di G. Armellini.
Da Sapere, Anno I, Volume I, N. 1, 15 gennaio 1935.
“Scopo di questo articolo è di dare un’idea chiara e precisa sopra lo stato attuale di una quistione che, nel passato, ha grandemente appassionato gli studiosi: quella dell’espansione dell’Universo.
Avvertiamo subito che non ci proponiamo, in nessun modo, di meravigliare o suggestionare i lettori, giacché il mondo sidereo è così bello e così pieno di misteri che sarebbe follia voler aggiungervi qualche nuovo ornamento artificiale. Seguiremo dunque la via semplice e piana — ma insieme anche perfettamente sicura — del ragionamento scientifico e se alcuni fronzoli cadranno per via, e la realtà risulterà forse un po’ differente da quanto molti lettori s’immaginano, tutto ciò tornerà a beneficio della scienza e della verità.
E, ciò detto, entriamo subito in argomento, senza altri preamboli.
Tutti conoscono le nebulose, meravigliosi oggetti celesti che, osservati col cannocchiale in una bella notte serena, appariscono come piccole nubi bianche o azzurrognole. Gli astronomi le hanno divise in due classi: nebulose galattiche e nebulose extragalattiche.
Le prime — così chiamate perché appartengono alla Galassia, o Via Lattea, e cioè al grande sistema stellare di cui fa parte anche il nostro sole — sono generalmente vere nubi gassose, composte d’idrogeno, di elio, di ossigeno ecc. ed insieme, forse anche, di pulviscolo cosmico e di sciami di meteoriti. Citiamo, come esempio, la Nebulosa di Orione, una delle più belle del cielo, visibile anche ad occhio nudo. Le seconde — così dette perché poste fuori della Via Lattea e quindi immensamente distanti da noi — sono colossali sistemi cosmici, risultanti dalla riunione di milioni di stelle, di ammassi gassosi, di sciami meteorici ecc.; in una parola, sono sistemi cosmici molto simili alla nostra Via Lattea e che gli astronomi moderni — con locuzione non molto esatta, ma espressiva — chiamano spesso Universi Isolati. Per cause non ancora interamente note — poiché le spiegazioni elementari che se ne dànno, non soddisfano ad un esame approfondito — questi sistemi assumono spesso la forma di una lente biconvessa, dal cui bordo partono, da punti opposti, due grandi braccia (composte sempre di stelle e di ammassi gassosi), che si avvolgono intorno a modo di spirali. Il sistema si chiama allora nebulosa spirale e l’esempio più conosciuto lo abbiamo nella celebre Nebulosa di Andromeda. visibile con un binocolo od anche ad occhio nudo, nella costellazione omonima.
Premessi questi cenni, immaginiamo di osservare con lo spettroscopio una nebulosa extragalattica. Poiché la nebulosa, come abbiamo ora detto, risulta principalmente dalla riunione di milioni di stelle, noi vedremo uno spettro stellare; cioè uno spettro simile a quello del sole e quindi composto da un fondo luminoso, il quale è rosso ad un estremo, violetto all’estremo opposto, ed è solcato da numerose righe oscure, che sono appunto le righe di Fraunhofer. Come è notissimo, queste righe sono prodotte dall’assorbimento della luce dovuto ai gas contenuti nell’atmosfera che circonda le stelle e la scienza insegna ad individuare le righe dell’idrogeno, quelle del sodio, quelle del calcio, quelle del ferro ecc. Potremo quindi conoscere facilmente gli elementi chimici contenuti in quei mondi lontanissimi; ma possiamo ancora ricavarne un altro risultato. Infatti un celebre teorema di fisica, dovuto a Doppler, insegna che se una sorgente luminosa si allontana da noi (e cioè, in linguaggio scientifico, ha velocità radiale positiva) tutte le righe appaiono spostate verso il rosso, proporzionalmente alla loro lunghezza d’onda ed alla velocità di allontanamento; se invece la sorgente si avvicina a noi (velocità radiale negativa) tutte le righe appaiono spostate verso il violetto con analoga proporzione. Ne segue che lo spettro ci fa conoscere non solo la composizione chimica, ma anche la velocità radiale. Esaminando in tal modo lo spettro della nebulosa di Andromeda e quello di alcune altre nebulose extragalattiche più importanti, Slipher ed altri astronomi dell’osservatorio Lowell avevano trovato che queste nebule si allontanano generalmente da noi con grandissima velocità; ma, sul principio si trattava di pochi casi isolati e la cosa passava quasi inosservata. Nel 1922 però i “casi” erano saliti a 40 e crescevano di anno in anno, finché nel 1929-1930 l’attenzione del pubblico venne richiamata da una serie di memorie di Hubble ed Humason, apparse negli Atti dell’Osservatorio.di Monte Wilson. In queste memorie, i due astronomi esaminavano gli spettri di oltre ottanta nebulose extragalattiche, mostrando che le righe spettrali erano sempre e fortemente spostate verso il rosso. [Per essere precisi, occorre notare che nella maggior parte dei casi si tratta di due sole righe e cioè la H e la K del calcio, giacché tutte le altre righe sono praticamente invisibili.] Misuravano questo spostamento e, servendosi del teorema di Doppler, ne deducevano che le nebule si allontanano da noi con velocità radiale sempre fortissima e che in alcuni casi (ad esempio per una nebulosa del Leone) giungeva a ventimila chilometri al minuto secondo. Infine calcolavano la distanza delle nebulose esaminate, paragonandola con la velocità, formulavano una legge di grande importanza e cioè che la velocità di allontanamento delle nebulose è proporzionale alla loro distanza; e precisamente il ‘tasso’ di velocità veniva fissato a circa 550 chilometri al minuto secondo per ogni milione di parsecs di distanza, equivalendo il parsec a 3,26 anni-luce.
Ma l’interesse del pubblico divenne ancora più vivo per una fortunata circostanza che aveva di poco preceduto la pubblicazione di queste memorie. E cioè, De Sitter nel 1917 e più completamente e generalmente Friedman nel 1922 e l’abate Lemaître nel 1927, prendendo come basi di ricerca le equazioni generali della Relatività di Einstein, dimostravano che il “raggio dell’Universo” non rimane costante, ma varia col tempo. Ora, se aumenta il raggio dell’Universo tutte le distanze variano in proporzione; precisamente come se si gonfia un palloncino elastico (ripetiamo un vecchio esempio) e se prendiamo due punti qualsiasi sopra la superficie, la loro distanza aumenta in proporzione della distanza stessa, o, in altre parole, i due punti si allontanano con velocità proporzionale alla loro distanza, precisamente come le nebulose. La scoperta astronomica di Hubble ed Humason fu quindi ritenuta come una piena conferma di questi risultati ed immediatamente sorse la Teoria dell’Espansione dell’Universo: teoria che suggestionò il pubblico e che riviste e giornali diffusero rapidamente in tutto il mondo civile.
Oggi, a pochi anni di distanza, l’entusiasmo si è affievolito e — almeno in molte menti più positive — il dubbio è succeduto all’antica certezza. Quale la causa? Intanto, ad un esame più approfondito, il fenomeno risulta assai meno semplice di quanto sembrerebbe a prima vista ed anzi l’esempio popolare del palloncino che si gonfia — esempio sempre citato e che abbiamo ricordato poco fa — risulta, in realtà, abbastanza… capzioso. Infatti, nel caso del palloncino, c’è uno spettatore che sta fuori di esso, che possiede un metro invariabile e che con questo può misurare la distanza di due punti, presi sopra l’involucro, e constatare quindi che essi si allontanano tra loro. Invece se si dilata il raggio dell’Universo, allora — tranne particolari condizioni di ambiente, da studiarsi caso per caso — tutti i corpi si dilatano nella stessa proporzione. Ne segue che se noi potessimo misurare con una gigantesca fettuccia metrica la distanza di una nebulosa extragalattica e potessimo quindi ripetere l’esperimento alcuni anni dopo, troveremmo esattamente la stessa distanza, perché la fettuccia si è allungata, anche essa, nell’identica proporzione. In altre parole, le nebulose extragalattiche si allontanerebbero senza allontanarsi!
I sostenitori della teoria rispondono che la dilatazione può non essere uniforme in tutto lo spazio, ma allora si entra in altre difficoltà. Infatti i calcoli di Friedman e di Lemaître si riferiscono ad un “Universo ideale” omogeneo, dove la materia fosse uniformemente distribuita in tutto lo spazio: se passiamo da questo Universo ideale a quello reale, l’esempio del palloncino non ha più valore e quindi l’obiezione cessa: ma disgraziatamente non valgono più nemmeno i calcoli di Friedman e Lemaître. Ma andiamo innanzi.
Dopo le ricerche di Hubble ed Humason, che abbiamo ora citato, gli astronomi hanno voluto slanciarsi più in là a centinaia di milioni di anni di luce. A dir vero, a queste favolose distanze, le nebulose isolate sono praticamente irraggiungibili; ma, col riflettore di Monte Wilson e con lunghe esposizioni, si riesce ancora a fotografare alcuni clusters nebulari e cioè alcune gigantesche famiglie, composte ognuna di centinaia di nebulose raggruppate tra loro e di cui le più importanti si trovano nelle costellazioni del Leone e della Vergine ed in quella della Chioma di Berenice.
Eseguite le misure spettroscopiche e calcolate le distanze si è trovato un ‘tasso’ di velocità ben differente e cioè di soli 400 chilometri per ogni milione di parsecs di distanza. Ci troviamo quindi di fronte ad un dilemma e cioè: 1) o le nuove misure sono errate; 2) oppure è errata la teoria della espansione dell’Universo, poiché le velocità non sono proporzionali alle distanze, come si era creduto nel 1929-30.
Qualche dotto, ad es. Knox Shaw, ha preso in considerazione la prima ipotesi, che del resto è possibile, giacché il calcolo delle distanze dei clusters nebulari risulta pieno di difficoltà e poggia anche su basi non interamente sicure. Ma la grande maggioranza degli astronomi sembra favorevole alla seconda alternativa, giacché nulla appare meno scientifico quanto il rigettare delle osservazioni (sia pure difficili ed incerte) per far piacere ad una teoria.
Oggi dunque la scienza, mettendo da parte — o almeno considerando come “sospetta” — la teoria della espansione dell’Universo, cerca altri modi di spiegare ciò che costituisce il fatto fondamentale ed indiscutibile delle osservazioni; e cioè che le righe spettrali delle nebulose extragalattiche sono fortemente spostate verso il rosso e tanto più quanto è maggiore la loro distanza, sebbene non vi sia esatta proporzionalità.
Di spiegazioni se ne sono già trovate parecchie, alcune delle quali suppongono che la velocità di allontanamento delle nebulose sia reale, mentre altre la considerano come una semplice apparenza.
Esaminiamo brevemente le une e le altre.
Tra le spiegazioni della prima categoria abbiamo:
1) L’ipotesi di Eigenson, fondata sopra la trasformazione progressiva della materia in energia.
Come è noto, secondo la fisica moderna, le stelle irradiano calore a spese della loro massa, che quindi diminuisce continuamente. Ne segue che anche la massa della Via Lattea e quella delle nebulose extragalattiche, diminuirà col tempo, indebolendo insieme la reciproca attrazione. Si dimostra allora, col calcolo, che le nebule tenderanno ad allontanarsi da noi ed anzi che la velocità di allontanamento crescerà con la distanza. La teoria sembrerebbe accettabile, ma lo scrivente ha ora calcolato che, per giungere ad un tasso di 400-600 chilometri per ogni milione di parsecs, la diminuzione di massa dovrebbe essere così forte che ogni grammo di materia stellare produrrebbe più di diecimila calorie all’anno. Le osservazioni mostrano invece una produzione di calore estremamente più debole; p. es. nel sole, ogni grammo di materia produce appena due calorie all’anno! La teoria di Eigenson deve dunque essere rigettata.
2) L’ipotesi della repulsione cosmica ispirata dalla Teoria di Relatività e sostenuta specialmente dal Vogt, secondo cui, oltre alla forza d’attrazione scoperta da Newton, vi sarebbe anche una forza repulsiva che crescerebbe con la distanza. Si trova allora che, per grandi distanze, la repulsione vincerebbe l’attrazione e ciò produrrebbe l’allontanamento delle nebule.
3) L’ipotesi cosmogonica, secondo cui le nebulose si sarebbero formate, presso a poco, contemporaneamente ed avrebbero avuto all’inizio velocità differenti. Quelle con velocità radiale negativa (e cioè di avvicinamento) avrebbero raggiunto la Via Lattea e si sarebbero confuse con essa, mentre quelle con velocità radiale positiva (di allontanamento) si sarebbero disperse nello spazio; ovviamente la loro distanza odierna risulterebbe grossolanamente proporzionale alla velocità con cui si sono allontanate.
Questa ipotesi, sostenuta da Burns, da Milne ed indipendentemente da molti altri, merita considerazione per la sua estrema semplicità.
Tra le spiegazioni della seconda categoria, notiamo :
1) L’ipotesi di una perdita di energia dei fotoni che attraversano lo spazio.
Come è noto, i fotoni, o “quanti di luce” hanno un’energia inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda della luce concomitante. Se supponiamo quindi che i fotoni, che ci giungono da una nebula, perdano parte della loro energia (p. es. per urti con elettroni o simili cause), la lunghezza d’onda aumenterà e quindi le righe spettrali appariranno spostate verso il rosso. Si comprende pure che, essendo la perdita tanto maggiore quanto è maggiore la distanza attraversata, lo spostamento delle righe verso il rosso crescerà in proporzione. Questa teoria, secondo cui la velocità di allontanamento delle nebulose si riduce ad una pura apparenza, è una delle più interessanti e delle più probabili ed è stata sostenuta da scienziati di grande valore, come Belopolsky, Comas Sola, MacMillan, ecc.
2) L’ipotesi della contrazione del tempo, molto interessante e meritevole di essere conosciuta.
Per comprenderla, notiamo che la luce che ci giunge da una nebulosa extragalattica è partita evidentemente da un intervallo di tempo tanto maggiore quanto è maggiore la loro distanza. Se noi supponiamo che, in questo intervallo, i fenomeni naturali si siano accelerati — e cioè, in linguaggio sintetico, che il tempo si sia contratto — è evidente che, a parità di condizioni, le odierne lunghezze d’onda risulteranno minori dell’antiche. In conseguenza quando noi paragoniamo lo spettro di una nebulosa con gli spettri che otteniamo odiernamente nei nostri laboratori (e cioè paragoniamo luce “antica” coni luce “moderna”) troveremo tutte le righe spostate verso il rosso, attribuendo erroneamente alla velocità un effetto che è dovuto invece all’accelerazione dei fenomeni naturali.
Tale è lo stato attuale della questione, che abbiamo cercato di riassumere chiaramente — e soprattutto oggettivamente — in queste poche pagine. Come i lettori veggono, l’espansione dell’Universo è oggi ben lungi dall’essere dimostrata; siamo ancora in alto mare ed anzi, volendo essere completamente sinceri, l’astronomia dovrebbe ripetere in proposito, sulla questione, il celebre detto di Socrate: Hoc unum scio; me nihil scire.”