L’automatismo sui campi di battaglia (1914)

Dalla rubrica “Varietà”, da Rivista Enciclopedica Contemporanea, 1914.

“L’automatismo sui campi di battaglia. — La paura della morte turba in battaglia i combattenti; il timore delle grandi responsabilità annebbia spesso la mente dei condottieri. Tutto un lavoro di disorganizzazione sembra compiersi nelle anime: il pensiero si oscura, la volontà è annientata, o se sopravvive, non ha più la docile obbedienza del corpo; in una parola, l’uomo non è più il padrone di sé e il duce non può più fare sicuro assegnamento sui suoi soldati. Così — dice il tenente colonnello Emile Mayer — anche i piani più ingegnosi e più sapienti corrono gravi rischi, e possono fallire per imperfetta esecuzione dovuta soltanto alle emozioni che si provano sul campo di battaglia.
Non c’è dunque bisogno di dimostrare quanto sarebbe desiderabile che soldati e ufficiali potessero sottrarsi alla paura o al turbamento: se invece di uomini il comandante avesse ai suoi ordini macchine precise e impassibili, la guerra diverrebbe un semplice problema di dinamica che le debolezze umane non potrebbero turbare. Ma la natura ci ha dato immaginazione e sensibilità; che appunto ci differenziano dagli automi, che ci danno una forza ed una superiorità di cui siamo giustamente orgogliosi, seppure talvolta, come in questo caso, possano essere causa di debolezza. Sembra dunque a taluno che la perfezione ideale a cui bisognerebbe tendere sia l’automatismo dei soldati in guerra, e l’imperturbabilità dei capitani: si vorrebbe che il soldato riuscisse a serbare sul campo di battaglia quella stessa calma che ha sui campi di tiro, e che l’ufficiale, seguendo ciecamente, bestialmente, la norma impostagli, esercitasse il comando senza mettervi nulla di suo, sopprimendo la riflessione e il ragionamento.
Questa è appunto l’opinione del Capitano I. Vaillant, né si tratta di opinione puramente personale, poiché in un corso di lezioni tenute nell’anno 1911-12 alla scuola di Saint-Cyr possiamo leggere pensieri non molto dissimili: «Le facoltà che prime vengon turbate in guerra dalla fatica, dall’emozione, dalle sofferenze, sono l’iniziativa, e l’invenzione; poi la volontà e il ragionamento abituale; più resistenti di tutte sono le attitudini automatiche. Occorre dunque rendere automatici nei soldati tutti gli atti che sì possono compiere macchinalmente; occorre rendere abituali, per lungo esercizio d’intelligenza e di volontà, tutte le decisioni, tutti i calcoli che in guerra possono essere utili». Ben è vero che lo stesso professore più oltre riconosce che l’eccessivo sviluppo dell’automatismo e della passività uccide l’iniziativa, e che quindi un’educatore militare si trova di fronte ad una antinomia: egli deve crear due specie di abitudini che reciprocamente si escludono, e non può risolvere questa antinomia che con una sapiente distribuzione delle une e delle altre. E dunque quistione di misura, questione assai delicata.
Contrariamente al professore della scuola militare francese, il colonnello Mayer non crede facile crear l’obbedienza automatica; contrariamente al capitano Vaillant, non crede che un tal resultato sia desiderabile. Bisogna tuttavia intendersi: affermazioni così recise sarebbero erronee, e ad esse è bene aggiungere qualche attenuante.
Senza troppa fatica, senza troppo sciupio di tempo, si può abituare l’individuo, mediante esercizi ripetuti, ad alcuni gesti automatici, e queste abitudini non sono affatto inutili. Il soldato avvezzo ad assumere un certo atteggiamento in udir l’ordine di «Attenti»! pronunciato in quella data intonazione, può esser richiamato a quel gesto e all’obbedienza anche sul campo di battaglia, in un momento in cui stia per vacillare in lui lo spirito di disciplina: ufficiali accorti cd energici hanno talvolta ricorso a questo mezzo e sotto il fuoco nemico han fatto manovrare i loro uomini come in piazza d’armi, per occuparli e distrarli. In un reggimento di artiglieria francese, un cannoniere ubriaco minacciava di colpire i suoi compagni con la baionetta: sembrava impazzito; un sergente ebbe la felice ispirazione di comandargli l’«attenti»! e di intimargli di ringuainare la baionetta pronunciando col tono abituale di voce la formula regolamentare. Il cannoniere quasi incoscientemente obbedì, e, disarmato, fu facile arrestarlo e domarlo: l’intossicazione alcoolica aveva turbato la sua ragione, ma il suo automatismo era rimasto intatto.
L’operazione dì caricare il fucile, mirare, sparare, può facilmente diventare automatica, purché il soldato abbia da tirar continuamente senza economia di munizioni, e questo suo automatismo può valere finché non intervengono altri elementi che lo turbano, come il fischiar delle palle nemiche, il cadere dei commilitoni, la vista dei feriti e dei morti. Non altrimenti l’equitazione diventa esercizio automatico, ma non è detto che in una carica in guerra le mani non si aggrappino alle redini e, il cavaliere, pur senza volerlo non trattenga il cavallo che dovrebbe essere invece spinto a tutta corsa.
Egli è che all’abitudine acquisita di sparare il fucile o di cavalcare se ne contrappone un altra assai inveterata: quella d’aver paura. L’istinto della conservazione è più forte: si racconta che il 97 highlanders a Balaclava arrestò con un sol gesto una carica di cosacchi; gli Inglesi attendevano con l’arma al piede gli squadroni avanzati, e quando questi furon giunti a breve tiro di fucile si prepararono a sparare, con tanta calma, con tanta sicurezza, che i cavalieri ebbero l’impressione di un fuoco certo micidiale, e volsero in fuga al galoppo. Si può forse dubitare che i cosacchi non sien buoni cavalieri? eppure più dell’abitudine quasi automatica valse la volontà di vivere. E noi ci dobbiamo convincere che nessun automatismo potrà annullare l’istinto della conservazione né che esso può difendere più d’una scorza che al primo urto si rompe.
Vincer la paura bisogna: bisogna abituare i soldati a soffocarla nell’animo. Ma in qual modo?
Ve n’ha uno solo: convincere che nel coraggio è la salute, nel timore è pericolo di morte. E anche questo un sistema per fare acquistare abitudini ben radicate; l’idea del pericolo vi fa subito prendere quelle abitudini che giovano ad evitarlo mentre ci vuole assai più tempo a prendere quelle che non sono necessarie per la conservazione.
A ben poco giova l’esercizio ripetuto se l’interesse non sproni: il veterano, che non ha più desiderio d’ avventure, che ha già onori e glorie, pensa alla pace, alla sua casa, al riposo; il generale che ha già un nome, una reputazione, una fortuna da salvare, pensa che tuttocciò gli costa lunghi anni di fatiche, ed è assai meno audace, meno intraprendente di quel che era nel giorno in cui tendeva la mano a cogliere i primi allori. Così dice il Von der Goltz nella «Nazione armata»; e continua:
«Nel 1870-71 fu da taluno affermato che un esercito poteva esaurirsi fino alla morte, a forza di vincere: sembra un paradosso, ma c’è del vero. La maggior parte dei soldati si stanca anche d’una guerra fortunata».
Questa osservazione ebbe nuova conferma durante la guerra di Manciuria. Un ufficiale francese, che visse a lungo in Giappone e seguì le truppe contro la Russia, nota con sorpresa grande che «non ci s’avvezza al fuoco: la prova delle ultime battaglie fu più dura delle prime, forse per la stanchezza, forse perché non si dubitava più della vittoria e, non essendoci più lo sprone della necessità di vincere, restava a ciascuno maggior tempo per pensare a se stesso, … »”