a scrivere all’autore queste nobili parole che sono per lui il suo titolo di nobiltà artistica:
«Guardando ed ammirando l’opera d’arte squisita mi ricordo di Dante dipingente sopra una tavola un angiolo con le sembianze di Beatrice. Sembra che il divino poeta abbia ispirato a Leoni il sentimento che egli stesso doveva provare in quel giorno, nel quale ritraeva la sua donna idealizzata in forme angeliche».
Del resto i critici di allora — e ve ne erano taluni che per i loro studi profondi potevano dirsi maestri nella materia — non furono scarsi di lodi. Guido Biagi, colui che qualche anno dopo sarebbe chiamato a sopraintendere la magnifica biblioteca fiorentina, scriveva nell’Illustrazione Italiana: «Nessuno come il Leoni ha saputo rinnovare le vecchie eleganze decorative, di che ridono le carte dei codici miniati del Boccardino e da Monte del Fora. S. M. la Regina a cui fu presentato recentemente l’Albo che conteneva la Canzone di Cino da Pistoia in morte di Beatrice ebbe a meravigliare dello squisito lavoro e il padre Piscicelli, che è un’autorità in questo campo, riconobbe nel Leoni un artista degno di stargli al fianco». E Giulio Piccini nella Nazione esclamava : «È opera meritevole di essere accolta fra i tesori d’arte onde ama a circondarsi S. M. la Regina: lavoro che esprime col linguaggio della poesia, con la vivezza e la delicatezza dei colori, con il pensiero gentile che tutto lo informa, uno squisito sentimento». Mentre il critico del Fieramosca osservava argutamente: «Io penso che Cino da Pistoia certo gioirebbe se gli fosse dato di vedere di quanta sapienza e ricchezza ridon le carte, in cui il Leoni, novello Oderisi da Gubbio, trascrisse la Canzone, pennelleggiando intorno alle strofe di questa ornamenti condotti con estrema finezza da far veramente invidia non solo a Franco Bolognese, ma allo stesso Oderisi,
….Onor di quell’arte
che alluminare è chiamata in Parisi.
E gioirebbe ancor di più, vedendo a qual nuovo significato di civile poesia è assunta la canzone sua, messaggera di gentilezza e di affetto per una eletta schiera di dame alla prima Gentildonna d’Italia».
Né il rumore di questo nuovo prodigio d’arte rimase chiuso in Italia, ché oltrepassò la frontiera, tanto che l’Indépendance Belge (6 giugno 1890) ebbe a dichiarare che Nestore Leoni «est parvenu à retrouver les anciens procédés pour l’enluminure des livres».
Fu dunque un trionfo per il giovane abruzzese, che non si addormentò sugli allori. Quattro anni dopo — nel 1895 — ricorrendo il venticinquesimo anniversario dell’Indipendenza Italiana, egli raccoglie in un codice i discorsi di Vittorio Emanuele II, codice che viene presentato a S. M. Umberto da Marco Tabarrini «in nome della Nazione». Lo stesso De Gubernatis dando notizia dell’avvenimento nella Vita Italiana (settembre 1895) annotava: «Chi conosce le splendide pergamene della Biblioteca della Laurenziana di Firenze, ha di che far confronto con il superbo frontespizio: ed anche essendoci noto per fama il Leoni restiamo vivamente sorpresi nel constatare che in questo suo nuovo lavoro la tecnica antica e l’arte gloriosa dei nostri alluminatori sono, se non superate, certo eguagliate. I suoi ultimi lavori segnano senza esagerazione la resurrezione dell’arte della miniatura, già che il Leoni ha saputo non solo con arte geniale riprodurre le più fini ornamentazioni del Rinascimento, inquadrare ritratti e medaglieri superbi tra cornici di squisita fattura, ma ha anche con diligente pazienza ed amore profondo ricercato ed applicato gli antichi processi tecnici che erano finora un mistero per gli amatori di bei libri miniati». E sempre sullo stesso soggetto il Fanfulla scriveva: «Nestore Leoni s’è dimostrato, per replicate prove, degno continuatore di questi grandi Maestri — il Beato Angelico e Bartolomeo della Gatta — ai cui saggi preziosi e mirabili s’ispira pure sapendo imprimere nell’opera propria una nota personale, onde le deriva un carattere spiccato di originalità e di modernità». Nè questo trionfo si ferma qui, perché proprio in quel tempo — si era nell’agosto del 1896 — la Regina Margherita invitò il Leoni a recarsi a Monza dove Ella era in villeggiatura, e quivi ricevutolo, dopo molti elogi e molte parole di ammirazione lo invitò ad eseguire un libricino di preghiere dove potessero trovarsi tutte le orazioni — debitamente tradotte in lingua italiana — relative alla funzione religiosa delle nozze. Era intenzione della Illustre Signora di donarlo alla Principessa Elena di Montenegro in occasione delle sue nozze col Principe Ereditario. Il libricino fu eseguito in brevissimo tempo con molta soddisfazione della Regina e grandissima ammirazione di tutta la corte.
Ma finora la tenace attività del Leoni si era esercitata in lavori di mole relativamente ristretta. Fu nel 1901 che egli compì la prima di quelle sue opere che vorrei dire cicliche e di un interesse internazionale. E fu con la trascrizione e l’illustrazione di quella Magna Charta americana che è per i cittadini della Repubblica stellata l’origine stessa della loro vita nazionale e il palladio delle loro libertà civili. È interessante seguire a passo a passo l’opera del Leoni, che segna un continuo progresso. Vi è, dalla Canzone di Cino a questa Carta costituzionale degli Stati Uniti, una grande diversità di sentimento e una continua perfezione di tecnica. In seguito, queste doti si accentueranno fino a raggiungere le perfette armonie dei Sonetti Shakespeariani e le visioni celesti della Vita Nuova, fino ad ottenere nel Libro d’oro della grande guerra una così compiuta corrispondenza simbolica fra il testo e l’illustrazione, da formare un insieme da cui non si potrebbe toglier nulla e nulla aggiungere di nuovo.
La comparsa della Magna Charta americana fu salutata veramente come la rivelazione di un’arte nuova. Quell’antichissima espressione artistica, quale è la miniatura, acquistava veramente un senso di novità sotto l’abile e geniale pennello del Leoni. Per lui Fiorenza e Harvard si davano la mano e Giotto e Washington si trovavano sopra una stessa linea resi vivi da una stessa arte. I fogli miniati di questo prezioso documento, esposti in una sala dell’Associazione della Stampa, suscitarono il plauso universale. Presentati da Luigi Luzzatti, commentati da Adolfo Venturi, furono un avvenimento d’arte e di politica. «Auguro che l’opera d’arte di Leoni abbia nell’America, della quale così luminosamente illustra la storia, fortuna pari al suo grande valore artistico», aveva telegrafato la Regina Margherita. Luigi Luzzatti, nelle parole di presentazione si rivolgeva al pubblico dicendo: «Qui noi assistiamo questa sera al risorgimento di una nobile arte nostra che pareva perduta». E dopo di lui Adolfo Venturi, in una superba conferenza che è una profonda lezione di storia artistica, non esitava a concludere dopo aver analizzato con la sua parola entusiasta l’arte fiorita del Maestro abruzzese: «Mi rallegro che Nestore Leoni richiami a Roma un’arte che pareva defunta: alle stridenti cromolitografie uscite dalle officine torni a sostituirsi l’arte individuale, libera, cosciente! Per Nestore Leoni e per l’arte sua e per l’arte nostra ne traggo lieti auguri. Onore al Maestro!»
Nè allorquando l’opera del Leoni passò in America, il clamore suscitato fu minore. Primissimo a congratularsi col Maestro fu il Presidente Roosevelt, che avendolo ricevuto in udienza privata volle scrivere sul suo album queste parole significative: «Sono molto grato di avermi offerta l’opportunità di esaminare ed ammirare quest’opera magnifica che richiama alla mia mente i bellissimi messali del Medioevo». Durante un’ora, nel suo gabinetto della Casa Bianca il Presidente ammirò ad una ad una le tredici tavole che componevano la preziosa raccolta, e nel momento in cui l’artista abruzzese si congedò da lui volle offrirgli il suo ritratto con una dedica ammirativa, omaggio del grande Presidente d’ America, al grande «alluminatore» d’Italia.
Il successo ottenuto dal Leoni con l’Esposizione che fece della sua Magna Charta al Museo Metropolitan di Nuova York prima e più tardi a quello delle Belle Arti di Boston, fu senza precedenti.
«L’arte del Leoni — scriveva Charles Elliot Norton, l’illustre professore di Storia dell’Arte in quella Università di Harward che è la più antica e la più famosa delle Università americane — non teme confronti, per la sua perfezione tecnica e per la sua squisita composizione, con quella dei miniatori del Rinascimento Italiano; essa ci rivela una ricca fantasia decorativa così nella varietà dei disegni che dei motivi, una vivida immaginazione nello svolgimento del tema e una suprema eccellenza nella delicata esecuzione degli ornamenti e nelle figure miniate. Una più maestrevole opera non sarà facile vedersi nella nostra epoca». E qualche giorno dopo in una lettera diretta al Leoni aggiungeva: «Coi più sinceri auguri che la sua mirabile opera trovi chi sappia realmente apprezzarla per il suo vero valore artistico».
Le parole così sicuramente elogiative del Norton ebbero d’altronde un’eco larghissima in tutti gli Stati Uniti. «Non esiste in nessun paese del mondo — scriveva il Boston Herald — chi possa appena emulare il Leoni in questa bellissima tra le arti, non solo per la perfetta tecnica dell’esecuzione e per il magnifico senso delle proporzioni, ma sopra tutto per la rimarchevole varietà degli stili e della forma e per la bellezza e ricchezza dei colori e degli ori». «Quel profondo conoscitore dell’arte del minio che è Mr. Tearle, l’artista inglese che ha da tempo fissato la sua dimora fra noi — scriveva il Boston Evening Transcript — autentica e assoluta competenza in materia, giudica l’opera del Leoni il più straordinario lavoro del genere che egli abbia mai veduto». E quasi a concludere il New York Herald affermava: «Con questa opera che è senza dubbio la più importante di quelle finora eseguite per mole e grandiosità di concetto, il giovane artista italiano ha indubbiamente riconfermata quella reputazione mondiale che i suoi precedenti trionfi gli hanno oramai assicurata».
Dal giorno in cui il Leoni espose così trionfalmente l’opera sua nella capitale morale degli Stati Uniti, sono trascorsi ventisette anni e l’ammirazione per quel grande lavoro non si è affievolita. Altre generazioni sono cresciute, altri ideali d’arte — e così diversi! — sono comparsi tra gli uomini e la Magna Charta americana del 1901 continua ad avere devoti ferventi. Così fin dal 1916 va ricordata l’iniziativa dell’editore Sproul di Nuova York il quale fece eseguire una riproduzione a colori, di rara bellezza tecnica, e — cosa ancora più notevole — il Segretario per l’Istruzione Pubblica l’ha raccomandata a tutte le scuole dell’Unione, come una di quelle «cose di bellezza» che sono per i popoli anglosassoni «a joy for ever», una eterna gioia, e tale da educare al bello l’anima e la mente delle nuove generazioni. Dopo quasi un ventennio la maggior rassegna d’arte degli Stati Uniti International Studio non esitò a dichiarare a traverso un articolo di Helen Wight: «È impossibile descrivere l’ arte meravigliosa e l’inusitata tecnica di questo lavoro. Le riquadrature piene di delicate spirali, di aurei reticolati, di viticci attanagliati, di steli ornati di fiori; i colori che nelle loro sfumature azzurre e rosee fanno ripensare a quelli veduti negli antichi messali, e la varietà dei disegni, cose tutte che rivaleggiano con la tecnica perfetta del Rinascimento italiano».
II
L’arte della miniatura è un’arte di amore. Purtroppo, oggi, quando ognuno può improvvisarsi pittore senza conoscere l’arte del disegno o la tecnica del colore, questa dote precipua dell’artista è quasi una condanna. Per i giovani improvvisatori — privi di studi e spesso anche d’ingegno — una miniatura non è arte, come non è arte un gioiello di Benvenuto Cellini, che seppe creare tutto un mondo nel breve spazio di un pettine o di un anello. Ma l’arte dell’alluminare esclude l’improvvisazione facilona e costringe l’artefice a tornar sull’opera sua durante lunghi mesi ed anni, creando giorno per giorno una cosa nuova sopra una trama già stabilita. L’opera di un alluminatore non può dunque essere troppo numerosa ed è già portentoso quello che il Leoni ha potuto compiere in un numero d’anni relativamente ristretto e con intervalli relativamente brevi. Così, per esempio, dopo il grande trionfo americano del 1901, dovevano trascorrere altri tre anni prima che egli si presentasse al pubblico con una nuova opera. E questa fu di gentilezza tutta latina. Perché dovendo venire nel 1904 il Signor Loubet, allora Presidente della Repubblica Francese, a Roma a restituire la visita ai Sovrani d’Italia, il Leoni pensò che il Governo italiano potesse fargli omaggio di una opera che fosse al tempo stesso espressione di tecnica antica e mirabile manifestazione di vita moderna. Consigliatosi con Adolfo Venturi, questi con geniale trovata propose di miniare un Codice dei Trionfi Petrarcheschi. Nessun poeta era più adatto del Petrarca a questo omaggio italiano, il Petrarca da cui era sbocciato il mirabile rinascimento letterario della Pleiade francese; il Petrarca che aveva immortalato l’immagine di una grande Signora di Francia; il Petrarca, infine, che da Nolhac a Denys Cochin, da Remy de Gourmont a Havette aveva sempre esercitato la più nobile critica di Francia a cui si debbono pure saggi definitivi. A questi si aggiungeva un altro fatto: che proprio in quell’anno coincideva il Centenario Petrarchesco, alla cui solennità concorreva anche la Francia con speciali celebrazioni accademiche e popolari.
Presentato da Luigi Luzzatti, l’On. Giolitti, allora Presidente del Consiglio, accolse il Leoni e lo incoraggiò subito nel suo disegno. Rispondendo al presentatore, in una lettera del dicembre 1903, diceva: «Il prof. Nestore Leoni che tu hai mandato a me, ti porta la mia piena ed entusiastica approvazione della sua idea di offrire, a nome della Nazione italiana e come speciale omaggio del Regio Governo, al Presidente Loubet, quando verrà in Italia, i Trionfi del Petrarca, suggeriti dal Venturi e alluminati dal Leoni la cui fama di continuatore dell’arte di Oderisi è nota universalmente». Per l’artista questa volta si trattò di un vero e proprio tour de force, ché l’intiero Codice fu compiuto in 75 giorni soltanto. Rilegato a somiglianza di quello detto Ginori – Capponi d’Orvieto, fu mostrato a soli pochi «buoni intenditori» e ottenne il plauso universale. «Il lavoro del Leoni — scriveva il critico della Tribuna — tutto intonato sull’arte quattrocentesca è riuscito di una mirabile finezza e costituisce un’opera pregevolissima». E il Bacchiani nel Giornale d’ Italia faceva osservare: «In fine del volume si legge: Cominciato il 15 gennaio, finito il 6 aprile ricorrendo l’anniversario dell’innamoramento del Poeta. Dimostrino queste date, l’ultima delle quali è così cara ad ogni italiano, l’incredibile rapidità con cui fu compiuta tanta opera, frutto della dottrina e dell’amore di un esteta, del vivo ingegno e della raffinata perizia di un valentissimo artista». Ma il giudizio più lusinghiero è quello che sul Fanfulla della Domenica ebbe a dare Valentino Leonardi che fra gli scolari del Venturi è uno dei più noti e dei più apprezzati. Dopo aver brevemente descritto il nuovo lavoro del Leoni dichiarando che «le Carte dei Trionfi Petrarcheschi dalle miniature di Nestore Leoni uscirono leggiadre di tante grazie, di tanti sorrisi e di tanti colori quanti non ebbero mai» finisce con l’affermare: «Quello che a me piace rilevare è la grazia della glossa marginale, lungo il corso dei canti ove l’artista ha dato più libero corso alla sua fantasia. Il disegno è sulla trama di quelli intrecci a nodi, così caratteristici nella storia dell’arte decorativa nostra, che dalle miniature caroline e dai codici cassinesi si perpetua a traverso tutto il Rinascimento sino a connaturarsi nell’arte di Leonardo, e a passare per opera di Raffaello sul ricamo della mensa d’ altare della Disputa del Sacramento. Ridon le carte…. e l’esegeta ha dettato il più chiaro dei commenti. È il più bel Codice moderno, armonia vaghissima di forme e di colori
Se mai candide rose con vermiglie
In vasel d’oro vider gli occhi miei».
Così la critica d’arte e il giudizio dei giornali. Ma una più alta voce doveva consacrare il trionfo dell’artista. Nel 1905 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva fatto riprodurre il Codice dei Trionfi in una edizione fototipica di soli cento esemplari, uno dei quali mandò in omaggio a Giosuè Carducci. E questi, lietissimo del bel dono, ebbe a scrivere la seguente lettera che è come un brevetto di nobiltà, per ogni cuore che abbia l’animo d’intenderla :
« Eccellenza,
Lo splendore dei Trionfi Petrarcheschi inviatimi dall E. V. a nome di Nestore Leoni, la bellezza delle miniature che l’adornano e che rispecchiano il lungo studio e il grande amore degli antichi maestri, riempiono l’animo mio di gratitudine verso l’artista offerente e il Ministro porgitore. Voglia l’E. V. compiacersi di esprimere a mio nome le grazie più vive e sentite all’illustre artista esecutore di sì belle cose, al valente e coscienzioso artefice che ha reso in un tutto armonico i miracoli dell’arte antica e le divine fantasie del Poeta.
Suo affmo e devmo
GIOSUE CARDUCCI.
Bologna, 25 gennaio 1905.
Del resto, anche di quest’opera, abbiamo un recente esempio di vitalità. Le vicende di quel Codice sono abbastanza note. Il signor Loubet non credette di ritenere quel dono come fatto al Presidente della Repubblica, ma come un omaggio personale a lui stesso. Fu così che invece di depositarlo nella Biblioteca Nazionale, volle tenerlo presso di sé nella sua villa a Montélimar. La qual cosa si riduceva a un danno morale per l’artista che vedeva così l’opera sua sottratta all’ammirazione del pubblico. Altri avrebbe protestato o qualmente brontolato contro un simile fatto. Con la tenacia abruzzese che è tutta sua, il Leoni pensò di rifare per conto suo il Codice petrarchesco e si accinse coraggiosamente al non lieve lavoro. Era un’offerta che l’artista faceva alla sua passione e di questa fu compensato. Ché il nuovo Codice, riuscito certo superiore al primo per l’estrema raffinatezza della tecnica e per più ricchi accessori nell’ornamentazione, e per il quale l’artista spese tre lunghi anni di non interrotto lavoro, è oggi in possesso di S. E. il Capo del Governo. Sarebbe lungo e forse più che lungo inopportuno, narrare come un così prezioso Volume passò nelle mani dell’On. Mussolini. Fu una fortuna, questa, che permise al prezioso volume di rimanere in Italia, dove ora fa parte della Biblioteca privata del Capo del Governo. Il quale ammirò molto l’opera d’arte e volle dimostrare questa sua ammirazione all’artista offrendogli la propria fotografia con questa dedica: «A Nestore Leoni con ammirazione».
Altri cinque anni trascorsero prima che il Leoni portasse a compimento un suo nuovo lavoro e questo fu la Costituzione Argentina in cinque grandi fogli. «Lavoro — ebbe a dire il Giornale d’ Italia annunziando la visita che il Presidente di quella Repubblica, Saenz Peña, aveva fatto allo studio dell’artista — che per le sue proporzioni e per la sua poderosa concezione artistica, supera quanto si è fatto finora nell’arte dell’alluminare». «È un secolo di storia racchiuso in cinque tavole» — scriveva la Vita del 5 maggio 1910 soggiungendo che — «i quadri miniati da Nestore Leoni saranno il decoro della Mostra Italiana di Buenos Aires e meglio delle fragili architetture improvvisate e più durevolmente degli eloquenti discorsi occasionali, ricorderanno agli argentini il glorioso centenario celebrato anche in Italia con simpatia di consanguinei». Nè la profezia fu vana, perchè il Senatore Soldati, nel Senato argentino, concludeva una sua relazione, con la quale era fatta proposta di acquistare l’opera del Leoni per lo Stato, dicendo: «II Leoni è noto non solo in Italia ma nel mondo intiero ed io credo che siano sufficienti queste mie parole per giustificare la proposta della Vostra Commissione la quale esprime il voto che il Governo acquisti questa magnifica opera d’arte che sarà certamente il più bel ornamento del Palazzo del Congresso». E la proposta fu approvata all’unanimità. Mentre Nestore Leoni otteneva tutti questi trionfi in America, si preparava in Europa a presentarsi al pubblico in due grandi esposizioni di Belle Arti. In quelli anni — si era nel 1914, alla vigilia della guerra — gli organizzatori delle Mostre d’Arte non credevano ancora di dover dare l’ostracismo alla miniatura, come ad una manifestazione inferiore. Avendo fatto nel frattempo un lavoro di più piccola mole ma disquisita fattura — i Sonnets from Portuguese della Barret Browning, che fu poi acquistato da un amatore americano — egli poteva tutto dedicarsi alle due esposizioni cui voleva partecipare: quella di Venezia e quella di Lipsia. Dell’opera sua alla Biennale Veneziana parlò a lungo e bene quel Carlo Siviero che è fra i nostri ritrattisti contemporanei uno dei più nobili e dei più pensosi. «La Presidenza della Mostra Veneziana» — scriveva egli a conclusione di un suo articolo nella rassegna napoletana Regina, e che è un saggio su tutta l’opera del Leoni — «lo chiamò all’onore dell’XIa che si è testè inaugurata. Vogliamo augurare al pubblico e agli artisti che, fra tanta e variata messe di quadri e di statue, non passi frettoloso d’innanzi alle vetrine che chiudono le opere di questo poderoso conoscitore dei più grandi segreti di tecnica di tempi così lontani. Tale augurio noi lo facciamo perché è un riposo grande dello spirito, quasi una nuova parola educatrice che arriva alla coscienza quando con calma serena ci fermiamo d’innanzi alle profonde opere del Leoni e le interroghiamo».
In quanto all’Esposizione Industriale del Libro a Lipsia, una corrispondenza all’Emporium ci avverte del successo ottenuto nella capitale della bibliografia europea, concludendo col dire: «Le pagine mostrate a Lipsia, poiché altre sono esposte a Venezia, sono frutto di un senso d’arte squisito e d’una decorosa serietà di propositi non meno che d’una amorosa, abile, perfettissima esecuzione. Esse ottengono uno dei intensi successi di curiosità e di ammirazione, cosicché moltissimi chiedono schiarimenti ogni giorno, alla segreteria della Sezione».
III
Il quinquennio che va dal 1916 al 1921, segna il periodo che si potrebbe chiamare della maturità gloriosa nell’arte di Nestore Leoni. Maturità e gloria che egli raggiunge con due autentici capolavori: i Sonetti di Guglielmo Shakespeare e La Vita Nuova di Dante. Forse non è il semplice caso che ha riunito in un’eguale perfezione d’arte grafica i due poeti che segnano, nella storia del genere umano, due vette non raggiunte prima e non sorpassate dopo da nessun altro popolo al mondo. La storia del Codice Shakespeariano è molto semplice ed ahimè, malinconica, ed io stesso annunciandola nel Giornale d’Italia, l’ho brevemente narrata. «Il terzo centenario della morte di Guglielmo Shakespeare non ebbe fortuna. Capitato in piena guerra — nell’aprile del 1916 — in un momento in cui le sorti delle armi alleate erano gravi, passò inosservato. L’Inghilterra che aveva raccolto una somma abbastanza importante per la sua celebrazione pensò che quelli non erano giorni per discorsi commemorativi, i pageants e le rappresentazioni teatrali: la vita nazionale richiedeva una maggiore austerità e i denari che dovevano servire per manifestazioni verbali potevano esser spesi più utilmente e quindi di tutto il grandioso programma stabilito non rimase più nulla…. Ora fra le molte cose che dovevano esser fatte e che si erano preparate anche all’estero una interessava l’Italia e Roma. Perché appunto a Roma uno spirito solitario d’artista aveva immaginato un omaggio unico alla memoria del Poeta: uno di quei volumi preziosi che solo il genio italiano sa ancora dare di tanto in tanto, come una isolata manifestazione delle sue grandi tradizioni e della sua vitalità persistente. Il volume conteneva i Sonetti di Guglielmo Shakespeare, miniati e alluminati in una bella risurrezione del secolo elisabettiano: l’artista era Nestore Leoni, l’abruzzese tenace e appassionato che nella solitudine del suo luminoso studio di Via San Nicola da Tolentino aveva fatto rivivere come per un miracolo l’arte antica di Oderisi e dell’Attavante. Nestore Leoni è di quei rari artisti che lavorano per creare opere di bellezza senza far rumore intorno al proprio nome, senza far valere il merito grande dell’opera sua. Ultimo di una lunga serie di artisti che hanno riempito il mondo con la gloria delle loro alluminazioni, portando il nome d’Italia nei paesi più lontani egli ha dato all’America le superbe carte miniate della sua Costituzione, alla Francia i Trionfi del Petrarca che il Governo Italiano offerse al Signor Loubet quando venne fra noi, così come i Rettori Fiorentini li avevano offerti a Carlo VIII nella sua non fortunata spedizione; così come avrebbe dato questa opera suprema all’Inghilterra se più grandi avvenimenti e di più grave momento non lo avessero impedito».
Un altro studioso di letteratura e d’arte inglese, Guido Biagi, ebbe anche lui ad occuparsi di quest’opera Shakespeariana, con uno studio che fu pubblicato nel Bollettino d’ Arte della Pubblica Istruzione del maggio 1921. «Il Leoni — scrive il critico fiorentino — così per la tecnica pittorica come nel metter l’oro nei fondi e nel cesellato sta oramai a paro con i suoi antichi Maestri. L’artista abruzzese con il talento che è proprio di quella terra feconda d’ingegni, li vince tutti — gli antichi ed i moderni — per questa sua mirabile facoltà di saper adattare lo stile all’epoca e al soggetto, di saper creare figurazioni diverse, come avrebbe appunto fatto — non altri ma lui solo — se fosse nato supponiamo trecento anni prima nell’arte Elisabettiana. Il miniatore della Costituzione Americana, dei Trionfi, dei Sonetti dal Portoghese, sa trasformarsi e rivivere l’epoca ed il sentimento dei vari soggetti che vuole non illustrare ma raffigurare. Si riconosce la «griffe du maître» più che altro in quel senso di armonia che regna in ogni sua composizione, nella fusione perfetta dei colori, nella finezza delle figurazioni. Ma da un’opera all’altra tutto è diverso, si respira l’aria di un’altra epoca di una differente ispirazione. In questo volume unico, di cui non si sono fatte riproduzioni, dei Sonetti di Shakespeare, del libro in cui l’espressione passionale ha raggiunto una tale altezza quale non fu né sarà mai più sorpassata, l’artista ha veramente sorpassato sè stesso compiendo un’opera che è degna della più sconfinata ammirazione. Noi abbiamo lo snobismo delle antichità e abbiamo il torto di non pregiare abbastanza le opere del nostro tempo quando anche abbiano pregi d’arte inestimabili. Gli antichi, i nostri predecessori, che ci hanno lasciato i mirabili libri che ridono nelle vetrine delle più invidiate collezioni, non avevano tale stolto pregiudizio e col premiare e incoraggiare gli artisti del loro tempo preparavano ad essi la gloria futura e a sè la rinomanza di mecenati intelligenti e previdenti».
Fortunatamente quest’opera insigne che in origine era destinata all’Inghilterra è rimasta in Italia. Il Senatore Borletti, acquistandola, ha voluto arricchire le sue collezioni di una gemma d’incomparabile bellezza.
Eguale trionfo d’elogi, e forse — dato anche,il soggetto e la sua mirabile riproduzione a colori — una più vasta ammirazione di pubblico, ottenne la Vita Nuova. Fin dal 1907, Nestore Leoni, aveva concepito questa opera di grande mole ed anche ne aveva fermate le linee architettoniche e l’ordinamento generale. Poi altre cure erano sopravvenute e il lavoro aveva dovuto essere interrotto. Ma nel 1919 l’idea fu ripresa per espresso desiderio di Pompeo Molmenti allora Sottosegretario di Stato per le Belle Arti e l’esecuzione fu resa possibile mercé l’illuminata liberalità di Angelo Pogliani che mise a disposizione del Leoni la somma necessaria per la riproduzione del Codice in una edizione in fac-simile che fosse una vera rarità bibliografica. Questo Codice, oltre alle alluminature del Leoni, doveva anche contenere alcune figure illustrative di Vittorio Grassi. Impresa non lieve per il giovane artista, che doveva lottare contro una duplice difficoltà: quella di armonizzare la sua arte con quella del Leoni e quella di mantenersi originale, in un soggetto nel quale aveva tanti e tanto grandi predecessori. Si trattava, infatti, di non essere un semplice imitatore di un qualunque giottesco, né un seguace del Botticelli e tanto meno un continuatore del prerafaelismo rossettiano. E per ottener questo risultato egli s’impose questa direttiva: d’illustrare la Vita Nuova con immagini quali avrebbe potuto «vedere» un lettore contemporaneo. Con un misto, cioè, di verità e di idealizzazione, nel quale potevano fondersi i vari elementi citati senza pur ricordare le fonti onde erano derivati. E bisogna riconoscere che Vittorio Grassi è perfettamente riuscito in questa sua non lieve impresa. E l’esito sorpassò ogni aspettativa: dalla carta pergamenata e appositamente fatta alla rilegatura, dai fregi d’oro — così difficili a riprodursi con mezzi fotomeccanici — alle magnifiche riproduzioni miniate che l’Istituto d’Arti Grafiche di Bergamo eseguì con assoluta perfezione d’arte, dai caratteri del testo ai tessuti delle custodie, il volume riusci degno del soggetto altissimo e — si può dirlo senza tema d’errore — quale non solo in Italia ma in nessuna altra Nazione al mondo era stato fatto simile.
Alessandro Bacchiani, annunciandolo nel Giornale d’Italia del 19 Novembre 1921 scriveva: «Nel passato un volume così fatto rendeva felice un magnifico signore che ne adornava la casa a documento del suo fasto e del suo buon gusto. Nel bel mezzo del Quattrocento il Duca Federico Feltrio chiamò nella sua reggia urbinate i migliori alluminatori del tempo e ne ottenne il Codice della Commedia che è oggi uno dei cimeli più ammirati della Biblioteca Vaticana, così come cinque secoli più tardi, il Codice del Leoni, per espresso desiderio del S. Padre sarà collocato nella stessa Biblioteca a perenne testimonianza che l’arte dell’alluminare per merito di questo eccezionale temperamento di artista continua in Italia la sua gloriosa tradizione».
E quasi nel tempo stesso Luigi Siciliani — che poco dopo doveva succedere al Molmenti nel Sotto Segretariato alle Belle Arti, scriveva sull’Idea Nazionale: «Quale banchiere fiorentino della stirpe dei Medici, o quale buon intenditore senese della famiglia dei Chigi, mi ha posto sotto gli occhi questa mirabile edizione della Vita Nuova di Dante? Nel secolo degli arricchiti facili ed ottusi è proprio possibile tanto buon gusto ? Guardo. Riguardo le pagine. Chi ha disegnato o colorito queste miniature che sembrano strisce d’amore primaverile ? Nestore Leoni, un abruzzese d’Aquila, un conterraneo di Benedetto Croce. Come mai questo ammiratore di Dante Gabriele Rossetti è rimasto così ostinatamente italiano nel gusto e nello stile ? Questi suoi giuochi ed intrecci di colori di tutte le gradazioni e di tutte le sfumature seguono pagina per pagina il ritmo interno e segreto del libro come una melodia. Mi pare che Nestore Leoni abbia tradotto con i suoi sottili pennelli quello che il suo dotto conterraneo Benedetto Croce non ha per me tradotto nel suo opimo volume. Dove ha studiato sinfonia questo straordinario epigono di Franco Bolognese ? Ha egli ascoltato Casella sulla sterile spiaggia del Purgatorio ? O non più tosto qualche spirito misterioso lo ha condotto attraverso tutte le cattedrali di Bisanzio in fiore a notarvi le armonie e le virtù delle gemme come un lapidario medioevale ?»
E Luigi Serra, con meno impeto lirico, ma con più compiuta visione critica, annotava nel Tempo del 2 gennaio 1922: «E un’opera d’arte creata per esaltarne un’altra. Nè è a credere che essa sia stata pensata come la ripetizione di vecchi codici miniati o come la ricostruzione archeologica, sapientemente elaborata traverso la tradizione artistica coeva all’Alighieri. È un omaggio moderno reso con modernità di spiriti a Dante e al Trecento. Tutto l’organismo illustrativo risente si delle opere d’arte fiorite intorno agli amori di Dante, ma esse sono guardate con gli occhi del nostro tempo, si da recarne una immagine rinnovata che spesso ha dell’antico soltanto il sapore o un vago andamento per animarsi nei riflessi del nostro sentimento».
Ma a questi vari giudizi di critici, altri se ne aggiunsero spontanei di personaggi illustri che d’innanzi alla perfetta opera d’arte sentirono il bisogno di esprimere la loro ammirazione all’autore. Così Adolfo Apolloni scultore di eleganza classica, Senatore del Regno e allora Sindaco di Roia, scriveva al Leoni: «Le parole non possono essere sufficienti per esprimere la mia ammirazione per la magnifica opera. Tutto è corrispondente ed in relazione all’omaggio che l’Italia rende alla memoria del più grande dei suoi figli».
E Luca Beltrami, l’artista illustre ed il critico sagace e profondo: «Scorrendo le pagine dell’esemplare della Vita Nuova ebbi non solo confermato ma superato il giudizio autorevole che già avevo sentito pronunciare. L’opera che armonizza così genialmente le più belle tradizioni — dell’arte del minio con le illustrazioni di Vittorio Grassi affermanti lo spirito moderno della pittura rimarrà documento significativo della vitalità del genio e della operosità italiana».
E Isidoro del Lungo, dantista insigne e Consolo dell’Accademia della Crusca: «La Vita Nuova dantesca alluminata da Nestore Leoni ed illustrata da Vittorio Grassi è uno, certamente, dei più solenni contributi dell’arte italiana al secentenario dantesco».
E Pompeo Molmenti: «La parola è ineguale ad esprimere la mia ammirazione per il preziosissimo libro che mostra ciò che possono gli artisti nostri. E veramente il miniatore e l’illustratore sono degni del Poeta divino. Miglior lode non si potrebbe far loro».
E Corrado Ricci, che alla genialità dello storico d’arte unisce il profondo culto per l’opera dantesca: «È una mirabile opera d’arte pervasa da altissima poesia. L’opera del Leoni non è solo opera da alluminatore, ma di risuscitatore di un’arte gloriosa».
E Vittorio Rossi, il geniale professore di Letteratura Italiana all’Università di Roma: «Le geniali concezioni e il sapiente magistero di linee con cui il Leoni ha ornato di fregi il Codice originale di quel soave libro che è la Vita Nuova e la perfezione tecnica con cui fu curata in ogni particolare la riproduzione, fanno del volume una squisita e singolarissima opera d’arte, degno omaggio del Divino Poeta, della Nazione, dell’Umanità».
E Michele Scherillo altro dantista insigne: «Magnifico e principesco volume veramente degno del nome dell’altissimo poeta».
E Adolfo Venturi: «Non imitazione ma ripristino dell’antica arte gloriosa della miniatura è questa Vita Nuova che Nestore Leoni ha curato con ogni attenzione in tutti i particolari, nella ricchezza e, potrebbe dirsi, purezza della stampa, così che il codice principe sembra racchiudere, nelle pagine fiorite dell’opera giovanile del Divino Poeta, un alito di primavera». E finalmente il colto prelato Monsignor Gastone Vanneufville, in una corrispondenza del 13 febbraio 1924, al giornale La Croix, dopo aver fatto la storia del bel volume e descritto l’opera d’arte, concludeva riportando le parole di Don Achille Ratti, allora bibliotecario dell’Ambrosiana e oggi Sommo Pontefice sul Soglio di Pietro col nome di Pio XI: «L’illustre scienziato — il Ratti — e bibliofilo, ebbe ad esprimere il parere che «il codice della Vita Nuova alluminato da Nestore Leoni dovesse e potesse degnamente figurare accanto agli antichi gloriosi esemplari dell’arte del minio a dimostrare che — dopo secoli di abbandono — è stato possibile il rifiorire di un’arte che fu nel passato, tenuta in sommo pregio».
Plebiscito generale di ammirazione, come si vede, che consacrava definitivamente la gloria dell’illustre artista abruzzese, per un’opera che a suo dire avrebbe dovuto essere l’ultima della sua laboriosa esistenza. Ma fortunatamente non fu così. Chè già egli aveva pensato ad un codice supremo, una specie di «Corpus» della virtù militare, esaltante e tramandante ai posteri più lontani la gloria della Nazione e dell’individuo nell’impresa della grande guerra. Questo egli aveva pensato mentre ancora fra le petraie sanguinose del Carso e le balze lacerate del Trentino pendevano incerte le sorti delle battaglie. Ma non un istante il suo spirito aveva disperato dell’esito finale tanto che poteva scrivere, proponendo questo suo lavoro: «Dal meraviglioso telegramma di Quarto in cui la parola del Re fu pari all’altezza dei Fanti d’Italia, al discorso pronunciato in Campidoglio da Antonio Salandra, dalle solenni affermazioni del Parlamento, ai discorsi degli uomini di governo, dal proclama dettato dal Re nell’ora in cui prendeva il Comando Supremo dell’ Esercito e dell’Armata, ai comunicati tacitiani del Generale Cadorna, fino all’«immancabile» vittoria delle nostre armi, le colonne miliari della Via della Vittoria saranno fermate per i secoli nel Codice Sacro della Patria».
Perché questo infatti, era il lavoro a cui si accingeva il Leoni: trascrivere in pagine imperiture nelle quali l’arte del minio desse il suo rinnovato magistero, i fatti, gli episodi e i documenti più importanti della guerra e della vittoria, unitamente a tutte le ricompense agli atti di valore, così a quelli delle unità combattenti, come a quelli d’ogni singolo individuo.
Nel 1918, Ferdinando Martini, che aveva accettato di presiedere il piccolo comitato creatore per condurre a fine una così grande impresa, raccomandandolo caldamente al Popolo Italiano, non esitava a scrivere: «E perché la valentia universalmente nota di un artista ci dia sicurtà di bellezza, vogliamo affidata l’opera a Nestore Leoni che la ideò e ne tracciò le linee ed a cui si deve se l’arte della miniatura, che fu gloria essenzialmente italiana, è ritornata in onore dopo più che quattro secoli di abbandono».
Questo nuovo codice leoniano è tuttora in via di esecuzione, ma dalle pagine già compiute si può conoscere e capire quello che sarà ad opera finita. «Un gran fatto consacrato da una grande opera d’arte» lo ha definito il Bacchiani in una sua nota sul Giornale d’Italia. E Carlo Siviero sulla Tribuna aggiungeva: «Io voglio annunciare ad alta voce a quelli che, come me, attendono ancora dalle misteriose forme dell’arte l’opera «viva» della nostra guerra di redenzione, voglio annunciare, ripeto, che tale opera può considerarsi oramai un fatto compiuto. Quando tutti i palpiti che hanno alimentato l’azione o che l’hanno riscaldata con le fiamme più vivide della passione rivivranno senza fronzoli letterari e senza lenocini di gesti arbitrari, plastici o pittorici, nelle chiare e semplici parole dei fatti certi della storia; quando l’ardore e l’ardire saranno accompagnati dalla musicalità sobria, solenne e severa dell’arte del Leoni, e i tre colori della nostra bandiera e l’azzurro e gli ori e il verde dei lauri rinnovati di gemme più vive, parleranno ai nostri cuori il loro muto linguaggio, l’epopea della nostra guerra, consacrata dalle tradizioni secolari di un’arte essenzialmente italiana avrà avuto, a mio modo di vedere, quella consacrazione civile definitiva in virtù della quale essa potrà anche aspirare a vivere la vita immortale dell’arte».
Ma due parole, fra tante, mi sembrano definitive. Quelle di S. E. Pietro Fedele, già Ministro della Pubblica Istruzione, e l’altra di S. E. Luigi Federzoni, scrittore di razza e attualmente Presidenza del Senato del Regno. Scrive Pietro Fedele: «Nestore Leoni è non soltanto il continuatore ma anche il risuscitatore dell’arte nobilissima dell’alluminare, nella quale non vi è certo chi lo superi. Le carte al suo tocco magistrale ridon di divina bellezza, sia che con luminosa fantasia e con paziente diligenza vi disegni le più fini ornamentazioni, sia che in essa ponga ed inquadri ritratti e medaglioni tracciati con impareggiabile maestria. Antica e nuova l’arte del Leoni è vera gloria del nostro paese».
E scrive Luigi Federzoni, che per l’occasione ha ritrovato la penna del critico indimenticabile Giulio de Frenzi: «L’arte di Nestore Leoni eccelle nell’esprimere cose grandi entro brevissimo spazio. Per questo aspetto e, forse, non per questo soltanto, essa somiglia al sonetto, succinta veste, tradizionale veste di gloriosa poesia italiana. Ma Nestore Leoni rifugge dagli spunti convenzionali come dalle ricordanze decorative. Ogni sua invenzione svela un senso pieno e complesso, rispondente all’argomento in chiara intuitiva armonia, ove il disegno concorre con lo sviluppo ingegnoso di appropriati concetti, e i colori creano un’atmosfera ineffabile di vita fantastica. Arte che sembra riecheggiare il passato, ma risuscitandolo in un palpito lirico di sogno, come quando illustra la Vita Nuova e i Trionfi petrarcheschi. Arte invero viva e schietta, che saprà dire del tempo nostro una parola degna alle generazioni future, allorché queste potranno trovare nelle pagine indistruttibili del meraviglioso Codice della Guerra Mondiale insieme coi documenti massimi dell’eroismo e del sacrificio del popolo italiano, l’interpretazione suggestiva e profonda della fase decisiva della nostra storia».
In quest’opera monumentale, come per la Vita Nuova, tutta la poderosa fatica per la materiale esecuzione è sopportata unicamente dal Leoni, con la collaborazione del suo fedele scolaro Enrico Brignoli che lo aiuta — oltre che nel tracciare le bellissime scritture — anche nell’esecuzione accuratissima delle alluminature della cui tecnica — sotto la quotidiana e più che trentenne guida del Maestro — è già reso espertissimo. E solo in questi ultimi tempi il Brignoli si è valso dell’aiuto di un suo giovane nipote: Renato Garrasi, il quale ha mostrato di avere ottime disposizioni a seguire le orme dello Zio nella difficile tecnica pittorica dell’arte del minio.
Intanto mentre si sta compiendo questa nobile opera patriottica che nell’arte del Leoni vorrei dire definitiva, egli ha — come per un riposo del suo spirito ed è riposo veramente fecondo e degno dell’artista — intrapreso due lavori di minor mole se non di minor bellezza. Uno è un «prayer book», trattato con squisitissima arte d’ispirazione puramente italiana piena d’originalità e di quella personalità che mettono il nome del Leoni e la sua tecnica preziosa accanto a quelli — e non sono molti — dei più illustri alluminatori antichi, quasi ne riallacciasse la tradizione, mantenendo puro il carattere italiano d’un’arte che in Italia aveva trovato le sue forme più definitivamente rappresentative. E l’altro è un libro di preghiere per nozze: libro che esce per la sua concezione e per la sua composizione da quanto il Leoni aveva fatto finora. Si tratta di un audace innesto — un umanista direbbe «contaminazione» — dello stile tradizionale dell’arte dell’alluminare, sopra una visione verista. Ogni pagina di questo breve «libro delle ore» è tutta adorna di fiori. Ma questi fiori sono trattati con un senso di profonda verità. Essi rivivono veramente sotto l’appassionato pennello del Leoni. Si direbbe quasi che una mano gentile ne abbia sparso con amorosa negligenza le varie pagine lasciandoli cadere mollemente fra le lettere d’oro del testo. Sono centinaia di viole, di biancospini, di peschi, di mandorli, di giacinti, di gelsomini, d’anemoni, di margherite, che l’arte ha fissato sul vello rendendoli immortali. E così grande la loro freschezza che si direbbero ancora stillanti di rugiada e fragranti di profumo. E così viva è la loro rappresentazione che sembrerebbero caduti pur ora dalle mani di qualche Flora bellissima che per un suo giuoco avesse dato loro l’immortalità della giovinezza. Questi due libri sono veramente opera di religione e di fede in cui la preghiera, adorna di una bellezza nuova, par veramente innalzarsi al cielo tra le più nobili manifestazioni dell’arte.
IV
Pochi artisti forse hanno avuto come Nestore Leoni una critica favorevole fin dal suo primo lavoro. Ma questa unanimità di elogi, a parte il merito dell’artista, significa qualcosa di più: è come il riconoscimento del valore che egli ha nella sua opera rintegratrice di un’arte che fu — e aggiungerò che può ancora essere — fra le più gloriose d’Italia. Oggi è vezzo dare l’ostracismo alla miniatura, si che molte esposizioni la escludono come una forma d’arte superata. Già prima di tutto bisognerebbe intendersi su questo termine: arte superata. Nessuna arte, quando arte è veramente, può dirsi superata. Fidia è contemporaneo di Michelangelo e la Santa Teresa del Bernini può stare sulla stessa linea della Madre di Costantin Meunier. Se si dovesse veramente ammettere questa «superazione» ogni arte morrebbe dopo appena un cinquantennio di vita. È una strana pretesa, questa nostra — e pur troppo è anche la constatazione d’un bizantinismo che tiene più alle disquisizioni che alle opere — è una strana pretesa d’essere noi i soli iniziatori di un’arte nuova. Quando Giotto dipingeva le sue Madonne — e Dio sa se all’epoca sua quella fu veramente una rivoluzione innovatrice — non pensava certamente di rinnovare il mondo, ma solo di continuare quello che aveva fatto Cimabue e prima di lui i maestri greci. Né il Canova scolpendo il monumento a Clemente XIV pensava certamente di fare una rivoluzione. Non esiste un’arte superata, come non esiste un’arte socialista, un’arte reazionaria, un’arte cattolica: esiste l’arte e quando questa raggiunge la perfezione è di tutti i tempi e di tutti i popoli.
Ora per l’arte dell’alluminare può farsi questa osservazione: se domani si volesse con quella ritornare all’industria dei codici e sopprimere la tipografia per rimettere solo in onore le belle pagine miniate, si farebbe opera da pazzi o da illusi Ma nessuno ha di queste intenzioni, le quali sarebbero eguali a quelle che potrebbero sorgere in un ardito speculatore che volesse rimettere in onore le diligenze per abolire l’automobile. Vi è però qualcosa di più e di meglio che quest’arte può fare: tramandare, cioè, all’età più lontane i fatti e le glorie di un’epoca sotto una veste che nessuna tipografia al mondo saprebbe darle. Ma vi è di più: nessuna delle arti rappresentative può — come un codice alluminato — dare una visione intiera e compiuta di un avvenimento storico. L’affresco, la statua, il quadro e per fino l’architettura, non potranno riprodurre che frammenti episodici, momenti di una battaglia, aneddoti di una vita eroica. Il codice, per conto suo, ci presenta l’intiero svolgimento di tutto un periodo, lo segue non solo nella sua visione grafica, ma lo commenta, lo illustra, lo sviluppa col suo testo. Se si pensa che fra qualche secolo, la maggior parte dei nostri libri e dei nostri giornali saranno irrimediabilmente distrutti e se a questa distruzione si mette di fronte la conservazione quasi eterna dei codici antichi, si vedrà quale vantaggio può trarsi da una simile espressione d’arte. Oggi quello che noi sappiamo di antica storia e di cultura antica, lo sappiamo unicamente attraverso le pergamene secolari. Il Codice Vaticano dell’Eneide — così prezioso, oltre tutto, anche per le sue illustrazioni che ci permettono di rievocare nei suoi particolari più umili la vita romana — è del IV secolo di Cristo, e dell’VIII sec. è il così detto «codice purpureo» di Rossano. Noi abbiamo col Boewulf il più antico poema vernacolare d’ Europa solo perchè uno studioso scandinavo lo ritrovò in mezzo ad antiche pergamene. E tutte le donazioni e tutti i brevetti e tutti gli statuti che formano la Magna Charta della nostra nobiltà civile e della nostra grandezza di popolo, sono giunti fino a noi solo perché fissati sul vellum della pecora.
Ora, fra i grandi fasti della storia d’Italia quello della Guerra Mondiale è certo il più importante. Per la prima volta dopo la caduta dell’Impero Romano, l’Italia nazione e l’Italia popolo scendeva armata in guerra per la conquista dei suoi ultimi confini. E dirò di più: per la prima volta forse nella sua storia, questo fatto avveniva, perché in fondo anche l’Impero romano era un’agglomerazione di popoli e nelle sue legioni combattevano i rappresentanti di tutte le razze del mondo d’’allora. Riunire in un «corpus» unico i documenti di questo grande fatto, e riunirli sotto veste degna e in forma di bellezza, è dunque impresa di grande espressione patriottica e di nobile aspirazione ideale. Dalle pagine già compiute — e sono pagine meditate in cui l’armonia del colore accompagna mirabilmente l’invenzione del disegno — si può dire che mai l’arte di Nestore Leoni aveva raggiunto una più alta vetta. Arte di semplicità e di bellezza, che apparisce come purificata dalla fiamma onde è pervaso il soggetto altissimo impreso a trattare.
Ma a queste considerazioni d’ordine che io direi utilitario, un’altra ne voglio aggiungere che ha la sua importanza ed è questa: che opere come i Trionfi Petrarcheschi, i Sonetti Shakespeariani o come la Vita Nuova Dantesca, sono opere di bellezza, fatte per rallegrare lo spirito di chi sa comprenderle e per carezzare lo sguardo di chi sa amarle. Opere di bellezza! Non avessero altro pregio io vorrei solo per questo additarle alla riconoscenza dei contemporanei. In un’epoca in cui sembra che gli artisti si compiacciano solo nella ricerca del deforme e del caricaturale; in un’ epoca in cui col pretesto di ricercare il carattere si vede solo quanto di più malato e di più morboso ha il genere umano; in un’epoca in cui con l’illusione di un rinnovamento semplicista si disprezza il disegno perché superfluo, la prospettiva perché è una «complicazione cerebrale» o si tralascia volontariamente il colore perché è un «lenocinio di decadenza»; in un’epoca come questa, dico, è bene che ci sia ancora qualche artista isolato che persegue un suo sogno estetico fatto di semplicità, d’armonia e di nobiltà, che sono doti schiettamente ed essenzialmente italiane. Perché fra le altre cose, in tanta esasperazione — puramente verbale purtroppo — di nazionalismi, noi non ci accorgiamo di metterci al passo dietro una brutta estetica germanica, la quale sempre, a traverso i secoli, ha cercato nel grottesco e nel malsano, quell’eccellenza che non poteva raggiungere in altri campi.
Nestore Leoni, nato e cresciuto in quella dura terra d’ Abruzzi che sembra debba essere la riserva delle pure forze della stirpe, segue ancora il suo sogno, e tenacemente, pazientemente, lottando contro mille difficoltà e mille malvoleri, proclama ancora una volta in faccia al mondo che l’arte italiana è ancora un’arte di Bellezza e di Fede. Illusione la sua ? Ostinatezza di un «superato» ? Io non so, ma benedico l’una e l’altra, e lo addito ai giovani come esempio di quello che sì può ancora fare per la più grande gloria della Patria e dell’Arte.”