Stati Uniti d’Europa, Europa e pace nel mondo, esercito europeo, diritto di veto alle Nazioni Unite, temi ancora attuali nella trascrizione di alcuni articoli contenuti nel primo numero dell’Europeo qualunque, rivista diretta da Guglielmo Giannini1, pubblicato il 31 dicembre 1946.
“Questa rivista è un altro passo verso la costituzione di quegli Stati Uniti d’Europa dei quali, fin dal primo numero dell’Uomo Qualunque, proclamammo l’inderogabile necessità.
I rapidi mezzi di comunicazione, il perfezionamento dei servizi-radio che consentono ormai la televisione artistica e anche la cronaca televisiva, l’invenzione di mezzi bellici d’inaudita potenza e d’un costo che pochi superstati possono pagare, spingono irresistibilmente gli antichi Stati Nazionali Europei all’Unione e alla Confederazione.
L’aviazione ha praticamente distrutto i confini geografici, il cui concetto permane nei cervelli dei politici unicamente come un rimasuglio di settecenteschi e incipriati orgogli. Che cosa valga un fiume largo poche centinaia di metri, una montagna i cui valichi saranno fra breve trasvolati dalle motociclette aeree, non si riesce a capire. Pure c’è ancora tanta gente costretta a battersi, a soffrire, a morire, perché degli sciocchi e miopi professionisti della politica vogliono piazzare una guardia confinaria un chilometro più avanti, su frontiere assurde che ormai delimitano soltanto «le regioni » di quell’unico Stato che è l’Europa.
Sia comunque ben chiaro, in Italia e fuori d’Italia, che nell’esprimere senza alcun imbarazzo questo nostro pensiero europeistico e antinazionalistico, noi non intendiamo affatto rinunziare alla nostra «nazionalità » né pretendiamo che altri rinunzi alla sua. Riteniamo però che la nazionalità possa essere espressa con mezzi e opere ben più grandi e consistenti di quelle che potrebbero essere compiute dagli eserciti nazionali e dal loro armamento: e cioè dal patrimonio artistico, culturale, scientifico, economico, produttivo, che ciascuna Nazione, degna del nome, non cessa mai d’esprimere.
Forse la nostra qualità d’europeiitaliani ci consente osservazioni e riflessioni che ad altri europei son forse più difficili. Meno d’un secolo fa l’Italia era ancora divisa in sette Stati, regni, ducati e principati, e molti italiani di certa coscienza e soda cultura ritenevano sinceramente impossibile la fusione di quei sette Stati in uno. Pure la fusione avvenne, i siciliani s’intesero con i piemontesi, i veneti con i toscani, i calabresi con i lombardi: e dalla guerra del 1915-18 contro l’Austria, l’Unità Italiana, che ancora qualcuno temeva minacciata, uscì saldissima; talché parlare oggi di separatismo e di particolarismo in Italia serve solo a far sorridere l’enorme maggioranza della gente di buon senso.
Non crediamo che le differenze linguistiche possano costituire un serio ostacolo all’Unità Europea: nella Svizzera convive una popolazione trilingue da vari secoli, originaria di tre diversi ceppi razziali. La difficoltà più grave sarà quella del problema religioso europeo, al quale ci proponiamo di dare la nostra maggiore attenzione chiamando a trattarlo gli scrittori più e meglio preparati e autorizzati. La convivenza politica di cattolici e protestanti, di ortodossi, ebrei eccetera dovrà essere studiata e preparata con la maggiore e più affettuosa diligenza, e nei limiti delle nostre cognizioni e delle nostre forze daremo il nostro modesto contributo alle discussioni che potranno semplificare e risolvere il grave problema.
Non pensiamo che la diversità di regime — monarchico in alcuni Stati, variamente repubblicano in certi altri — possa impedire l’unificazione europea. Il fatto che non si sia ancora verificato storicamente la convivenza fra monarchie e repubbliche non esclude che ciò possa verificarsi. Prima della costituzione degli Stati Uniti del Nord America nessuno pensava che degli Stati potessero unirsi: pure l’Unione Nordamericana si fece, e resistette splendidamente anche alla lunga guerra di secessione.
Iniziamo la nostra fatica con fede profonda, convinti d’essere nel giusto e nel vero, assolutamente decisi a far tutto quanto è e sarà in nostro potere per impedire che fra Stati Europei insorga una nuova guerra. Contiamo sull’amicizia dell’Uomo e della Donna qualunque d’Europa, d’ogni nazionalità e d’ogni razza, sull’appoggio e sul consiglio di ogni Amico e di ogni Amica. Sentiamo, nell’intimo del nostro cuore, che il Signore Iddio Onnipotente e Misericordioso vuole questa nostra fatica, l’approva e la benedice: e in tale sicurezza l’abbiamo iniziata, contando di proseguirla finché le nostre forze ce lo consentiranno.
Viva l’Europa !
GUGLIELMO GIANNINI”
GLI STATI UNITI D’EUROPA
“Winston Churchill a Zurigo ha tracciato le basi per gli Stati Uniti d’Europa: In tutti i suoi scritti e discorsi del dopoguerra egli ritorna su questo tema fondamentale. Se una volta l’Europa si accingesse unita ad attingere alla sua comune eredità, vi sarebbe felicità, prosperità e gloria senza limiti per i suoi trecento o quattrocento milioni di abitanti.
Eppure proprio dall’Europa è scaturita quella serie di terribili conflitti nazionalistici, provocati dalle nazioni teutoniche nel corso della loro ascesa a grandi potenze. Lo abbiamo visto durante il XX secolo ed anche ai tempi nostri queste forze hanno distrutto la pace e compromettono l’avvenire di tutta l’umanità.
Ed ora a che cosa è ridotta l’Europa? Alcune delle piccole nazioni hanno sì ripreso la via della ricostruzione, ma ancora vi sono vaste zone popolate solo da una enorme massa tremante di esseri umani tormentati, affamati, preoccupati e sbalorditi, che aspettano davanti alle rovine delle loro città e dei loro focolari, scrutando ansiosamente l’orizzonte per scoprirvi i segni di una nuova forma di tirannia e di terrore.
Tra i vincitori regna una babele di voci, tra i vinti il tetro silenzio della disperazione. Ecco che cosa hanno guadagnato gli Europei, raggruppati in tanti antichi Stati e nazioni, ecco che cosa hanno guadagnato le razze germaniche per essersi dilaniate tra di loro ed aver sparso la distruzione dovunque.
Infatti, se la grande Repubblica di oltre-Oceano, una volta resasi conto che la rovina e la schiavitù dell’Europa avrebbe segnato anche il suo destino, non fosse intervenuta, offrendoci i suoi soccorsi e la sua guida, avremmo fatalmente assistiti ad un ritorno dell’oscurantismo in tutta la sua crudeltà e squallore.
Ancora non è del tutto svanita questa minaccia; eppure vi è un rimedio il quale, se adottato spontaneamente e su vasta scala, potrà trasformare tutta la situazione.
Qual è questo supremo rimedio? È la ricostruzione dell’edificio europeo, o almeno di quella parte che possiamo rifare, in base ad una struttura tale da permetterne lo sviluppo in un clima di pace, sicurezza e libertà.
Dobbiamo costruire una specie di Stati Uniti in Europa. Solo così le centinaia di milioni di esseri umani, faticosamente intenti a vivere, potranno riacquistare le semplici gioie e speranze che solo rendono la vita degna di essere vissuta. Il procedimento è semplice. Occorre solamente la volontà di centinaia di milioni di uomini e donne decisi ad agire per il bene anziché per il male, sì da raccogliere benedizioni invece di maledizioni.
Molto lavoro è già stato compiuto in questo senso per opera dell’unione pan-europea che tanto deve al celebre patriota e uomo di stato francese Aristide Briand che ad essa ha dedicato le sue energie. E vi è anche la Società delle Nazioni, quel grande organismo, creato tra tante speranze dopo la prima guerra mondiale. L’insuccesso della Società delle Nazioni non è dovuto ai principi o ai concetti su cui basava. La Società delle Nazioni è fallita perché quegli Stati che l’avevano ideata, hanno finito per abbandonare questi principi per non aver saputo affrontare la realtà dei fatti e non aver agito fin quando era tempo di agire. Questa catastrofe non si deve ripetere: ora abbiamo a nostra disposizione molto materiale per costruire ed anche una amara esperienza, acquistata a caro prezzo che ci farà da sprone.
Non vi è motivo perché una organizzazione regionale dell’Europa dovrebbe in qualsiasi modo contrastare con l’organizzazione mondiale delle Nazioni Unite. Al contrario, sono del parere che la grande sintesi potrà sopravvivere soltanto se basata su larghi raggruppamenti naturali.
Esiste di già nell’emisfero occidentale un tal raggruppamento naturale. Noi britannici abbiamo la nostra propria associazione di nazioni. Le nazioni che costituiscono l’Impero inglese non indeboliscono, ma al contrario rinforzano l’organizzazione mondiale. Anzi, ne sono veramente il principale sostegno.
E perché non vi dovrebbe essere un raggruppamento europeo dal quale i popoli sradicati di questo potente continente potrebbero attingere un senso di più vasto patriottismo e di una comune cittadinanza? È perché questo gruppo non dovrebbe trovare il suo giusto posto accanto ad altri grandi raggruppamenti e collaborare alla formazione di un destino degno dell’Uomo?
Per raggiungere questa meta occorre un atto di fede al quale partecipino deliberatamente e coscientemente i milioni di famiglie che parlano lingue diverse.
Tutti sappiamo che le due guerre mondiali che abbiamo subite, sono scaturite dalla vana passione della Germania, la cui unità è di recente data, di avere una parte predominante nel mondo.
Durante questo ultimo conflitto sono stati commessi crimini e massacri, come non se ne sono più verificati dopo l’invasione dei mongoli nel XIII secolo e che sono senza precedenti in tutte le epoche della storia umana.
I colpevoli vanno puniti. La Germania deve essere privata della possibilità di riarmare e di scatenare un’altra guerra di aggressione.
Ma quando tutto questo sarà stato fatto, come sarà fatto e come si sta facendo in questo momento, allora bisognerà porre fine all’applicazione della legge del tallone. Vi deve essere quello che Gladstone, anni fa, definiva un «atto benedetto di oblio». Tutti dobbiamo volgere le spalle agli orrori del passato per guardare verso l’avvenire. Non ci possiamo permettere il lusso di trascinarci dietro attraverso gli anni da venire gli odi e le vendette scaturite dalle offese del passato. Quest’atto di fede nella famiglia europea, quest’atto di oblio verso tutti i delitti e tutte le doglie del passato è indispensabile, se vogliamo risparmiare all’Europa infinite miserie e l’estrema rovina.
Potranno i popoli europei innalzarsi alle vette della anima, dell’istinto e dello spirito propri all’essere umano? Se lo potessero, i torti e le offese subite sarebbero state cancellate dappertutto dalle miserie sopportate.
È veramente necessaria un’altra ondata di agonia ? Dovrà l’unica lezione della storia essere quella che l’umanità non imparerà mai niente? Facciamo che vi sia giustizia, misericordia e libertà. I popoli non hanno che volerlo, e tutti potranno soddisfare questo desiderio.
Il primo passo nella ricostruzione della famiglia europea dovrà essere costituito da un’alleanza tra la Francia e la Germania. Solo seguendo questa via la Francia potrà ricuperare il suo posto di comando morale e culturale in Europa.
La struttura degli Stati Uniti d’Europa sarà tale da ridurre l’importanza della potenza materiale di ogni singolo Stato. Le piccole Nazioni conteranno quanto le grandi e si faranno onore contribuendo alla causa comune.
Gli antichi Stati e principati della Germania, liberamente associati per reciproca convenienza in un sistema federativo potranno singolarmente prendere il loro posto tra gli Stati Uniti d’Europa.
Non tenterò di enunciare un programma dettagliato. Vi sono centinaia di milioni di persone che desiderano la felicità e la libertà, la prosperità e la sicurezza, che anelano alle quattro libertà di cui ha parlato il grande Presidente Roosevelt e che sono desiderosi di vivere secondo i principi della Carta Atlantica.
Se ciò è il loro desiderio, se è il desiderio degli Europei dei vari Paesi, non hanno che dirlo; sicuramente si potrà trovare il mezzo e la forma per ottemperare in pieno questo desiderio.
Ma ho da darvi un ammonimento. Potrebbe darsi che i tempi stringano. Se vogliamo creare gli Stati Uniti d’Europa — o come si chiameranno — dobbiamo cominciare ora.
Nell’attuale momento stiamo vivendo una strana e precaria vita sotto l’insegna della bomba atomica.
Oggi ancora la bomba atomica è solo nelle mani di uno Stato e di una Nazione di cui sappiamo che non ne farà mai uso salvo per la causa della giustizia e della libertà, ma potrebbe ben darsi che tra qualche anno questo terribile mezzo di distruzione avrà larga diffusione. Le conseguenze del suo impiego da parte di più Nazioni in guerra tra di loro significherà non solo la fine di tutto ciò che noi chiamiamo civiltà, ma potrebbe eventualmente portare alla disintegrazione del globo stesso.
Dobbiamo costantemente mirare a costruire e rafforzare l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Nell’orbita di questo sistema mondiale dobbiamo ricreare la famiglia europea sulla base di una struttura regionale che potrebbe chiamarsi gli Stati Uniti d’Europa.
Anche se in un primo momento non tutti gli Stati europei sono disposti o in grado di entrate a far parte di un tale sistema, dobbiamo purtuttavia procedere all’allineamento ed all’unione di quegli Stati che lo possono e lo vogliono.
La liberazione dell’uomo qualunque di ogni razza e di ogni Paese dalla guerra e dalla schiavitù deve appoggiare su fondamenta solide; la decisa volontà di ogni uomo e di ogni donna di preferire la morte alla tirannide ne deve essere l’artefice.
Tutti questi compiti urgenti devono essere presi in mano dalla Francia e dalla Germania insieme. La Gran Bretagna, l’Impero inglese, la potente America — e come spero anche la Russia Sovietica, ché in tal caso tutto sarebbe salvo — devono essere gli amici ed i promotori di questa nuova Europa e ne devono propugnare il diritto di vivere.
Perciò vi dico: «Fate che l’Europa sorga».
WINSTON CHURCHILL”
PACE IN EUROPA E PACE NEL MONDO
“Dalla lontana Cina giunge un messaggio all’Europa del Generale Ciang-Kai-Scec che vede il problema della Pace legato ad un nome: TRIESTE
Fermamente deciso a ristabilire l’ordine e la democrazia nel mio paese che, senza confronti, può dirsi il più infelice del mondo, guardo con ansia quanto avviene tanto lontano da noi, verso l’Ovest, verso l’Europa, il continente dal quale sono partiti 1 fari luminosi del moderno progresso e le ideologie più audaci. Noi in Cina non possiamo impegnarci seriamente nella ricostruzione prima che l’ Europa abbia ritrovato se stesso, sia rientrata nell’alveo della sua millenaria civiltà abbia dato il segnale di partenza che essa soltanto può dare.
L’immane tragedia che dal principio del secolo ha sconvolto la Cina non è ben conosciuta nei paesi occidentali. Essi, in gran parte, ignorano il travaglio che le nostre genti hanno pazientemente sopportato senza mai chinare il capo nello sconforto. Ancora oggi la pace non può dirsi perfetta in Cina. Non è facile togliere le armi dalle mani di chi le ha adoperate per tanti anni. Non è cosa semplice smorzare le ambizioni improvvise o lungamente meditate di coloro che non possono ritenersi immediatamente soddisfatti della posizione in cui son venuti a trovarsi nel dopo guerra. Questo fenomeno non è soltanto cinese, esso è comune a tutti: vinti e vincitori.
Se l’Europa ha visto in meno di 30 anni due conflitti spaventosi cosa non ha visto la Cina in mezzo secolo di guerre, di epidemie, di catastrofi che hanno causato la perdita di 60 milioni di vite umane? Eppure il nostro popolo mite e silenzioso non ha mai cessato di sperare ed ha proseguito impassibile la durissima lotta contro gli uomini e gli elementi. E non è ancora finita. Quanta amarezza mi assale nel dover ammettere che non è ancora terminato il travaglio.
Dopo la vittoria delle armi sperai ardentemente che per tutti i popoli avesse inizio un’era di pace, di lavoro, di ricostruzione, di prosperità. Son trascorsi venti mesi e non è così. Passioni violente si scatenano dovunque. Gli uomini sembrano invasati da demoni perfidi che li consigliano al male col rischio di farli precipitare in un baratro senza fondo.
Ho subito rivolto gli occhi all’Europa. Mi son detto che dopo una vicenda tanto tragica, forzatamente non potevano risolversi d’un colpo certi problemi. Ma ho sperato. Sapevo che solo il benessere dell’Europa poteva riportare il benessere per tutti. Sono fermamente convinto che se c’è pace in Europa c’è pace nel mondo.
Una volta una grande nazione credette di potersi chiudere in uno splendido isolamento, pensando egoisticamente che era meglio produrre per sé che soffrire per gli altri. Pochi anni furono sufficienti per farle riconoscere l’errore enorme che aveva commesso.
Il mondo è come un corpo umano. Una piccola ferita lo fa dolere tutto. Così, oggi, quanto avviene in una nazione interessa e influenza tutte le altre.
Perché l’Europa è tanto agitata ? In essa vivono vinti e vincitori, come ieri, come sempre. Dobbiamo infierire sui vinti? Dobbiamo forse sterminarli tutti? No. Questo è impossibile. Ci siamo battuti per distruggere coloro che pervasi da una ambizione sfrenata avevano calpestato i diritti dell’uomo. Adesso dobbiamo imporre questi sacri diritti e far sì che essi possano eternamente sopravvivere a noi e rendere l’umanità felice. Se infierissimo sui vinti commetteremmo un grave errore, non faremmo altro che rimandare a domani la loro rivincita. Uomini folli che esaltano le masse, purtroppo, ne son sempre nati, altri potrebbero ritentare le avventure sanguinose.
L’Europa è il centro del nostro mondo. Quando essa è agitata, tutti si agitano. Se essa è felice tutti son prosperi.
Io vedo con profonda amarezza il profilarsi di avvenimenti che potrebbero gettarci nel caos. La fine della guerra sembra voglia lasciarci in eredità la politica dei blocchi e delle ideologie. Perché?
In Europa esiste una barriera che divide i popoli, barriera che ha un solo nome: ideologia. Possibile che una idea o dei sistemi debbano portare alla distruzione dell’umanità? Gli uni dicono: «noi siamo la luce viva e nuova dell’avvenire. Vogliamo abolire l’oscurantismo, rigenerare i popoli, uguagliare i beni». Ma è vero questo? È possibile renderci tutti uguali?
Un nostro saggio del tempo dei tempi ha detto:
«E dovere dell’uomo compiere tutti gli sforzi per elevarsi nello spirito e nei beni. Tanto più egli si eleva, tanto più egli può giovare».
Gli altri dicono: «Noi vogliamo difendere quel bene supremo che è la democrazia. Nessuno più deve imporre agli altri il proprio credo. L’uomo è nato libero e tale deve rimanere».
Non voglio giudicare, vorrei soltanto che uomini sani potessero raccogliere dalle esperienze il meglio per tutti. Se così fosse non vedremmo con timore eserciti ancora con le armi al piede. Solo le ideologie dividono Europa e ne impediscono la ripresa. La guerra non ha lasciato solchi insuperabili. I problemi politici sono minimi.
Uno, uno solo è importante: Trieste. Ma per noi cinesi esso è un punto microscopico e non possiamo considerarlo con serietà. Cosa rappresentano pochi chilometri quadrati di fronte allo spazio infinito ? La Cina non ha rivendicazioni da presentare. Essa si guarderebbe bene dal voler assoggettare anche un solo suddito di un’altra nazione.
Da Trieste giungevano sino a noi navi con la bandiera italiana e a questa lingua appartenevano i marinai. Essi parlavano sempre dell’Italia con amore e nostalgia infinita. Non è forse italiana Trieste? Se il suo porto è necessario per la vita di altri paesi, lo si renda franco, si assicuri a tutti libertà di traffico e possa esso costituire un punto di incontro tra molte genti per la felicità comune.
Che la pace ai vinti sia generosa. Venga data ad essi la certezza di rinascere e vivere da uguali nel consorzio dei popoli. Non potrei concepire una Italia, madre e diffonditrice di nobili bellezze, come una terra di miseri. Non confondiamo i capi con i popoli e questo sia detto per tutti i vinti e sia monito per i vincitori.
CIANG-KAI-SCEC”
LE FORZE ARMATE IN UNA FEDERAZIONE EUROPEA
“Il Generale Roberto Bencivenga crede che sia necessario un esercito internazionale per salvaguardare la pace in Europa.
Sacrosanto è l’apostolato per una Confederazione europea. Le difficoltà sono grandi; ma la sua realizzazione è questione di vita o di morte per il nostro Continente. Il ritmo col quale si susseguono le guerre per cause che lasciamo agli economisti ed ai filosofi di indagare, ciascuna delle quali si conclude con trattati cosiddetti di pace che sono lievito di nuove guerre, diventa impressionante, e non sarà certo quest’ultima guerra ad evitare nuovi conflitti.
Se si pensa alla formidabile forza distruttiva degli strumenti odierni di guerra, che è vano prescrivere con intese solenni, ma vuote di contenuto e pur sempre violabili con pretesti giuridici più o meno fondati, sì prospetta una fine catastrofica della nostra civiltà.
Indubbiamente la costituzione di una Confederazione europea presenta gravi difficoltà perché essa non potrebbe avere limiti ben definiti come avviene per gli Stati Uniti d’ America. Dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico l’Europa è tutta una distesa di terre, sicché una Confederazione Europea non potrebbe sperare di avere solo sicure frontiere marittime a delimitarla, ma inevitabilmente una frontiera terrestre, il che influisce sulla soluzione del problema dell’organizzazione delle forze armate della costituenda Confederazione Europea.
D’altra parte non è facile far scomparire d’un tratto le profonde divisioni di animi, né gl’interessi d’ogni genere fra le nazioni che dovrebbero entrare a far parte della nuova formazione politica.
Deriva da ciò che esisteranno diffidenze tra questi stati, il che richiederà, almeno in un primo tempo, di concedere ad ogni singolo Stato della Confederazione una forza militare tale da tranquillizzare gli animi sospettosi d’un tentativo di egemonia da parte di uno o più Stati coalizzati. La storia degli Stati Uniti d’America e la sua guerra per l’abolizione della schiavitù (problema codesto che non era soltanto sentimentale, ma coinvolgeva forti interessi economici, e quella della formazione della grande Germania degli Hohenzollern ammoniscono al riguardo.
Il problema dunque è molto complesso, almeno per quanto riguarda i primi anni di vita della Confederazione, fino cioè al momento in cui l’organizzazione politica non acquisterà, come nella Svizzera e negli Stati Uniti d’America, quella coesione che deriva dalla formazione di una coscienza unitaria.
Da tutto ciò deriva che l’organizzazione delle forze armate deve svolgersi su due piani distinti: quello confederale e quello nazionale.
Ma è ovvio che, se non si vuol correre il rischio di una guerra egemonica da parte di uno a più stati della Confederazione, sul complesso delle organizzazioni nazionali e confederali deve presiedere l’autorità dell’organo federale per eccellenza che potrà essere il Congresso. Naturalmente l’azione del Congresso sull’apparecchio militare dei singoli Stati della Confederazione dovrà limitarsi al controllo ed alla precisazione dei limiti entro i quali ciascuno Stato sarà libero di stabilire i propri armamenti.
I quali dovranno avere semplice carattere difensivo: costituire cioè quello che io chiamerei funzione di polizia confederale. Forze, cioè, limitate, nel numero e negli armamenti, per respingere tentativi di aggressione improvvisa (truppe di copertura) e costituire serbatoio di forze nell’eventualità di una formazione e mobilitazione delle forze della Confederazione per la sua propria difesa. Perché, come ho detto sopra, la Confederazione europea avrà frontiere di terra e di mare; e d’altra parte la navigazione aerea ha allargato le prospettive strategiche e tattiche della guerra moderna.
Secondo questi brevi cenni, che non vogliono essere altro che una prima deliberazione del problema che abbiamo preso in esame, io penso che la sua impostazione potrebbe così riassumersi:
a) organizzazioni militari dei singoli stati confederati aventi scopo di sicurezza immediata, e come serbatoio di forze per la eventuale formazione di grandi complessi confederali nel campo delle forze terrestri, marittime ed aeree;
b) organizzazione militare confederale per un eventuale immediato intervento inteso a prevenire conflitti armati tra gli stati confederati e per la difesa della Confederazione contro assalti esterni.
Per quanto riguarda le forze di terra, io penso che ogni singolo stato dovrebbe attenersi ad una organizzazione simile alla Svizzera, cioè a dire al tipo di «nazione armata», limitando l’esercito permanente alle forze che saranno stabilite dal Congresso federale. La caratteristica di questi eserciti, direi così «statali», dovrebbe essere nella specie e potenza degli armamenti; di natura tale cioè da escludere grandi possibilità offensive.
Analogamente per gli armamenti di mare e del cielo. Gli Stati che hanno coste dovrebbero limitare i loro armamenti navali a quanto occorre per un semplice servizio di polizia costiera; e quanto all’aviazione gli stati dovrebbero poter disporre soltanto di apparecchi da caccia e da ricognizione.
Ai singoli Stati dovrebbe essere assegnato anche il compito di impartire istruzione militare ai cittadini, sicché si possa trarre da ciascuno Stato la materia prima uomo, nell’eventualità di una mobilitazione generale ordinata dalla Confederazione, Questa, a mio parere, dovrebbe avere alle sue dipendenze dirette una forza sempre pronta, bene armata, al duplice scopo di intervenire nell’ipotesi che si accenda un conflitto tra due o più Stati della Confederazione istessa e imporre ai medesimi un arbitrato; e per una prima difesa del territorio Confederale contro assalti esterni e quando il Congresso decidesse l’intervento in un conflitto di maggiore raggio, come potrebbe essere un nuovo conflitto mondiale.
Per l’esercito e l’aviazione confederale è preferibile il sistema di reclutamento volontario cioè a dire un esercito ed una aviazione di mestiere. Particolari accorgimenti dovrebbero presiedere alla formazione ed alla dislocazione di queste unità in guisa da impedire che esse possano essere attratte ad intervenire a favore dello Stato dal quale, sia pure con arruolamento volontario, sono state tratte.
Abilità dei comandi dovrebbe essere quella di fare delle forze della Confederazione un tutto organico con una coscienza unitaria.
Per la marina da guerra il problema è più complesso e forse sarebbe consigliabile costituire una flotta con la partecipazione delle forze organizzate dai singoli Stati che si affacciano sul mare, evitando predomini di forze da parte dei singoli, e comunque a queste forze marittime adeguata dislocazione.
Abbiamo detto che le forze militari dei singoli Stati non debbono avere carattere offensivo. Deriva da ciò che gli armamenti potenti dovrebbero essere nelle mani della Confederazione. E ciò è possibile realizzare non soltanto col controllo, da parte del governo centrale della medesima, degli stabilimenti industriali adibiti a produzione di materiali di guerra o suscettibili di rapido adattamento a tale attività; ma concentrando in località adatte i depositi di armi e materiali, sicché non sia possibile ad uno degli Stati confederati di appropriarsene e comunque utilizzarli. Si tratta, in questo campo, di ricorrere all’adozione di espedienti di carattere tecnico.
Da quanto abbiamo esposto appare evidente l’importanza che acquista l’organizzazione dell’Alto Comando e degli Stati Maggiori.
Io credo che in questo campo l’organizzazione militare svizzera possa offrire utili insegnamenti. Certo è che il Capo di Stato Maggiore Generale della Confederazione, quello che deve presiedere all’organizzazione delle Forze Armate Confederali, debba essere nominato dal Congresso e così pure debba essere il Congresso a designare i Comandanti delle altre forze della Confederazione; come pure ugualmente al Congresso debba spettare il dovere d’esercitare una sorveglianza sugli ordinamenti particolari dei vari Stati, ordinamenti dei quali abbiamo fatto cenno.
Questo, in breve, il mio pensiero sulla organizzazione delle Forze Armate in una Confederazione Europea; la quale organizzazione presenta, è vero, difficoltà, ma non certo insuperabili, sopratutto man mano che si farà strada la coscienza unitaria nei popoli che concorreranno a costituire la nuova formazione politica.
Gen. ROBERTO BENCIVENGA”
LA QUINTA LIBERTÀ: EMIGRARE
“Da quando si è cominciato a parlare di libertà democratiche, molte voci si sono levate in favore della quinta libertà : quella di emigrare.
L’uomo della strada, il reduce, il disoccupato, il cittadino qualunque che ha lottato e sofferto ed è uscito dalla bufera malconcio, spinto o dal bisogno materiale o dal desiderio di evadere da una realtà opprimente per salvare almeno lo spirito, chiede gli sia concesso di lasciare la terra in cui è nato e di emigrare in qualsiasi paese dove si possa lavorare in pace guadagnando il sufficiente per vivere senza preoccupazioni.
I più non sanno dove potrebbero andare e in che modo, però si aggrappano a questa magica parola — emigrare — come ad un’ancora di salvezza, e nell’emigrazione vedono l’unico modo di risolvere la loro situazione insostenibile.
Tutti i giornali hanno detto qualcosa su questo argomento, centinaia di articoli sono stati scritti sull’emigrazione, e sono sorti persino dei periodici che si occupano esclusivamente di questo problema, però l’uomo della strada, l’individuo che desidera emigrare e va a caccia di notizie, dopo aver letto accuratamente tutto ciò che i giornali dicevano sotto titoli vistosi, è rimasto immancabilmente nelle condizioni iniziali e cioè con le idee confuse e senza apprendere nulla di concreto.
Egli ha saputo che il Brasile è immenso e che «chiederà» milioni di lavoratori all’Europa, che l’Inghilterra «ha bisogno» dei minatori italiani, che in Australia «si prevede» la richiesta di migliaia di famiglie di agricoltori, che il Canadà e il Sud Africa «hanno allo studio» il progetto di aprire l’immigrazione all’Europa. Gli fu detto anche che per alcuni paesi del Sud America l’emigrazione era libera; allora cercò di ottenere il passaporto ma il più delle volte dopo file ed anticamere gli dissero che non c’erano disposizioni; qualcuno più fortunato ottenne il passaporto, ma la legazione del paese interessato rifiutò di apporre il visto, altri invece, avuto passaporto e visto, seppero dalle agenzie di viaggi che per andare nel Sud America occorrevano 200 mila lire per via mare e più del doppio per via aerea.
In definitiva quelli che sono riusciti ad emigrare sono una minima percentuale, e sono riusciti o perché avevano amici o parenti all’estero, o perché ben forniti di denaro.
Coloro che hanno tentato tutte le strade senza ottenere nulla in gran parte si rassegnano e aspettano momenti più propizi imprecando contro il governo che non si interessa della cosa, mentre i più decisi e ì più pressati dal bisogno cercato di passare i confini clandestinamente, accecati da un miraggio che urta spesso con la dura realtà del carcere e delle privazioni.
Tutti hanno letto nei giornali degli imbarchi clandestini a Palermo per le Americhe, del periodico rimpatrio di italiani arrestati mentre cercavano di entrare negli Stati Uniti, dei velieri che partendo da Siracusa sbarcano sulle coste dell’Africa e della Palestina dei disgraziati destinati per la maggior parte a cadere nelle mani della polizia, dei frequenti arresti da parte dei doganieri francesi di operai italiani che cercavano di attraversare il confine alpino è degli incidenti spesso tragici che qualche volta pongono fine a questi tentativi: è di questi giorni la notizia della morte di una donna di venticinque anni e del figlio di tre, trovati assiderati da alcuni alpinisti nel colle della Roue a poca distanza dal confine francese.
Tutti questi fatti mostrano chiaramente quanto urgente sia la necessità di risolvere questo problema e come siano insufficienti le misure prese fattualmente dagli organi ufficiali preposti alla emigrazione.
Partendo da questi dati di fatto e da queste deduzioni, ci proponiamo con questo scritto di chiarire i due punti basilari del problema e cioè:
1) Quali sono le reali possibilità di assorbimento della emigrazione italiana da parte degli altri stati.
2) Come funziona attualmente il meccanismo della emigrazione e come dovrebbe funzionare.
I. Dove emigrare?
I fattori che influiscono sulla emigrazione e che oggi rendono a noi italiani inaccessibili i due terzi del globo sono due: fattore politico e fattore economico. Sulla base di questi procediamo per eliminazione.
Stati Uniti d’ America: Con la legge del 1924 hanno sbarrata la porta agli stranieri introducendo la quota per cui ogni anno solo un determinato numero di persone ricevono il visto di ingresso nella Confederazione. Questa legge rientrata in vigore subito dopo la guerra, trova la sua giustificazione nella economia del paese che, già scossa dalle inevitabili crisi del dopoguerra, subirebbe un peggioramento se fosse lasciata libera la immigrazione, ed è quindi naturale che il governo federale prenda le sue misure per evitarlo. In modo analogo si comporterebbe il governo italiano se folte masse di asiatici attirati dal nostro superiore livello di vita, cercassero di entrare nel nostro paese offrendo una mano d’opera di basso costo in concorrenza con quella nazionale.
Unione Sovietica: La sua situazione è molto diversa da quella degli Stati Uniti, infatti, anche la Russia è uscita vittoriosa dalla guerra, ma ha avuto enormi distruzioni nel territorio e fortissime perdite negli uomini; il suo popolo è stanco, la smobilitazione procede lentamente e il paese attraversa una crisi che una forte immigrazione straniera potrebbe far cessare. Ma qui entra in gioco il fattore politico e le frontiere restano sbarrate; è infatti evidente che il governo sovietico non veda di buon occhio l’ingresso in Russia di stranieri data la struttura sociale del paese, fondamentalmente diversa da quella di tutti gli altri Stati.
Africa: Con la perdita delle nostre Colonie tutto il continente è rimasto sotto la influenza diretta o indiretta di tre soli paesi: Inghilterra, Francia e Belgio.
La concezione coloniale di questi paesi è molto diversa dalla nostra e si basa sullo sfruttamento dei territori soggetti e non sul popolamento e sulla colonizzazione, e per questo sono sufficienti pochi bianchi per dirigere la mano d’opera indigena; inoltre l’Africa è ormai entrata nel gioco politico-militare internazionale e gli unici lavori che vi si faranno nei prossimi anni saranno probabilmente aeroporti e grandi vie di comunicazione, come la strada Cairo-Città del Capo che è in corso di esecuzione.
Questo’ significa che i molti italiani «malati d’Africa» non potranno rimettervi piede fin quando non sarà chiarita la situazione politica e non sarà stato deciso un nuovo ordinamento internazionale dei territori coloniali, e cioè per molti anni ancora.
Asia: Questo continente è in continua agitazione ed attraversa oggi una profonda crisi, per fattori interni ed esterni, senza riuscire a trovare una posizione di equilibrio. Dagli Stretti, alla Palestina, alla Persia, all’India, all’Indonesia, alla Cina sono in gioco interessi formidabili; posizioni strategiche, materie prime, contrasti religiosi e sociali sono tutti fattori che per molti decenni ancora toglieranno la pace a quel continente.
Questo stato di cose e il sovrapopolamento di quelle regioni impediscono per sempre che l’Asia possa contribuire in qualche modo all’assorbimento della nostra emigrazione.
Dominions Britannici: Con questo nome comprendiamo Australia, Canadà, Sud-Africa, Nuova Zelanda; tutte regioni immense, ricche e poco popolate, verso le quali molti si illudono si possano dirigere vaste correnti emigratorie.
Noi non siamo di questo parere: anzitutto perché tutti questi paesi danno la preferenza alla emigrazione anglosassone; poi perché in ognuno di essi si è formato un equilibrio stabile tra produzione e consumo, salari e prezzi, equilibrio che sarebbe turbato se fosse aperta la immigrazione ; infine perché questi paesi hanno cominciato durante la guerra a crearsi una attrezzatura industriale che prima non esisteva, ed ora non hanno bisogno di una immigrazione di massa, ma di una immigrazione di qualità, cioè se chiederanno dei lavoratori italiani, vorranno solo pochi elementi e specializzati.
America Centrale e Meridionale: È verso questi paesi che si dirigono le maggiori speranze nei riguardi dell’assorbimento della emigrazione italiana. Spesso però queste speranze sono superiori alla realtà dei fatti, e ciò si deve sopratutto a quello che si è scritto su questi paesi: in particolare sul Brasile e sull’Argentina. Si è detto e ripetuto che questi due paesi possono dare pane e lavoro a milioni di italiani, e questo è vero, però non si è detto se questo convenga o meno ai paesi interessati.
Sia il Brasile che l’Argentina possono se vogliono aumentare enormemente la loro produzione nel settore agricolo e quindi dar lavoro a milioni di individui, ma non lo fanno perché a questo si oppongono le leggi insopprimibili dei costi di produzione. Infatti su questi costi graverebbero in modo notevolissimo le spese di trasporto rendendo insignificante l’utile e impossibile l’esportazione; d’altra parte l’aumento dell’offerta farebbe diminuire i prezzi creando uno stato di cose analogo a quello che portò alla crisi del 1930 in cui i produttori per non abbassare i prezzi, e se lo avessero fatto sarebbero stati rovinati completamente, buttarono il caffè in mare e usarono il grano come combustibile per le locomotive.
In conseguenza, se vi sarà una immigrazione per il settore agricolo, e le notizie più recenti lo fanno pensare, sarà un fenomeno graduale e lento e non un movimento immediato di vaste proporzioni.
Un fatto nuovo però si sta delineando, ed è questo: durante la guerra tutti questi stati hanno venduto grandi quantità di viveri alle Nazioni Unite, senza poter comprare nulla. Hanno quindi accumulata molta valuta pregiata che ora è prevedibile spenderanno per creare un’attrezzatura industriale che li renda indipendenti. Buone possibilità di lavoro vi saranno quindi nel campo industriale, però anche qui il fenomeno sarà graduale e saranno sempre richiesti elementi selezionati; in questo settore si tratterà quindi solo di qualche diecina di migliaia di specializzati.
Europa: In ultimo la nostra vecchia disprezzata Europa, è quella che allo stato attuale delle cose offre maggiori possibilità di assorbimento dei nostri lavoratori. Sono sopratutto Svizzera, Belgio, Francia e forse anche Inghilterra che hanno bisogno dei nostri emigranti. In Svizzera e nel Belgio già lavorano molte diecine di migliaia di italiani e molti altri vi andranno fra breve, con la Francia si stanno per concludere le trattative, con l’Inghilterra è presumibile non tarderanno ad iniziarsi. Con l’Europa Orientale per il momento non vi è alcuna possibilità reale, e da quel lato tutto dipenderà dalla soluzione di più vasti problemi internazionali.
Tirando le somme possiamo concludere :
1) Gli unici paesi dove poter dirigere per il momento la nostra emigrazione sono quattro paesi europei e i grandi Stati dell’America Latina.
2) Questi paesi hanno bisogno sopratutto di una immigrazione di qualità e non di una immigrazione di massa.
3) Possono aspirare ad emigrare solo coloro che hanno una specializzazione, mentre l’operaio non qualificato, l’impiegato, l’insegnante, è inutile che faccia anticamere negli uffici di emigrazione e riempia moduli e questionari: per lui non vi è nessuna possibilità, si rassegni e pensi che in fondo il paese che ha più bisogno di lavoro è l’Italia.
II. Come emigrare.
L’emigrazione è regolata in Italia dal Testo Unico delle leggi sulla Emigrazione, approvato con R. Decreto 13 novembre 1919, il quale Testo Unico come norma basilare stabilisce che della emigrazione non possono occuparsi i privati, ma solo gli organi ufficiali ad essa preposti ed alcuni enti religiosi appositamente autorizzati.
Le trattative con i paesi interessati vengono iniziate per via diplomatica e quindi perfezionate da speciali commissioni che troppo spesso lavorano mesi e mesi senza concludere assolutamente nulla. Quando l’accordo è raggiunto, il Ministero del Lavoro si occupa del reclutamento e della selezione fisica e professionale dei lavoratori per mezzo dei suoi Uffici Provinciali del Lavoro, i quali provvedono pure a tutte le pratiche per il passaporto (in genere collettivo) e al viaggio fino al confine.
Gli unici accordi stipulati e messi in atto sono quello con la Svizzera e quello con il Belgio.
Il primo è molto favorevole per i nostri lavoratori, grazie sopratutto alla situazione valutaria di quel paese. Non così l’accordo con il Belgio, accordo rappresentato da un contratto collettivo di lavoro per 50.000 minatori, il quale malgrado le apparenze è nettamente sfavorevole, tanto che molti dei minatori sono rientrati in Italia prima della scadenza del contratto.
Gli inconvenienti sono dovuti sopratutto alla imprecisione di alcune clausole del contratto, alla malafede degli impresari belgi che sfruttano la situazione, e al disinteressamento delle nostre autorità diplomatiche che non sanno tutelare gli interessi dei nostri lavoratori all’estero.
Oltre questi accordi non ne sono stati stipulati altri, essendo sempre naufragati quelli tentati con le repubbliche Sud-americane, malgrado le varie commissioni inviate sul posto. Ultima disillusione è stata la missione del Conte Sforza che, dopo un viaggio durato vari mesi attraverso tutti gli Stati dell’America Latina è rientrato in Italia portando tante parole di comprensione e di simpatia, ma non un solo contratto di lavoro per un disoccupato italiano.
Questi risultati sono dovuti oltre che alle difficoltà inerenti ai costi dei trasporti, anche e sopratutto ai troppi cavilli di carattere sindacale sollevati dai nostri rappresentanti: in altri termini per cercare di tutelare troppo i nostri lavoratori si preferisce farli rimanere disoccupati. Così deve essere, altrimenti non si spiegherebbe perché vi siano in Italia dei Brasiliani e degli Argentini che, alla chetichella, ingaggiano lavoratori munendoli di contratto di lavoro e di passaporto e anticipando loro le spese di viaggio.
Tutto ciò è illegale, ma fino ad un certo punto, infatti la legge vieta a privati di occuparsi di emigrazione, e sta bene, però è in vigore anche la disposizione per cui se un individuo è in possesso di contratto di lavoro, ha diritto al passaporto. Allora quei signori Argentini e Brasiliani rilasciano all’interessato un contratto, dopo di che il lavoratore rientra nella disposizione suddetta.
Approfittando di questa situazione monopolistica dell’emigrazione, nei grandi centri sono sorte numerose organizzazioni, camuffate sotto vari aspetti, che si occupano di trovare il contratto di lavoro e di svolgere tutte le pratiche per il passaporto. È questo il settore della emigrazione semi-clandestina che dovendo lavorare sotto rischio si fa pagare profumatamente: è la borsa nera dell’emigrazione.
Tutto ciò è a conoscenza delle autorità che tollerano questo stato di cose.
Ma allora, diciamo noi, perché non dare via libera all’iniziativa privata? In tal modo si potrebbe controllarne l’operato e sorgerebbero certamente delle organizzazioni serie, capaci di sostituirsi vantaggiosamente agli arrugginiti organi statali e di collocare subito un maggior numero di lavoratori all’estero.
A tutelare gli interessi dei nostri lavoratori fuori dai confini dovrebbero pensare le nostre autorità consolari sul cui aiuto oggi l’italiano all’estero non può contare (è il parere concorde di molti rimpatriati da paesi diversi).
Concludendo :
1) Secondo le disposizioni attuali, chi aspira ad emigrare deve rivolgersi agli Uffici Provinciali del Lavoro, unici uffici autorizzati al reclutamento di lavoratori per l’estero.
2) Esistono però nelle grandi città numerose organizzazioni private a carattere semi-clandestino che si occupano dietro pagamento di svolgere tutte le pratiche riguardanti l’emigrazione.
3) Dai dati statistici risulta che il numero degli espatri organizzati dagli Uffici competenti, è molto inferiore al numero degli espatri isolati la cui reale entità d’altra parte sfugge ad ogni controllo; risulta quindi chiaramente l’insufficienza degli organi ufficiali.
In conseguenza l’unico modo di risolvere il problema sarebbe a nostro parere una revisione della vecchia legge sulla emigrazione che lasciasse mano libera all’iniziativa privata, si intende sotto opportuno controllo.
In tutti i campi la libera iniziativa privata si è dimostrata la più razionale soluzione e la più costruttiva: anche qui siamo sicuri darebbe presto i suoi frutti.
Purtroppo queste idee sono ben lontane da quelle che oggi regolano questo settore. Noi indichiamo una strada, sta ad altri studiare a fondo il problema e risolverlo senza preconcetti conservatori e sopratutto senza perdere tempo.
Un altro è lo scopo di questo scritto, ed è quello di togliere delle inutili illusioni a tanti italiani che sperano nell’emigrazione come in un toccasana di tutti i nostri mali organici; l’emigrazione non prenderà mai più lo sviluppo che aveva trent’anni fa, e la soluzione di tutti i nostri problemi sarà all’interno e non all’estero. Dobbiamo lasciare da parte queste illusioni e contare solo su noi stessi: se noi vorremo ci sarà in Italia lavoro per tutti.
MARIO SPINELLI”
IL DIRITTO DI VETO
“Grigoire Gafencu, ex ministro degli Esteri rumeno, discute il veto, che considera un pericolo per l’organizzazione formata dalle Nazioni Unite per la pace mondiale
L’offensiva sferrata dalle piccole potenze contro il diritto di veto avrà dunque la possibilità d’ottenere un successo? Per ora non v’è nulla di più incerto. D’altra parte, se la politica è l’arte del «possibile» attualmente sembra ancora impossibile riuscire a far crollare certe volontà ferreamente abbarbicate al diritto di veto. Pure, se l’O.N.U. non vuol finire nelle sabbie mobili in cui è sprofondata la Società delle Nazioni, le decisioni prese a maggioranza di voti debbono essere accettate da tutti. In questo concetto, ed in esso soltanto, sta la chiave del problema della pace.
I negoziati fra le Nazioni più o meno unite hanno dimostrato quanto sia difficile ottenere l’unanimità; essi hanno egualmente dimostrato come in forza dell’opposizione di una sola potenza anche i più lodevoli sforzi possano divenire del tutto sterili. In un mondo divenuto troppo ristretto, ossessionato dalla perpetua minaccia d’una distruzione totale, la pace non può più essere stabilita in grazia a un equilibrio fra forze in antagonismo e volontà divergenti. E non può neppure basarsi su garanzie fragili ed effimere offerte da uni «Società» come quella che a Ginevra aveva riunito delle Nazioni propriamente sovrane. Questa nuova pace necessita di una «organizzazione» in grado di garantire effettivamente i diritti e la sicurezza di ogni Stato e conseguentemente suscettibile di decretare norme generali, tale da costituire realmente un’autorità suprema. Una tale organizzazione deve quindi disporre in partenza di un sistema che permetta il formarsi di una comune volontà internazionale.
È in tal modo che, sul piano universale, si giustifica la regola della maggioranza. E se tale regola non viene applicata non può esservi in seno all’O.N.U. né decisione né volontà. Certo, il principio che informa questa regola è rivoluzionario; esso limita la sovranità nazionale e trasforma i rapporti tra gli Stati. Lo si può approvare o disapprovare, può far temere nuovi pericoli e presagire nuove difficoltà. Ma non si può negare l’evidenza di una cosa: nel mondo odierno, così com’è congegnato, la regola della maggioranza è necessaria per consacrare l’indispensabile unione fra gli Stati, stabilire l’ordine e realizzare la pace.
Può sembrare strano e paradossale che siano proprio le potenze occidentali a propugnare questo principio rivoluzionario laddove l’Unione Sovietica intende difendere con il suo diritto di veto l’idea della sovranità nazionale nel suo significato più assoluto e conservatore. È infatti per conservare alla sovranità nazionale la sua completa intangibilità che la Russia pretende opporre alla «tirannia delle maggioranze» la sua volontà di grande potenza indipendente. Disponendo, nel consesso delle Nazioni, di un minor numero di voti di quelli a disposizione del blocco anglo-sassone, la Russia spera eludere così le velleità di quello che essa definisce «l’Imperialismo occidentale».
Molotov, riservandosi di usare del suo diritto di veto; ha dichiarato prima di lasciare Parigi che l’U.R.S.S. non si lascerà influenzare dalla regola della maggioranza (maggioranza che la delegazione sovietica aveva tuttavia contribuito ad elevare a due terzi).
Byrnes ha replicato sostenendo che il Governo degli Stati Uniti appoggerà senz’altro le raccomandazioni della Conferenza, prese appunto in base alla maggioranza dei due terzi, anche se queste non corrispondono alle vedute del Paese.
Le cose sono dunque a questo punto. Se non cambiano — e se l’U.R.S.S. si mantiene all’opposizione circa le raccomandazioni di 21 Nazioni — i magri risultati della Conferenza di Parigi, saranno nulli e come mai esistiti. Ma quel ch’è peggio il diritto di veto avrà contribuito a mantenere nel mondo uno stato che non è certo quello di pace. Sarebbe errato concludere, da quanto sopra, che la Russia intenda sottrarsi all’attuale tendenza che ravvicina gli Stati e li lega gli uni agli altri. Più di qualsiasi altra potenza, la Russia possiede il senso dell’universale e il gusto dell’assoluto. Ma l’unità alla quale essa aspira e che si sforza di realizzare, corrisponde solo agli interessi della sua politica e ai principi della sua ideologia. Non è certo mediante manifestazioni esteriori, ma in virtù d’un lavorio nell’interno di ogni paese che essa spera di poter un giorno condurre i popoli alla sottomissione per farli poi beneficiare d’una disciplina comune. Evidentemente, questa azione unificatrice si accorda solo in apparenza con la sovranità nazionale dei piccoli stati e (per poco che la Russia si serva dei mezzi di persuasione in uso con i regimi di occupazione), crea dei «satelliti» la cui sovranità è intatta dal punto di vista esterno, mentre all’interno è completamente vuota di sostanza e priva di significato. È quindi innegabile che simili sistemi, tendenti a creare delle collettività «unanimi» possano fare a meno della regola della maggioranza. Ecco perché, se si sviscera il problema del veto che oggi pone l’Oriente contro l’Occidente, si perviene a queste diverse concezioni dell’organizzazione unitaria del mondo: la concezione sovietica, che persegue una unificazione di regimi e di ideologie, e la concezione occidentale che mira a una unione puramente politica, basata su principi federativi. Il diritto di veto diverrebbe così nelle mani del’URSS un’arma per tenere in sospeso lo sviluppo dell’O.N.U. verso la concezione occidentale, proprio quando il mondo si troverebbe ad essere convogliato su un cammino diverso.
È difficile oggi prevedere come potrà risolversi il conflitto fra due tendenze in così netto antagonismo. È certo però che sino a quando perdurerà un simile stato di cose non sarà affatto possibile stabilire una vera pace.
GRIGOIRE GAFENCU”
- Guglielmo Giannini (1891 – 1960) scrittore, uomo politico, giornalista drammaturgo e regista, il 27 dicembre 1944 fondò un settimanale satirico e politico, L’Uomo qualunque, che superò la tiratura di 800 mila copie nel 1945 e l’anno dopo, in seguito al successo nell’opinione pubblica, soprattutto nel Sud d’Italia portò alla creazione di un partito politico, il Fronte dell’uomo qualunque, che ebbe successo sia alle elezioni per l’Assemblea costituente sia alle amministrative in varie località del Centro-Sud. In seguito, l’incapacità di prendere posizioni definite portò alla sua scomparsa dalla scena politica italiana, arricchendo però il nostro dizionario con le parole “qualunquista” e “qualunquismo”, derivate proprio da questo movimento. ↩︎