L’arte del libro (1911)

Da Emporium, Vol. XXIII, N. 197, maggio 1911.
Di Arturo Lancellotti.

“■ Poche storie sono più interessanti di quella del libro, il compagno delle nostre ore liete di lavoro, il consolatore delle nostre giornate malinconiche d’inerzia. Il libro è un po come la donna, come la donna giovane e piacente. Tutti lo guardan volentieri, ma pochi lo studiano. Ed esso a pochi è fonte di sollievo e di gioia, a molti è fomite di guai infiniti. Chi ama il libro per sé stesso non tarda a rimanere vittima del libro. Egli si trova come preso nelle spire vorticose d’un’insana passione e non ha più pace e non gode più vita. Diviene amante avido e geloso: d’una avidità e d’una gelosia che lo spingeranno a ogni eccesso. Dilapida patrimonii, inganna, ruba e giunge anche al delitto. La storia dei bibliomani registra cose inaudite: raggiri ignobili, furti sfrontatissimi, scene di sangue bieche e fosche. È proprio un fàscino tutto femminile quello che per molti emana dal libro: femminile nella forza con cui incatena e nelle conseguenze a cui conduce. Vi sono stati bibliomani che hanno dato fuoco a intere librerie per distruggere un’opera di cui volevano possedere essi soli l’esemplare; altri che hanno ucciso il fortunato proprietario d’una rara edizione per impadronirsene; altri che hanno sloggiato dai numerosi loro palazzi tutti gli inquilini per accumularvi carta stampata.

“Scrittura jeratica. – Papiro Prisse (2500 avanti Cristo) – Parigi Biblioteca Nazionale.”

■ C’è amore da amore. E queste sono, certamente, forme aberrative di amore. Ma l’affetto calmo e sereno per il libro nicchia un po’ nell’animo d’ogni studioso, come la passione serena per la donna è in ogni core che la sappia ben conoscere e valutare. E in tale caso il libro, al pari della donna, non domanda più di quello che dà: tiene senza trascinare, soggioga senza travolgere. È una fonte continua e buona di piacere a cui ci abbeveriamo sanamente.
■ Nei tempi antichi il libro propriamente detto non esisteva. Tennero il suo posto prima le tavolette di pietra, di metallo, di legno spalmate con cera, su cui, per mezzo dello stile, si incideva; poi le foglie degli alberi; quindi lunghissime striscie di scorza di papiro.

“Sillabario babilonese (442 anni av. Cristo). Londra, British Museum.”

■ Il primitivo oggetto di cancelleria fu lo stile: era foggiato da una parte ad ago e dall’altra (che serviva per spalmare la cera e per fare le correzioni) a spatola. Saepe stylum vertos, ammonì Orazio per incoraggiare a render buona la forma. La parola stile, passata a denominare la veste dei nostri pensieri, non ha altra origine, come l’espressione limare, tuttora rimasta nel linguaggio comune, ci ricorda l’operazione necessaria per correggere gli scritti sulle tavolette di metallo.

“Cilindro di terracotta con iscrizioni della cronaca di Asurbanipal, re dell’Assiria (dal 668 al 626 av. Cristo). Londra, British Museum.”

■ Alle tavolette seguirono il papiro e la pelle degli animali, debitamente preparata. Del papiro, pianta acquatica, si adoperò la corteccia (dopo averla fatta disseccare e, poi, mediante l’ immersione in un bagno d’acqua con un preparato di colla, ridotta a fogli) fin da quando Alessandro fondò la città di Alessandria.
■ Le pelli delle bestie, preparate a Pergamo, presero il nome di pergamene.
■ Gli Egiziani, fra i quali il papiro si adoperò qualche tempo, finché non venne sostituito da un’altra specie di pianta che resse ottocento anni e solo un secolo dopo fu del tutto abbandonata, chiamarono liber la sua scorza esteriore, voce, questa, che passò prima a denominare il papiro manoscritto, poi il libro moderno. E poiché il lungo foglio, formato da tante bande di quella scorza e arrotolato, per comodità, su sé stesso, si disse volumen, anche questa parola rimase a designare il libro propriamente detto. Oggi diciamo: svolgere le pagine di un libro; e gli antichi, che andavano svolgendo in maniera più propria, secondo procedevano nella lettura, il rotolo di papiro, dicevano: evolvere librum; pervolutum volvere. Sulla scorza di papiro non si scriveva con lo stile, ma con penne di oca, di corvo, di gallo, ecc. Le penne d’oca si usarono in tutta Europa, meno in Turchia, dove furono, invece, adoperate cannucce. I persiani si servirono di una piccola canna d’India e i cinesi di pennelli.

“Antica iscrizione pali su lastra d’oro – Londra, British Museum.”

■ I primi libri erano, naturalmente, scritti a mano. Qualche volta, per comporre un altro libro, si cancellava il testo precedente e si sostituiva il testo nuovo negli spazii che passavano da rigo a rigo.
■ Da questo lavorìo, operato sui codici membranacei, nacquero volumi detti palinsesti, voce che tuttora vige per indicare uno scritto zeppo di correzioni e cancellature.

“Libro di Sumatra, fatto di corteccia ripiegata (l’iscrizione è in carattere battak) – Londra, Ufficio dell’India.”

■ L’arte della stampa cominciò nel 1438, per merito del Guttenberg, con caratteri fissi, scolpiti sopra tavolette di legno: i libri così impressi si dissero silografici. Le primissime edizioni con caratteri mobili ebbero il nome di incunabuli, poiché ricordano un’epoca in cui l’arte della stampa era ancora in cuna.
■ La carta di straccio non si sa bene quando venne: ma la maggior parte degli scrittori la credono giunta in Europa nel XIV secolo. Verso il 1450, in ogni modo, sotto il regno di Filippo di Valois, fu importata in Francia e le prime fabbriche si stabilirono a Troyes e ad Essonnes.

“Documento ufficiale burmese, su avorio – Londra, British Museum.”

I CARATTERI, L’INCHIOSTRO, IL FORMATO, DEI PRIMI LIBRI.

■ I caratteri mobili vennero inventati, al principio del secolo XII, dai coreani, e furono concavi per poter essere assicurati fortemente sullo strato di cera che costituiva la forma. Una volta fissati, lo stampatore non aveva che a passare sopra di essi un rullo con l’inchiostro ed applicare, poi, i fogli della carta. Con questo sistema si potevano stampare 1500 copie al giorno. Ma l’ invenzione decadde presso i coreani. Essa rinacque in Italia quando Bernardo Cennini introdusse i caratteri mobili a Firenze. Questo valente orafo, appena seppe che di uno scritto potevano riprodursi, senza il concorso del copiatore, molti esemplari, aguzzò tanto la mente che, pure ignorando quel che aveano fatto i tipografi magontini, inventò i punzoni d’acciaio, coniò le matrici, fuse i caratteri, costruì un torchio e stampò per il primo in Firenze con caratteri gettati nella propria officina. Il 7 novembre 1471, con l’aiuto di suo figlio Domenico, uscì dai suoi torchi l’opera Servii Honorati Commentarii in Virgilium. E questo libro fu così perfetto che «maravigliano, invero, gli odierni artisti tipografi — scrisse il suo biografo G. Ottino — alla vista di sì mirabile opera e concordemente asseriscono non poter essere questo un primo saggio dell’arte».

“Forme di stili usati dai greci.”

■ Nei primi libri, tuttavia, le iniziali si lasciavano in bianco ed era cura dei disegnatori e dei copisti tracciarle con ogni sorta di ornamenti. Nei volumi del XV secolo esse si presentano grandi e adorne di figure bizzarre di teste umane e di animali. Più tardi, e precisamente nel 1467, Erhard Ratdolt, tipografo veneziano, fuse le iniziali tipografiche, che non tardarono a diffondersi, perfezionate più tardi da Giovanni di Westfalia, da Giovanni Veldener, dal Mausion e da Gerardo De Leen (1480). La novità della trovata dette luogo, sul principio, ad incidenti curiosi: i tipografi sbagliavano spesso nel collocare queste iniziali al loro debito posto. Una iniziale rappresentante l’osceno mito di Leda fu messa in una Bibbia inglese, al principio dell’epistola di San Paolo agli Ebrei….
■ Gli antichi imperatori si servirono di inchiostro finissimo rosso, per sottoscrivere lettere-patenti, privilegi, editti, ecc. Quest’inchiostro, detto encausto, non poteva essere adoperato da nessun suddito senza ch’egli incorresse nel crimen lesae majestatis. L’inchiostro da stampa, più denso di quello da scrivere, fu probabilmente trovato da Giovanni ed Uberto Van Eyck mediante una miscela di olio di lino e di noce. E si perfezionò specialmente in Olanda, in Fiandra e a Majenna, dove si ottenne un nero sì perfetto che, dopo oltre tre secoli, non si è ancora alterato.

“Stili, calamaio, capsa e tavolette usate dai romani.”

■ Il formato, all’origine del libro, non esisteva. Il libro aveva la stessa misura del foglio di papiro o di pergamena. Fu l’impiego della carta che portò alla creazione del formato. E poiché un foglio di papiro, se nei volumina era fisso dai due estremi a bacchette dette umbilici, nei codici, viceversa, era piegato nel mezzo e unito agli altri, il formato nacque. Fin dal 1548 esisteva, infatti, la proibizione di vendere carta e pergamena che non avessero le misure prescritte. Il formato del primo libro fu l’in folio; il primo libro in quarto conosciuto è il Vocabularium ex quo…. impresso nel 1467 da Enrico Nicola Bechtermüntze, e ristampato in folio due anni dopo; l’in ottavo si deve ad Aldo Manuzio, il quale se ne servì per la prima volta nel 1500 pubblicando un’edizione delle opere di Virgilio, ed ottenendo dal Senato di Venezia, come ricompensa, il privilegio di adoperare tale formato per dieci anni (decreto del 15 novembre 1502); il dodicesimo, che ebbe grande voga in Francia, nacque nel 1470 e fu preferito per i libri di pietà; il sedicesimo e il ventiquattresimo vennero di moda con gli elzeviri del XVII secolo; il più antico volume in trentaduesimo è l’Officium B. Mariae Virginis, edito a Venezia nel 1473 da Nicola Jenson. A proposito del privilegio concesso al Manuzio giova osservare che a quei tempi era comune ottenere un decreto, grazie al quale, per un certo tempo, veniva garantito, all’editore o all’autore, che il suo libro non sarebbe ristampato nello Stato, e non vi sarebbe introdotto se stampato fuori. Così sui volumi si soleva imprimere la frase «con privilegio», o, più chiaramente, «con privilegio de lo illustrissimo Senato Veneto per anni dieci» ecc.

“Ricostruzione della biblioteca di un antico romano.”

■ La parola formato non è facilmente definibile. Molti bibliografi cercarono di spiegarla; ma le loro definizioni sono approssimative, confuse e improprie. Forse essa deriva dal latino formatus, cioè che è formato. Il formato è la quantità del numero delle pagine costituite da ogni foglio stampato e piegato, qualunque sia la sua dimensione.


IL REGISTRO.

Il mezzo del quale i primi tipografi si servirono per regolare e facilitare l’unione e la rilegatura dei diversi fogli che costituivano un libro (quando le pagine ancora non erano numerate) fu una piccola tavola, detta registro, e collocata qualche volta al principio del volume, più spesso alla fine. Essa richiamava la prima parola delle pagine costituenti la prima metà di ciascun foglio. Il registro cominciò ad usarsi nel 1469 e visse, specialmente in Italia, fino alla fine del secolo successivo. Sembra che le più antiche opere contenenti un registro siano le Filippiche di Cicerone e il Tito Livio, stampate da Ulrico Hahn nel 1469 o 1470. Nelle edizioni del XV secolo si chiamò talora registro la tavola alfabetica contenente le iniziali delle prime parole dei capitoli. Per compilare un registro si raccoglievano i fogli stampati o per 5 o per 4, qualche volta per 5 e per 4 nella stessa edizione, e il numero era indicato all’ultimo. Col tempo quest’uso, che persistette a lungo nelle tipografie, divenne interamente inutile.


LA DATA.

■ Nei libri antichi la data a volte manca; più spesso ancora non è veritiera. Essa cominciò ad apparire in fine dell’opera; poi in fondo al frontespizio; quindi sul frontespizio. Il primo libro con data certa è lo Psalmorum (1457).
■ Certe edizioni in più volumi portano date diverse, sebbene i volumi siano apparsi contemporaneamente; altre contengono date inesatte, come, per esempio, quella della raccolta e non dell’ impressione dell’opera; altre non ne segnano alcuna; altre l’hanno falsificata a bella posta perché appaiano più antiche e più preziose, come per esempio un esemplare della Summa di S. Tomaso, edito da Pietro Marchand nel 1471, su cui si vede grattata la prima lettera della parola settuagesimo e sostituita con quella di quinquagesimo, per far credere in un’ edizione sconosciuta nel 1451.
■ Alle volte la data è inintelligibile, come questa: M.CCCC.IC.VIIIII. del Vegetius et alii, De Re Militari, edito a Venezia da Giovanni De Tridino: o come quest’altra, intercalata dagli zeri: 100070032, per 1732.
■ Nella storia del libro si ricordano anche date che occorre studiare e decifrare come indovinelli.


LE ETICHETTE DEI LIBRAI.

■ Fin dai tempi più antichi gli editori usarono contrassegnare le proprie pubblicazioni da etichette che portavano il loro nome e un motto con una figura allegorica. Queste etichette furono sul principio alquanto appariscenti, anche nelle dimensioni; ma, a poco a poco, andarono semplificandosi e riducendosi e tuttora resistono. Il primo a lanciarle fu Aldo Manuzio. Il suo motto, Festina lente, era disegnato sopra un gruppo allegorico di un delfino e di un’àncora. Il delfino per illustrare la prima parola; l’àncora per la seconda. L’etichetta di Giolito de Ferrari era una Fenice, col motto: Semper Eadem. La parola etichetta ha una strana origine. Sul dorso degli antichi libri di teologia si soleva imprimere: Est hic questio, ecc. i francesi, leggendo a modo loro, pronunciavano Et i chet. In buon italiano, la parola che corrisponde ad etichetta è insegna.

“Una prima pubblicazione nel XV Secolo – Carlo VIII di Francia riceve il manoscritto del «Credo degli Apostoli». – Londra, British Museum – Collezione Rotschild.”

LE PICCOLE TIRATURE.

■ Vi furono in tutti i tempi pubblicazioni tirate in limitatissimo numero di esemplari; altre che, con l’andar degli anni, si assottigliarono. Queste opere divennero preziosi cimelî.
■ Si ricorda come rarità l’edizione originale della brochure H. B. impressa da Prospero Mérimée in 25 esemplari, di cui 17 furono distribuiti e tutti gli altri distrutti. Dei 17, tre andarono a M.me Ancelot, a Armand Malitourne e a Saint Beuve. L’ esemplare di M.me Ancelot lo possiede oggi il Visconte di Spoelberch; quello del Malitourne fu venduto ad un amatore inglese; quello di Saint Beuve fu ceduto, da M.me Troubat, a persona ignota. A proposito di questa brochure si racconta un piccante aneddoto. La celebre attrice Rachel aveva un grande desiderio di riceverne copia per la sua biblioteca. Un adoratore, dopo molti stenti e sacrifici, riuscì, alfine, a procurarsela e a fargliene omaggio. Ma la Rachel, che chissà dove era volata coll’immaginazione, dopo averla appena sfogliata, non seppe nascondere il suo disinganno. «È tutto qui? — disse al munifico donatore. — Ebbene, io sono pronta a barattarlo con una scatola di marrorns-glacés». E, forse, lo fece, perché la brochure H. B. non figurò nella vendita dei suoi libri preziosi.
■ Vi sono diverse opere di cui rimane un esemplare solo, rarissimo, e ve ne sono di cui rimane poco più di tanto.

“Lo scrittore – Da un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi (1456).”

ÌL LIBRO MODERNO.

■ Oggi l’arte del libro è in decadenza. Essa ha risentito delle mutate condizioni della società. Così, salvando tutte le apparenze, il libro si è presentato senza quasi nessuna di quelle cure che facevano di esso, nei tempi passati, una cosa bella e duratura. Diminuito l’analfabetismo, aumentata la produzione letteraria, è stato necessario tener conto più della sostanza che dell’apparenza. E nel mondo si è avuta un’invasione di libri alla portata di tutte le borse, ma che con l’arte tipografica non hanno nulla di comune. Gli errori di stampa rigurgitarono; i caratteri, consunti dalle grandi tirature, compromisero la vista dei lettori, e la carta, tratta dagli elementi primi meno idonei, andò rapidamente consumandosi sotto l’azione degli anni. Sembrano infinitamente lontani quei tempi in cui il tipografo parigino Firmin Didot diceva che il refuso «ferisce l’occhio, come una nota falsa, in un concerto, ferisce l’orecchio», in cui Byron si preoccupava, più che del successo, della correttezza delle sue opere, e scriveva all’editore Murray: «Il più piccolo errore di tipografia mi uccide. Correggete, dunque, se non volete mettermi nel caso di tagliarmi la gola»; in cui il poeta Alessandro Guidi, accortosi di un grave errore incorso in alcune omelie di Papa Clemente XI, da lui volte in versi, se ne afflisse tanto da farne una malattia che lo condusse alla morte; in cui il tipografo Magrini di Venezia, per lo stesso motivo, ebbe l’eroismo di distruggere tutta l’edizione d’un libro; in cui Roberto Estienne usava esporre al pubblico le sue bozze di stampa, promettendo un forte premio a chi avesse scoperto la più piccola scorrettezza; in cui, infine, Aldo Manuzio dichiarava che avrebbe preferito pagare uno scudo d’oro per ogni errore anziché veder scorrette le sue pubblicazioni.

“Il lettore – Dal «Formularium diversorum contractuum» – Venezia, Rusconi, 1518.”

■ Così si esercitava in tempi non lontani l’arte tipografica. E per avviarsi semplicemente nel mestiere di libraio era necessario sostenere un esame su non facili questioni.
■ Oggi tutto ciò sembra un sogno. Il libro moderno, ripeto, tranne poche eccezioni, che certamente meritano di venir segnalate e lodate, e che, anche in Italia, valgono a non farci del tutto disperare dell’avvenire dell’arte tipografica, si stampa con pochi scrupoli. Siamo in un’epoca in cui la fretta guasta tutto: non si bada a far bene, ma a far presto. L’ industria ed il commercio uccidono l’arte.


LE BIBLIOTECHE D’UNA VOLTA.

■ La parola biblioteca (dal greco biblion, libro, e theca, custodia) serve ad indicare il luogo ove si custodiscono, in numero più o meno grande, i libri: in senso translativo indica la raccolta, la collezione stessa dei libri.
■ Le biblioteche nacquero prima del loro nome: esse rimontano alla più remota antichità. Se non vogliamo considerare come tale l’Arca Santa degli ebrei, che custodiva le tavole della legge e i libri sacri, dobbiamo, però, riconoscere come la più antica biblioteca del mondo quella del re egiziano Osimandia. «Egli — scrive Diodoro — aveva raccolto un grandissimo numero di volumi entro vaste sale adorne delle statue dei numi: sulla porta d’ingresso si leggeva questa strana definizione: Farmacia dell’anima». Vengono, poi, la biblioteca di Pergamo, fondata dal re Eumene, e che, secondo Strabone, esisteva fin dal tempo di Tiberio; quella di Policrate, fondata a Samo; quella di Cuide, quasi tutta composta di libri di medicina.

“Giovanni Guttenberg. Secondo la copia magontina del ritratto di Strasburgo.”

■ Parecchi secoli dopo, nel tempio di Fta a Memfi nacque una biblioteca magnifica di cui, al dire del poeta Namrate (350 a. C.), si sarebbe giovato Omero per i suoi immortali poemi. Anche importantissime furono la biblioteca greca aperta da Pisistrato in Atene per utilità pubblica, e la biblioteca di Alessandria fondata nel 283 a. C. da Tolomeo Sotero con circa 700.000 volumi.
■ Pisistrato, come abbiam detto, fu il primo ad ideare una biblioteca pubblica. Il suo tentativo venne ripreso dai Romani, che istituirono, accanto alle private, le pubbliche biblioteche. Esse, però, non contenevano che le leggi, i senato consulti, gli editti, quasi archivi della Repubblica e dell’Impero. Nello stesso tempo erano pure biblioteche sacre, ricche di libri sibillini, riguardanti la religione, come quelli pontificali, situali, acherontici, fulgurali, quelli degli auguri, degli aruspici, affidati ai pontefici, agli auguri, ai decemviri, ecc.
■ Nelle biblioteche private, invece, erano grandi varietà di opere. Famosa quella donata alla famiglia di Regolo dal Senato Romano dopo la presa di Cartagine, e che conteneva tutti i volumi raccolti dal vincitore nella città conquistata; quella che, nel 168 a. Cr., portò con sé, da Macedonia, Paolo Emilio dopo avere vinto Perseo; quella di Silla, continuazione e complemento di quella d’Aristotele; quelle di Asinio Pollione, di Lucullo, di Varrone, di Cicerone, di Attico, di Giulio Cesare, di Aristotele, di Euripide, di Euclide, di Vespasiano, di Plinio, di Silio Italico, la Biblioteca Palatina di Cesare Augusto, la Biblioteca Ulpiana dell’ imperatore Traiano, la più bella di tutte.

“Aldo Manuzio il Vecchio – Incisione del Sec. XVI.”

■ Le biblioteche dell’epoca del liber, o scorza di papiro egiziano, non avevano l’aspetto di quelle attuali. Nella casa detta Villa dei Pisani, ad Ercolano, nel centro di una stanza larga 30 metri quadrati, si rinvenne un armadio isolato, e, intorno ai muri, altri armadi che giungevano all’altezza d’uomo. Essi contenevano numerosi rotoli di papiro da cui si son copiate molte opere e precisamente le seguenti: Il trattato sulla Natura di Epicuro in 11 volumi; cinque opere di Demetrio, sulla geometria; due di Polistrato, sulla morale; una di Crisippo, sulla Provvidenza; una di Carnisco ed una di Filodemo, sulla musica e sulla retorica; due di Fedro, sulla natura.
■ Un’idea più precisa dell’aspetto che presentava anticamente una biblioteca ce la dà una camera scoperta nel 1758 in una casa durante gli scavi di Ercolano. Sopra un asse, alto circa sei piedi, e che le si aggirava intorno, si allineavano i rotoli di papiro (volumina); nel centro, una colonna rettangolare a quattro facce, anch’essa piena di volumina. La camera conteneva un numero straordinario di cilindri manoscritti: se ne contarono 1756, a cui bisogna aggiungere i non pochi smarriti durante lo scavo. Una capsa, specie di cassetta di legno cilindrica, coperta, armata di corregge, serviva a trasportare, da un capo all’altro della stanza, i libri.
■ A questo tipo appartenevano le biblioteche dei primi cristiani, fra cui celebre quella di Costantinopoli, fondata in Oriente, nel 336, da Costantino, ricca di manoscritti preziosi (come la copia degli atti del Concilio di Nicea del 325, e le opere di Omero, tutte in lettere d’oro) e che venne distrutta, al tempo dell’iconoclastia, da Leone l’Isaurico.
■ Le biblioteche degli antichi Romani erano assai semplici nella loro disposizione, ma eleganti. Gli scaffali, in legno prezioso e raro, come il cedro e l’ebano, o in legno profumato fortemente per allontanare gli insetti dannosi, avevano superbe incrostazioni in avorio o metallo.

“Bernardo Cennini, l’inventore dei caratteri mobili. Statua di Emilio Mancini – Firenze, Loggia dei Lanzi.”

■ Nel Medio Evo le biblioteche furono rare. Era quello un periodo di barbare guerre e d’ignoranza. I signorotti non avevano né passione, né tempo per le letture: i pochi libri che potevano desiderare li trasportavano seco alla rinfusa, nelle valigie, insieme ai loro effetti di vestiario. Raccolte ordinate di libri si trovano solo rei conventi, nelle scuole episcopali e in qualche rara pubblica biblioteca. I manoscritti preziosi erano, secondo un’ usanza che non sopravvisse, catenati, cioè assicurati al muro con una catena di ferro.
■ Molti legavano ai conventi opere preziose sotto condizione che fossero catenate.
■ L’uso di catenare i libri fu antichissimo a Lione. Così il canonico Tibaldo De Vasselieu, con testamento del 23 maggio 1327, lasciò al capitolo di S. Giovanni una Vita di Santi, preziosissima, con queste precise parole: «Lem dicte ecclesiae Lugdunensi dedit et legavit librum suum de fioribus sanctorum, ut ponatur in catena, retro altare beati Joannis». Ives, abate di Cluny, donò, con testamento nel 1257, al suo monastero, insieme ad altri 22 volumi, Gli Evangeli, perché si leggessero nel refettorio, imponendo lo stesso obbligo: «qui demeureront attachés par des chaines scellées sur mur du cloitre». Talora i libri, oltre ad essere catenati, erano anche protetti da piccole griglie di ferro.

“«Impressio librorum» – Incisione di Filippo Galle, disegno di Giovanni Stradano (1600).”

■ Fra le biblioteche del Medio Evo ricorderemo, dopo quella di Cassiodoro, il celebre ministro di Teodorico, la biblioteca istituita a Roma in San Pietro nel 750 da papa Zaccaria, che è la prima dell’epoca palatina, e poi quelle dei conventi tutti d’Italia, fra cui celebre per copia di manoscritti antichi, di incunabuli e di rilegature preziose, la biblioteca di Montecassino.
■ Sul principio del secolo XVI le biblioteche private apparvero eleganti nella loro costruzione e furono ordinate con gusto. Sotto il regno di Carlo IX i libri si raccoglievano in mobili alti, con frontone; nel Rinascimento i corpi inferiori dei mobili furono più sviluppati e gli armadi, riccamente scolpiti, si disposero intorno ai muri. Poi lo stile si trasformò seguendo le vicende della moda; ma nelle sue linee essenziali rimase immutato. Nel secolo XVIII armonizzò col resto dei mobili degli appartamenti.
■ Oggi il tempo delle grandi biblioteche private è finito. Mai più si ricostruiranno raccolte di libri come quelle del De Thon, del Colbert, del Falconnet, del D’ Estiées, del cardinal Dubois, di La Vallière ecc. I grandi libri ingombranti, le collezioni voluminose, specialmente dei classici greci e latini, le storie di tutti i tempi, tutti i paesi, tutte le città e tutte le chiese, sono relegate nelle biblioteche pubbliche.


I LIBRI CURIOSI.

■ Oltre ai libri nani e ai libri giganteschi che costituiscono curiosità bibliografiche su cui sarebbe troppo lungo soffermarci, vi sono altri libri che, pur non avendo nulla di straordinario nelle dimensioni, meritano di venire additati come stravaganze dell’arte tipografica.

“Una pagina del primo libro xilografico stampato a Venezia (1450) – «Passio D. N. J. Christi».

■ Nell’antichità già si conosceva il modo di stampare sulle stoffe: Plinio narra che le stoffe di lino servivano per le corrispondenze degli imperatori, e che Aurelio le adoperava per scrivervi il suo giornale. Nel XVIII secolo apparvero volumi impressi su seta e taffetà.
■ Al taffetà e alla seta tenne dietro il legno, su cui abili tipografi pubblicarono qualche raro volume. Nel 1894 l’editore Lahure impresse, in un unico esemplare, con caratteri neri e bleu, il Dernière chapître de mon roman, di L. Couquet, su legno di sicomoro.
■ La carta del Giappone cominciò ad usarsi agli inizi del 1600. La prima opera impressa su carta giapponese, con inchiostro rosso e nero, è il Manuale ad Sacramenta Ecclesiae Ministranda, del Padre Ludovico Cerqueira (1605). È in quarto, edito dai gesuiti di Nagasaki. Fino al XVIII secolo, epoca in cui la carta giapponese, che come quella cinese si presta molto alle incisioni, specie alle acqueforti, venne importata in Europa, non abbiamo, all’infuori di questo, alcun altro volume impresso su essa.
■ I libri curiosi non si fermano qui: un’edizione parigina del Don Chisciotte della Mancia è stampata, con caratteri gotici, su fogli di sughero; la Bibbia del diavolo, della Biblioteca Reale di Stoccolma, è edita su pelle d’asino; il medico tedesco Bruckmann pubblicò una Dissertazione sull’amianto su carta tratta dalla stessa sostanza.

“Una pagina del «Libro d’abaco» di Hyeronimo Tagliente – Venezia, 1515.”

■ Un libro curioso non solo, ma anche prezioso, è quello offerto dalla Repubblica del Brasile a Pio X quando egli elesse un cardinale brasiliano: stampato su fogli d’oro, con incrostazioni di gemme, ha la prima pagina inquadrata in 90 diamanti, un monogramma composto di smeraldi e un grosso brillante simboleggiante il sole da cui partono tante file di brillanti minori (i raggi).


LA RILEGATURA ATTRAVERSO I SECOLI.

■ Il libro è stato in tutti i tempi assai curato nella veste. L’arte della rilegatura fu conosciuta fia dai primi secoli di civiltà. Una volta i legatori, considerati come veri artisti, firmavano l’opera loro. Già nel IV secolo i libri venivano protetti da rilegature di gran lusso. «I libri — scrive San Girolamo — sono rivestiti di pietre preziose e il povero, nudo, muore alle porte delle chiese». Verso il 450 appaiono le legature in cuoio verde, rosso, bleu e giallo, spesso adorne di piccole bacchette d’oro orizzontali, e decorate, sopra una delle faccie, di ritratti dell’Imperatore. Un magnifico manoscritto degli Evangeli, in caratteri d’oro, porta incrostata un’agata sulla rilegatura.

“Marca di Aldo Manuzio.”
“Marca dei figli di Aldo.”

■ Dopo la scoperta della stampa, le rilegature si fecero in legno e cartone. Al principio del XVII secolo il legno venne interamente abbandonato e la cartapesta trionfò, rivestita di stoffe preziose e di cuoio, o di seta e raso per le opere rare. Dal XIII secolo in poi le edizioni di lusso furono rilegate in pergamena, seta, raso, damasco di vari colori, spesso con ornamenti di pelle, con placche d’oro, di argento, di argento dorato e di cuoio dorato, e con fermagli degli stessi metalli, o di ferro, in numero di uno a quattro. Queste rilegature erano custodite in apposite buste, che, a propria volta, adorne di perle e di dorature, rappresentavano vere opere d’arte.

“Marca di Bernardo Stagnino.”

■ L’uso di dorare il cuoio delle rilegature fu importato dagli Arabi. Col tempo il cuoio si lavorò a bassorilievi, e, per mezzo di speciale processo, venne reso lucido e brillante come specchio. Così le rilegature del XVI secolo sono singolarmente pittoresche.

“Marca di Luc’Antonio Giunta.”
“Marca di G. B. Sessa.”

■ Col marocchino di Levante e il cuoio di Russia, nel XVII e XVIII secolo, la rilegatura si trasformò. Sotto Luigi XV e la Reggenza apparvero le prime rilegature in mosaico, cioè decorate in marocchino di diversi colori, con filetti d’oro, azzurro, rosa, grigio perla, verde pallido o verde oliva. Nel Rinascimento l’ornamentazione è più elegante, più fine, più armonica, con motivi decorativi che vanno ripetendosi all’infinito. La rilegatura in cuoio, con ornamenti d’oro e colori, fu perfezionata al più alto grado sotto Enrico III. Poi ebbe linee più geometriche, più fredde. Nel XVII secolo al raso si sostituì, anche per le rilegature di lusso, la carta.

“Marca di Ottaviano Scoto.”

■ Oggi l’arte della rilegatura, dopo un periodo di decadenza, si riavvicina agli splendori passati. Il rilegatore moderno è un artista. Come per le altre arti, anche per questa, in ogni paese, si sono istituite apposite scuole.

“Marca di Andrea Torresani.”

■ Molte sono le rilegature preziose che attualmente si conservano nelle più importanti biblioteche dell’Italia e dell’estero. La più ricca del mondo è quella del manoscritto del Corano, regalato, qualche anno fa, dall’Emiro dell’Afganistan allo Scià di Persia. Essa è valutata 750.000 lire, è in oro massiccio, di 7 centimetri di spessore, con sculture simboliche (stelle, mezzelune, ecc.) e 109 diamanti, 122 rubini e 167 perle, scelte fra le più belle e incastonate con vera sapienza da un orefice afgano. ll libro — che ha una prima custodia in un artistico astuccio d’argento — è degno della rilegatura: alto 25 centimetri, copiato a mano su pergamena e riccamente miniato, costituisce un esemplare unico al mondo. È affidato all’archivista del tempio maomettano d’Isnan Ruza, la Città Santa dei persiani, il quale lo sorveglia come una reliquia.

“Marca di Nicola Jenson.”

■ Oltre al legno, alla seta, al raso, alla pergamena (usata molto nel Medio Evo, e tratta, sovente, da opere antiche che, così, poterono ricostruirsi), al cuoio, si adoperarono per la rilegatura, in ogni tempo, pelli di cervo e di daino, di vacca e di maiale, di elefante e di coccodrillo, di foca, di serpe, ed anche pelli umane. Le rilegature in pelle umana sono meno rare di quello che non possa supporsi. Per quanto la cosa sembri enorme, la nostra pelle, sottile, morbida, resistente e di ottima grana, si presta a ciò, meglio di qualunque marocchino e non si distingue dalle altre quando, debitamente preparata, riveste un libro.

“Marca di Gabriele Giolito de Ferrari.”

■ Un negoziante di Cincinnati possiede due volumi rilegati l’uno con la pelle di una ne*ra, l’altro con quella di un cinese. In Inghilterra il dottor Askefft rilegò un trattato di anatomia con la pelle di una strega che era stata giustiziata per assassinio. Nella biblioteca di M. Wyd, ministro delle finanze nel Belgio, esisteva un volume di Opuscoli filosofici e letterari, rilegato in pelle umana: quando quella biblioteca venne messa all’asta, il volume fu venduto per sole venti lire. Nella Biblioteca Nazionale di Parigi si conserva una Bibbia del XIII secolo, rilegata in pelle di donna, e una copia dei Misteri di Parigi di Eugenio Sue, che, come attesta una targhetta metallica attaccata nell’interno della copertina, è ugualmente rilegata. L’astronomo Camillo Flammarion ha una copia del suo Terra e Cielo rilegata con la pelle delle bellissime spalle d’una signora francese, graziosa e civetta, che, in riconoscenza dell’ammirazione di cui l’illustre uomo l’aveva circondata in vita, volle lasciargli in eredità. L’avvocato Leroy fece rilegare le Georgiche tradotte dal poeta Delille, con la pelle dello stesso poeta. Negli Stati Uniti v’è una copia del Viaggio sentimentale dello Sterne, rilegato in pelle di ne*ro, e il Tristan Shandy rilegato in pelle di cinese.


I NEMICI DEI LIBRI.

■ I libri hanno i loro nemici: essi sono l’umidità, i topi, uno svariato numero di insetti ed anche, pur troppo, tutte quelle persone che pare non facciano nessuna differenza fra un nitido volume e un lurido straccio.

“Incisione in legno per la «Divina Commedia». (Dall’ediz. Benali, Venezia, 1491).”

■ I danni che portano alle biblioteche i topi sono molto palesi perché vengano esaminati particolarmente. Quanto agli insetti, il numero è assai esteso. Il tarlo dei mobili divora, con la stessa voracità, la carta. Linneo parla di una larva che saccheggiava le biblioteche nel 1760. Alcuni rapporti francesi riferiscono di insetti che chiocciano come le galline e mangiano le rilegature dei libri nutrendosi con la colla di pasta. Alcune larve bucano le pagine da parte a parte, quasi in linea retta; altre in linea sinuosa, come il baco la foglia del gelso. Il dottor Herminiet, chirurgo della Guadalupa, pubblicò una monografia sui danni di un insetto, da lui stesso chiamato Dermestes hinensis. Questo, insetto gli distrusse 4000 volumi e non potette essere eliminato che mediante il mercurio, con notevole danno degli stessi libri. Forse è il medesimo di cui parla il prof. Poey, di Cuba, che gli dà il nome di Azobium bibliothecarum. Nel 1721 il Frisch indicava un vermiciattolo che vive nel pane rifatto, come feroce distruttore di libri; un altro scienziato parla del tarlo del pane, voracissimo di carta e rilegature, capace di nascondersi perfino nella naftalina e così prolifico che la sua femmina non depone meno di 60 uova alla volta; nei paesi caldi, le termiti, specie di formiche bianche che possono deporre fino ad 80.000 uova alla volta, giungono a smantellare intere biblioteche. Vi sono certi insetti che, col lavoro di una notte sola, possono distruggere tutta una rilegatura.

“Una pagina del «Canzoniere» del Petrarca, stampato a Venezia nel 1470 da Vindelino da Spira.”

■ Quali i rimedi a tanto danno? La cellulosa, entrata nella fabbricazione della carta, il ferro sostituito al legno negli scaffali o i legni dall’odore acuto e penetrante, il cuoio di Russia delle rilegature, rappresentano, certamente, un argine considerevole. Ma occorre difendersi in una maniera più attiva, sia ponendo nelle biblioteche barattoli contenenti essenze che tramandano vapori asfissianti o irritanti, come la trementina, la canfora, il timo, il cloro, il solfuro di benzina e specialmente quello di carbonio, sia sottoponendo i libri a frequenti e minute spolverature. Carlo Nodier disse, molto acutamente, che «la biblioteca dei sapienti laboriosi non è mai attaccata dagli insetti».
■ Ma non soltanto gl’insetti vanno annoverati fra i demolitori dei libri. Per quanto la cosa possa sembrare enorme, in tutti i tempi vi furono uomini che, con scopi più o meno diversi, soppressero tesori bibliografici. Nabonassar, re di Babilonia, nel 747 a. C., per attribuire a sé l’onore di iniziare la civiltà nel mondo, fece distruggere tutte le storie dei suoi predecessori; più tardi, e precisamente nel 213 a. C., l’imperatore della China, Tsin-Chi-Hoang-Ti, ordinò che venissero bruciati tutti i volumi dell’impero, tranne quelli che trattavano della sua famiglia, di astrologia e medicina; Omar, col pretesto che il Corano potesse sostituire tutti i libri, «quando espugnò Alessandria d’ Egitto arse quell’importantissima biblioteca, e la leggenda ci racconta che con quelle fiamme per sei mesi di seguito si poterono riscaldare tutti i bagni pubblici di Alessandria; Leone l’iconoclasta troncò una controversia sorta fra il direttore della biblioteca imperiale e i copisti della medesima, bruciando quello e questi insieme a 36.000 volumi; Leone III, per una bizza contro dodici professori cui non era riuscito ad imporre le proprie opinioni, incenerì 36.000 volumi della biblioteca imperiale; nell’XI secolo la biblioteca dei califfi del Cairo, la più importante dell’impero mussulmano, con 1.600.000 volumi, caduta in mano ai turchi, venne in parte venduta a vil prezzo, in parte utilizzata come combustibile per diversi usi domestici; il cardinal Himenes, ministro di Spagna e grande inquisitore, non ostante fosse un valente letterato e, forse, l’unico divulgatore della letteratura araba ed orientale, per un inconcepibile zelo religioso riunì 5000 libri maomettani sulla religione, sull’arte, sulla scienza, e, senza badare né al valore del testo, né dell’edizione, né della rilegatura, li dette alle fiamme; i Franchi distrussero la biblioteca di Tripoli che conteneva 3 milioni di libri, quasi tutti di teologia; Cromwell incendiò la biblioteca di Oxford.

“Libro assicurato con catena (XV Secolo). (Gand, Biblioteca).”

■ Molte migliaia di volumi scomparvero, però, in incendii che si svilupparono casualmente. Gli incendii distrussero la biblioteca di Cartagine, ricca di oltre 400.000 opere; quella fondata a Costantinopoli da Teodosio il giovane e dotata di 120 mila volumi, ed altre non meno famose.
■ Persone meno illustri non mancano, del resto, di danneggiare i libri nella misura che loro è concessa. Si fa quel che si può…..

“Offizio di formato diamante stampato a Venezia da Giunti (grandezza del vero).”

■ Sotto Enrico III di Francia molti usavano tagliare le iniziali miniate dei più preziosi codici, per collezionarle; nel XVII secolo un calzolaio mise insieme una raccolta di frontespizi strappati alle relative opere, raccolta molto eloquente poiché comprende 100 volumi in folio, oggi proprietà del British Museum.
■ Che dire, poi, di tutti coloro i quali, spinti da un malsano bisogno di esprimere la loro opinione, postillano indecentemente, e spesso sgrammaticatamente, col lapis, talora con l’ inchiostro, i margini dei libri delle biblioteche, degli amici? Che dire di coloro che, senza alcuno scrupolo, per non avere il piccolo o grande fastidio di prendere appunti, colgono il momento favorevole in cui nessuno li sorveglia e strappano dai libri, che hanno in esame, intere pagine ? Sono nemici formidabili, poiché non solo deteriorano un’opera, ma rendono spesso impossibile ad altri di consultarla.

“Alessandro Vittoria: rilegatura del Breviario Grimani.”

■ I bibliofobi cominciano qui. E vanno aumentando col concorso di tutte quelle persone per le quali i libri hanno un valore unicamente quando se ne può cavar subito danaro (come gli eredi di un bibliofilo capaci di vendere un’opera in più volumi fra diversi acquirenti); con la signorina che ne rovina le pagine disseccandovi i fiori; con la buona massaia che, tanto per mettere un po’ d’ordine nella libreria di casa, cede per pochi centesimi al chilogramma, al più vicino erbivendolo, quelli che non sempre (alcune volte sì….) meritano tale sorte; con le signore tutte che ne fanno strazio, sfasciandone senza pietà il dorso, ciancicandone le pagine.

“Un mercante ambulante di libri del XV Sec. – Disegno di Andrea Bouveyre, da una stampa del tempo. – Parigi, Museo Carnavalet.”

■ Ma per fortuna il libro ha più amici che nemici, e si avvia a riconquistare, sotto tutti gli aspetti, il prestigio che, nei tempi passati, seppe mantenere così alto.”