Le ardesie liguri o lavagne (1934)

Da Le Vie d’Italia, Anno XL, N. 2, febbraio 1934.
Di Raffaele Ferretti.

” ■ Chi ha visto Genova ha dovuto, anche senza volerlo, osservare a più riprese e da molti punti, i tetti delle case, notando che essi — quasi senza eccezione — risultano di sottili lastre di pietra, spioventi a linee regolari le une sulle altre ed aventi un colore plumbeo chiaro. Le guide, fanno sapere a quanti le interrogano, che quelle sono lastre di una speciale roccia chiamata «Ardesia» o «Lavagna», assai diffusa nei monti di una determinata zona della Liguria Orientale.
■ Questa, dei tetti di Genova, è una caratteristica che non può sfuggire ad alcuno, nemmeno al visitatore più sbadato. Ad uno straniero anzi, può apparir degna e meritevole d’esser segnata.

“La graziosa e linda borgata di Cicagna, capoluogo della Fontanabuona, con lo stabilimento per la lavorazione delle ardesie. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

■ Così, per esempio, l’ardesia di Genova non è sfuggita al poeta francese Paul Valéry che ha voluto farne parola tra le sue note «Au hasard et au crayon», apparse per la prima volta qualche anno fa su «La nouvelle Revue Frangaise»: «Città tutta visibile e presente a se stessa; continuamente familiare col suo mare, la sua rocca, la sua ardesia…» E più oltre: «È una miniera d’ardesia, Genova».
■ La stessa particolarità si deve anche notare, per un lungo tratto, nelle ridenti borgate della Riviera, specie di Levante, essendo infatti l’ardesia un prodotto dei monti che stanno a ridosso del litorale posto immediatamente ai due lati del promontorio di Portofino, e cioè: del monte S. Giacomo, sulla sinistra e presso la foce dell’Entella, fiume che sbocca in mare tra Chiàvari e Lavagna; di quelli tutti che formano l’alta valle di Fontanabuona, entro cui scorre, col nome di Lavagna (Laagna), il maggior tronco di detto fiume; degli altri, in ultimo, che formano, a ponente di Portofino, la valle di Recco e l’alta valle del Bisagno. Tracce d’ardesia appaiono pure qua e là in alcuni altri luoghi contigui ai sovraccennati, comprese le alte pendici di quei monti che mandano, per mezzo dell’Aveto, le loro acque in Trèbbia.

“Alcune cave della Fontanabuona (Monte Balàno). (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

La “pietra dolce,, e la sua giacitura.

■ Se si chiede agli abitanti dei luoghi indicati come chiamino essi questa loro speciale roccia, tutti indistintamente rispondono: «Schêuggiò dôçe» (pietra dolce). Aggiungono inoltre che «ciappée» son dette le relative cave; «ciappe» le lastre per tetti; «ciappajeù » gli scavatori.
■ Nessuna di queste denominazioni però — è forse inutile dirlo — ha avuto l’onore d’essere accolta nel «tosco idioma gentile» sebbene, delle ultime, la parola «ciappa», nel preciso significato di scheggione roccioso, non vi dovesse, in antico, suonare infrequente, dal momento che la usa il divino Poeta (Potevamo su montar di chiappa in chiappa – Dante, Inf. XXIV – 33).

“Altre cave della Fontanabuona (Frazione Acqua) con stazione di teleferaggio.
(fot. E. Foppiano, Monteleone)”

■ Così a quello di roccia dolce fu invece preferito il nome di pietra di lavagna, dalla borgata nella quale, appunto per la produzione un tempo abbondante delle vicine cave del monte San Giacomo, rimase a lungo e quasi esclusivamente concentrato il commercio di tale roccia; e questa denominazione infatti, più concisamente si impose nelle scuole con la nota lavagna. Qui tuttavia ne nacque una accezione particolare; la quale però, anziché escludere, conferma la possibilità di una pura e semplice designazione della roccia. Vale non di meno, anche per essa, nell’uso più frequente, il nome di ardesia, essendo stata identificata con quella stessa che, in maggior abbondanza, si scava nelle Ardenne e che dalle Ardenne prende nome (Ardenne, Fumay e Loire, Angers). A giustificare però, direi quasi, una tale adozione sta nel linguaggio locale il nome di fiandrina, che si suol dare ad una lastra ardesiaca di determinate misure. Detto appellativo ci richiama evidentemente al nome di Fiandra, dal quale, con ogni probabilità, deriva.
■ L’ardesia ligure si presenta a strati di vario spessore (i maggiori misurano da 14 a 16 metri), incassati da altri di rocce diverse (arenarie, scisti argillosi-galestrini e calcari), le quali tutte, nella parlata locale, sono comprese sotto l’unico termine di «agrô» (acre) per evidente contrapposto alla denominazione di «scheùggiò dôçe» propria dell’ardesia.
■ Strati dunque, di potenza o spessezza diversa ma anche di diversa giacitura, poiché tutti si dispongono in vario modo, sia rispetto al piano orizzontale, sia anche tra loro. Gli strati del Monte S. Giacomo (i più rinomati d’un tempo ed oggi quasi completamente esauriti) si dispongono, in generale, con direzione Nord-Sud e pendono ora verso levante ed ora verso ponente; mentre quelli della Fontanabuona mantengono, per la direzione, una linea S.-N-O. corrispondente al corso superiore della valle stessa, immergendosi nei fianchi vallivi in senso anticlinale, in modo cioè, da contrastare alla rispettiva pendenza del suolo. Nella valle di Recco, invece, gli strati ardesiaci si dispongono in direzione Nord-Sud con pendenza verso ponente. Variamente distribuiti e dislocati, ma meno importanti, sono quelli della Val Bisagno.

“Stazione di teleferaggio delle cave della ditta Porcella. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

■ Siccome tutti questi gruppi non sono fra loro molto distanti, viene spontaneo di pensarli originariamente uniti in un solo, con stratificazioni aventi un piano di sviluppo ben più vicino all’orizzontale di quello attuale. Trattasi, con ogni probabilità, di un’unica zona ardesiaca venutasi a frazionare in seguito all’azione più o meno violenta dell’assestamento tellurico. Tale l’ipotesi che specialmente si formula per i tre ultimi gruppi menzionati, considerando le rispettive valli come anticlinali, prodotte cioè, da spaccature entro corrugamenti positivi. Possono di ciò dare una idea le frequenti soluzioni di continuità, che ogni singolo strato presenta (dette rôtte dagli scavatori; diaclasi, vigetti, faglie o salti dai geologi), accompagnate, a seconda dei casi, da spostamenti di roccia più o meno rilevanti evidentemente dovuti a particolari turbamenti tellurici.
■ Numerosissime in ogni singolo strato sono le fratture senza spostamento (lasci per gli scavatori, «leptoclasi» per i geologi), nelle quali pure occorre vedere l’azione di altri fenomeni sismici, quali potrebbero essere, ad esempio, i fenomeni locali di pressione o di contrazione.
■ Osservando nella Fontanabuona i due contrafforti bagnati dal torrente Màlvaro, si scorge un primo strato ardesiaco, il maggiore di tutti, che, a partire dalle pendici di Sud-Est del contrafforte di sinistra, risale con eguale andamento, toccato il letto del torrente, quelle del contrafforte di destra. La sua traccia si delinea sull’estreme affiancate pendici di detti contrafforti come un V col vertice nel torrente e le estremità in alto. Nel contrafforte di destra, un altro strato, che pende leggermente verso occidente, si comporta in modo affatto contrario al primo, cui si sovrappone ad angolo acuto. Questo strato superiore non è che un frammento del primo, un lembo, cioè, così disposto in seguito a rovesciamento con frattura. E, a dimostrazione di ciò, i cavatori fanno osservare che identici sono gli strati di «agrô» incassanti, con la differenza che quello che in uno serve da «tett », nell’altro serve da «letto» e viceversa. Mentre, inoltre, nel primo strato la parte bassa è meno fine e più ricca di ferro, tanto da non poter dare lastre per determinati usi (isolanti), nel secondo, invece, si verifica il contrario.

“All’imbocco di una cava. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

La genesi dell’ardesia e i suoi caratteri litologici.

■ L’ardesia è, secondo le definizioni della moderna geologia, una roccia di natura clastica allotigena, formatasi cioè, come le arenarie, per via meccanica in seguito alla sedimentazione acquea di materiale proveniente dalla demolizione di rilievi primitivi. Poiché l’intima sua struttura consta di particelle tenuissime, disposte secondo piani paralleli, ne consegue che il materiale da cui trae origine, doveva essere rappresentato da un limo finissimo, depositatosi in diverse riprese e molto lentamente nel seno di acque più o meno profonde, giungendo, con ogni probabilità, da monti che occupavano un tempo l’attuale vicina zona marittima. Desso poi venne trasformandosi, a quanto si ritiene, in roccia di natura scistosa per un processo di cementazione dovuto alla natura chimica di determinati elementi presenti nelle acque e costituenti il limo stesso, nonché per la laminazione derivante dalla potente pressione esercitata durante milioni di anni dalla pila dei terreni sovrastanti.
■ Vale quindi, anche per l’ardesia, l’attributo di metamorfica come quella appunto, che deve l’attuale sua consistenza ad uno dei tanti fenomeni di trasformazione od alterazione della Materia, che si designano col nome di Metamorfismo e che il Cantor de I Sepolcri vede regnare sovrano su tutte le cose:

E una forza operosa le affatica
Di moto in moto…..
….. e le reliquie
De la terra e del ciel traveste il Tempo.

■ Quanto alla classificazione cronologica della roccia, essa si può attribuire all’Era terziaria, e al periodo eocenico superiore. Occorre per altro notare che, nella serie delle suddivisioni eoceniche, la meno cronologicamente sicura è proprio quella che appunto (sotto il nome di piano Liguriano) comprende l’ardesia e tutte le rimanenti rocce della zona ardesiaca ligure. Si tratta infatti, di una speciale formazione geologica poverissima di fossili, i quali soli valgono a poterne ben determinare l’età relativa.
■ Caratteristica di questa roccia è la perfetta fissilità in lastre sottilissime e piane, nel senso, cioè, della originaria orizzontalità degli strati. Una sfaldatura in senso contrario a tale direzione non è affatto possibile.
■ La tinta naturale dell’ardesia è di un bel colore nerastro che sa, in qualche modo, di cupe onde oceaniche. Esposta però agli agenti atmosferici, diventa a poco a poco biancastra.
■ Di struttura finissima, è anche abbastanza tenera, senza peraltro mancare di una grande consistenza e compattezza cosicché, per quanto sottile, ogni sua lastra non manca mai di essere perfettamente impermeabile, ed atta a resistere molto a lungo alle intemperie. Poco frequenti le infiltrazioni lineari di spato calcare, né tali da interromperne sempre la naturale sfaldabilità. Si può quindi senz’altro affermare che cotesta roccia ligure non ha punto da temere il confronto con tutte quelle altre ardesie che si scavano qua e là in Italia ed all’Estero (Francia, Inghilterra e Portogallo). L’ardesia francese, d’età più antica, è anche di natura alquanto diversa, con prevalenza di clorite e talco.

“Verso il banco di scavo nell’interno del monte. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

Come e dove s’impiega l’ardesia.

■ Vediamo ora quali siano gli usi speciali a cui l’ardesia fu destinata.
■ Dopo le sottilissime lastre utilizzate per ricoprire tetti (abbaini o fiandrine), ecco ancor sempre in Genova e Riviera adoperata la nostra pietra in numerosissimi edifici antichi e moderni, per farne portali, scale, pavimenti, davanzali, poggioli e terrazze, lastre e stipiti.
■ Ed ecco ancor le stesse lastre da tetti usate per rivestire intere facciate di case troppo esposte all’umidità. Tra gli splendenti marmi dei Dogi nereggia dappertutto, umile e dimessa, ma non per questo spregevole, la ligure pietra di Lavagna. Ché anzi, in gara con gli stessi marmi od altre nobili pietre, reca di frequente in bassorilievo squisite figurazioni sacre e profane. «Un numero grande di architravi con teste di imperatori romani e portali ammirevoli, con fregi e ricami, con sigle ed epigrafi fanno ancor bella mostra a Portofino, a S. Margherita, a Rapallo, a Chiàvari, a Lavagna ed a Sestri, alcuni dei quali, del secolo XV e XVI, furono dichiarati monumenti nazionali» (A. FERRETTO, Il Distretto di Chiàvari Preromano, Romano e Medievale. parte Ia – 1928, Chiavari.)
■ Non mancarono inoltre pittori che si valsero, quale tavola per i loro quadri, di lastre ardesiache.
■ L’impiego, peraltro, che la rese notissima, e trasformò il nome della sua terra d’origine in una speciale denominazione, fu quello che ebbe ed ha nella scuola. Quivi il termine lavagna sta ormai più soltanto ad indicare l’ampio e nero quadro per disegno e scrittura, anche se d’altro materiale; quadro del quale ormai più nessuna scuola può fare a meno.
■ Con le grandi lavagne di svariate dimensioni ecco pure le lavagnette portatili, piccole lastre, che in cornice di legno fanno parte, specialmente all’Estero, del corredo scolastico di molti alunni.
■ Seguono quindi i lastroni da biliardo, la richiesta dei quali è ogni anno fortissima.

“Nell’interno di una cava: il cantiere di scavo con un’altra galleria di derivazione.
(fot. E. Foppiano, Monteleone)”

■ Grande anche l’impiego dell’ardesia nell’industria elettrica, potendo essa fornire materiale isolante d’ottima qualità.
■ Ultimo, in ordine di tempo ma non d’importanza, l’impiego dell’ardesia smaltata per rivestimenti interni e per mobili. Grazie ad un geniale trovato, si è di recente potuto dare alle lastre ardesiache superficie che riproducono quelle del marmo nella maniera più soddisfacente e con qualsiasi gradazione, venatura e fioritura di tinte.
■ Come prova il largo favore già incontrato in commercio, questo prodotto è destinato ad avere il più lusinghiero successo perché, oltre a conservare tutte le qualità dell’ardesia, è assolutamente impermeabile, resiste alla macchia (anche di grasso e di olio), non cavilla, è lavabile anche con soluzioni acide ed alcaline ed infine resiste anche all’azione dell’acido muriatico puro. Altro particolare: possibilità di lastre sottilissime a condizioni assai vantaggiose.
■ Tra le pietre utili, adunque, l’ardesia non occupa certo uno degli ultimi posti.

Da Plinio al Galilei.

■ V’è pertanto da domandarsi quando se ne sia iniziata la ricerca e lo sfruttamento.
■ Alcuni storiografi locali, compulsando testi e documenti, pur non avendo modo di appellarsi a Plinio (certe parole del lib. 36 della sua Naturalis Historia mal convengono all’ardesia), credettero nondimeno di poter scoprire, anche per tale remota epoca, qualche cenno intorno all’industria ardesiaca nel nome di «Lapicini» dato dai Romani ad una tribù locale, nonché in quello di Tigullio ch’ebbe e conserva il ben noto golfo di Rapallo. Derivato da lapis (pietra) il primo, e da tegmen (copertura) il secondo, si volle stabilire per entrambi uno stretto rapporto con l’ardesia. Le prime e sicure notizie intorno all’ardesia, sono tuttavia quelle che forniscono alcuni documenti medioevali venuti alla luce in questi ultimi anni. Il più antico reca la data del 1° dicembre 1176, e tratta di certi privilegi accordati dai Consoli di Savona agli uomini di Recco «perché avevano concorso con chiappe a coprire la chiesa Cattedrale di Savona». Una simile notizia ci fa naturalmente, pensare ad un’industria sorta già da tempo; come, del resto, viene a confermare con la data del 1133 una piccola lapide d’ardesia («la più antica scultura in pietra di Lavagna»), visibile in una chiesa del golfo Tigullio, senza perciò che il fatto ci autorizzi a risalire troppo lontano nel tempo.

“Una cava interna mentre ferve il lavoro. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

■ Anche per gli strati della Fontanabuona, sebbene il loro sfruttamento — che doveva subito collocarli al primo posto nella produzione — abbia avuto inizio soltanto verso la fine del secolo scorso, esistono ragguagli che ci riportano press’a poco agli anni di cui sopra. Si tratta, precisamente, di due regesti con la data, l’uno, del 1213 e del 1270 l’altro. Parecchi sono poi ancora quegli altri regesti in cui le notizie circa l’industria ardesiaca rivierasca, per gli anni compresi tra il 1162 ed il 1297, trovano una nuova e più ampia documentazione. Per ora al di là di queste date, già del resto abbastanza rispettabili, nulla di sicuro. Non mancano invece le notizie più recenti, dovute a diversi scrittori di qualche secolo dopo (Giustiniani, Serra ed altri), notizie in cui si rileva appunto il crescente favore goduto da codesta roccia che — con espressione attribuita al Galilei — fu persino definita: «La pietra di paragone degli ingegni».

La coltivazione di una miniera d’ardesia.

■ Ardua, costosa operazione l’escavo delle ardesie liguri, perché richiede lunghi trafori entro le viscere dei monti con andamento più o meno complicato a seconda delle diverse accidentalità che ogni singolo strato presenta. Specie nella Fontanabuona, la maggior parte degli strati si dispongono in senso anticlinale, cosicché ad una certa profondità, il loro sfruttamento vien senz’altro impedito dall’accumulo delle acque, ove non si provveda ad opportuni trafori od impianti di prosciugamento. Pure molto imbarazzanti riescono sempre le sovraccennate frequenti «rôtte», o fratture con spostamenti: di roccia. L’ubicazione poi di quasi tutti gli strati su pendici, bene sovente non di prima quota, è a sua volta un altro grave inconveniente giacché, per avere al piano il materiale scavato, sono necessari mezzi di trasporto sempre costosi, anche se rapidi e comodi come le moderne teleferiche.
■ Gli scavi all’aperto od a giorno si limitano evidentemente alle sole piccole aree d’affioramento che non siano state, ben inteso, troppo danneggiate dalle intemperie.

“Un blocco d’ardesia appena levato. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

■ Tutte codeste cave sono ovunque assai visibili per i cospicui cumuli di pietrame (scaggiôè), cui danno luogo. Fra attive ed esaurite se ne contano ormai parecchie diecine per ogni zona, con trafori che misurano centinaia e centinaia di metri di sviluppo. In tutte si ha identità d’impostazione, di sviluppo e scavo.
■ Praticato con mine un certo vano (scoverta) nella parte superiore dello strato ardesiaco e proprio sotto alla roccia incassante di tetto, intervengono subito gli scavatori che, con tagli a piccone, seguitano ad asportare la parte sottostante finché l’ abbiano esaurita, giungendo all’agrô di base (seùggia = soglia). Gli uni scavano, mentre gli altri, continuando le aperte brecce, rendono possbili nuove escavazioni. Ad una certa profondità e a seconda, ben inteso, del legittimo raggio d’azione, l’avanzamento iniziale è portato in diverse direzioni, così da ottenere altre gallerie separate tra loro da pareti di un determinato spessore. Vengono quindi aperte col solito metodo, cioè dall’alto, anche in queste pareti altre piccole aree d’escavazione, dette «finestre» perché separate a loro volta l’una dall’altra da pilastri (puntelli) di ardesia, lasciati a bella posta per sostegno del terreno sovrastante. Tanto le cave d’ avanzamento principale, quanto le altre di derivazione hanno, in generale, un’apertura abbastanza ampia perché la roccia di tetto è appunto, in generale, molto resistente. Esistono infatti cameroni di cava larghi financo 25 metri.
■ Guida e norma di lavoro, l’industre sagacia dei proprietari e dei loro uomini, puro, genuino sangue ligure. Si compiono, è vero, ogni anno delle ispezioni da parte di qualche membro del Corpo Reale delle Miniere; ma è invero sorprendente la competenza che anche i più giovani operai acquistano in breve circa le particolarità dello strato preso a scavare, tanto che difficilmente si accingono ad operazioni errate o pericolose.
■ Più facili, invece, e frequenti le critiche circa le applicazioni meccaniche, da molti ritenute scarse e inadeguate.
■ L’estrazione dell’ardesia ligure ha per sua caratteristica tradizionale il taglio a piccone. Opportunamente raggruppati, gli scavatori delimitano, nel banco ardesiaco preso a sfruttare, delle superficie rettangolari di varia grandezza, dette blocchi, praticando incisioni a guisa di veri e propri solchi. Si valgono all’uopo con agilità e destrezza, d’un pesante arnese dalla punta d’acciaio sempre ben acuminata. L’ardesia ligure, s’è già detto, non è molto dura ed aspra, ma pur tuttavia ogni punta da taglio deve essere di frequente rinnovata; alla qual bisogna provvede in ogni cava qualche operaio che sappia lavorar dì incudine e martello.
■ Stabilisce le dimensioni dei blocchi il capo operaio che deve anche, se possibile, utilizzare come tagli le diverse frequenti leptoclasi (fessurazioni minute della roccia) ed evitare le aree eventualmente troppo intersecate da infiltrazioni quarzose o calcaree. Una volta che un blocco sia stato isolato nel modo voluto, non resta che ottenerne il cedimento (levata) dalla massa di scavo. È il compito degli operai più esperti. Pochi sicuri colpi di piccone alla base del blocco e il cedimento è operato. Avverte di ciò un leggero screpolio che si annuncia con una sottile fenditura congiungente i diversi punti percossi, e ne dà conferma definitiva la nuova cupa rispondenza di suono acquistata dal blocco. Si pon mano allora a robuste leve per il sollevamento.
■ Coi margini intagliati a solco ogni blocco ha la superficie di base più grande di quella superiore, cosicché ne risulta per tutti la figura di una piramide tronca. Non è quindi ancora possibile procedere alla sfaldatura perché da una tale conformazione risulterebbero lastre di misure diverse l’una dall’altra. Ed ecco allora che, rialzato su di un fianco, il blocco viene abbattuto lentamente in modo che resti capovolto e quindi suddiviso con altri tagli a piccone in due o quattro parti, a seconda delle lastre che si vogliono ricavare. Si hanno così delle suddivisioni dette «ceppi», corrispondenti ad altrettanti parallelepipedi, da cui potranno essere ricavate, per conseguenza, lastre uniformemente uguali.
■ In questi ultimi anni, s’è cominciato a praticare in diverse cave anche lo scavo meccanico mercé l’adozione da tempo auspicata del taglio a filo elicoidale, come per i marmi. Ciò però non significa l’abbandono del tradizionale piccone perché, mentre questo si presta in tutte le speciali giaciture della roccia, il filo elicoidale invece resta necessariamente limitato alle aree già isolate per due lati paralleli.

“Uno sfaldatore all’opera: blocco che vien ridotto in lastre. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

La sfaldatura dei blocchi in lamine.

■ Scavati e suddivisi, occorre che i massi vengano tosto ridotti in lastre perché, a contatto dell’aria, essi perdono facilmente la loro originaria fendibilità senza poterla più riacquistare. Donde anche la necessità di coprire con pietrame umido qualsiasi masso o taglio che debba essere momentaneamente abbandonato. Per quanto delicata, questa della sfaldatura è un’operazione abbastanza semplice e punto faticosa. Essa avviene per mezzo di piccoli cunei d’acciaio (scalpelle) della larghezza d’una mano, conficcati a una certa distanza l’uno dall’altro in uno dei tagli del blocco messo ritto, e procede sempre, per i blocchi minori risultanti dall’operazione, a spacchi di metà in metà, fino a quando la roccia con la sua fissilità lo permetta. Il complessivo rendimento del blocco dipende quindi dal maggiore o minor numero di fenditure rettilinee che si riesce ad ottenere. Inutile aggiungere che occorre all’uopo una certa perizia; ma è tanta la fendibilità della roccia, appena scavata, che anche lo sfaldatore novizio può portare le lastre ad uno spessore quanto mai sottile.

Vita di cava e lavorazione.

■ Estese, profonde aperture a pendenza talora molto forte, con bizzarri cameroni dai colonnati ciclopici, sono i vani che ripetutamente mostrano le cave interne di sfruttamento avanzato. Dappertutto soffitti di nuda roccia, ora leggermente ondulata ed ora invece, a strisce regolarissime come di tetto. Qua e là altre buie aperture ove anche il più piccolo rumore trova echi inaspettatamente lontani.
■ Giorno di lavoro: fugaci, lontane apparizioni di lumi che si perdono in direzioni opposte: passi frettolosi e cadenzati; convogli di materiale fermi ed in moto, nonché potenti detonazioni preannunciate dal consueto: «… guarda la mina!».
■ Con la scorta d’una guida che gli rischiara la via e gli fornisce le necessarie indicazioni, il visitatore, nuovo affatto dei luoghi, procede verso l’interno vivamente colpito e quasi preoccupato. Lungi dalla luce del giorno, in seno a monti audacemente violati, senza vedere intorno a sé alcun rivestimento protettivo, egli prova una certa inquietudine, un senso di smarrimento che, attenuando alquanto la sua curiosità, gli fa nascere il desiderio d’una visita breve per tornare al più presto «a riveder le stelle».
■ Ma perché mai un simile disagio dove tutto parla di febbrile, coraggiosa operosità umana?

“Uno sfaldatore di lavagnette. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

■ D’un tratto, uno sciame di globi luminosi attorno ai quali si muovono figure umane: è il banco di scavo. Uomini intenti al taglio, alla sfaldatura, nonché al trasporto delle lastre e del materiale di rifiuto. Poco più avanti, su in alto, come aggrappati alla roccia, sono i minatori che preparano le mine e con esse le brecce d’avanzamento. Le voci umane si confondono coi celeri e aspri colpi degli strumenti di lavoro, formando insieme, in ritmo disordinato, un fragoroso concerto.
■ In ogni cava un’inattesa, piacevole temperatura: fresca d’estate, tiepida d’inverno. Abbondante nell’aria una finissima polvere che rende cinerei abiti e volti. La respirazione certo non ne gode, ma pur tuttavia lo stato sanitario degli uomini di cava è ottimo.
■ La grande abilità e vigoria di tutti questi operai è principalmente messa a dura prova nella rimozione del materiale di maggiori proporzioni là ove non resta che un unico mezzo: il dorso umano. Si tratta, è vero, di brevi percorsi, ma assai frequenti per le numerose accidentalità degli strati. Eccettuati questi casi però, funzionano dappertutto carrelli Decauville a motore od a braccia ed, all’esterno, robuste teleferiche automotrici, alcune delle quali si snodano in due o più tronchi di parecchie centinaia di metri.
■ A completare l’opera degli scavatori il materiale destinato agli usi più nobili vien subito appresso raccolto in alcuni stabilimenti ed ivi, con appositi congegni meccanici, rapidamente ritagliato ai margini o ancora suddiviso nonché piallato e levigato a perfezione. Nei meglio attrezzati, si provvede pure alla montatura entro cornici di legno delle numerose lavagne e lavagnette destinate alle scuole.
■ Mentre adunque i carrelli delle teleferiche si alternano nel vuoto recando solleciti al piano con sibilante rullio il materiale strappato alla montagna, stridula echeggia negli stabilimenti, tra il sordo vibrare dei motori, la tagliente vertiginosa lama delle seghe a disco. Fioca ed indistinta la voce delle pialle e delle mole non meno operose. Ed ecco frattanto, da ogni stabilimento, lastre ardesiache d’ogni dimensione, ottimamente lavorate, pronte per rispondere alle richieste che giungono incessanti anche dai più lontani paesi.

“Sfaldatura di lastre diverse e taglio meccanico delle stesse. (fot. E. Foppiano, Monteleone)”

Produzione e commercio.

■ La produzione ed il commercio in questo campo sono abbastanza rilevanti. Limitandoci ad esaminare i dati di circa un cinquantennio, e pigliando le mosse dal 1880, si comincia così con una produzione di 32.500 tonnellate per un valore complessivo di lire 1.294.000; un leggero aumento segna il 1890 con 35.000 tonnellate per un valore di L. 1.416.800; nel 1900 invece si riscontra una sensibile diminuzione (26.162 tonn.); passando al 1901 troviamo 27.456 tonn.; poi, all’infuori di alcune brevi soste e leggere contrazioni, le cifre segnano fino al 1914 un costante aumento, che giunge al suo massimo con le 40.000 tonn. (val. L. 1.219.632) del 1909 e del 1913 (L. 1.465.032). Segue la rapida, fortissima discesa del periodo bellico. Subito dopo la ripresa è quanto mai animata e promettente, anche se non molto regolare, date le acute crisi economiche del dopoguerra, ben lungi ancor oggi dall’essere superate.
■ Quanto all’esportazione, su un totale di 27.000 tonn., la Riviera di Levante ebbe ad esportarne da sola ben più di due terzi. Un quantitativo, cioè, che supera l’annuale produzione dell’ultimo decennio.


N. d. R. Porgiamo sentiti ringraziamenti a tutte le Ditte (Porcella, De Ferrari, Arata, ecc.) che ci hanno cortesemente consentito di fare eseguire nelle proprie cave e nei propri stabilimenti le interessanti fotografie che illustrano questo articolo.”