di Anton Giulio Bragaglia.
Da La Donna, Anno X, N. 231, 5 agosto 1914.
“Il cagnolino maltese abbaia con squillante vocina tanto piena di grazia. Abbaia di nuovo acutamente e s’agitano le ricche tende cingenti il gran letto in fondo. Un delicato braccino, sperduto fra le trine, si vede allora, mentre un campanello risuona nelle stanze più lontane.
Ecco la cameriera ben pettinata e civettuola, che entra, con melodiosa voce e con gesto grazioso dicendo alla bella destata, che ride un bel sole d’oro. Ed ecco che la bella sbadiglia soavemente, lamentandosi di una notte penosamente trascorsa.
Le tende vengono spostate e gli scuretti vengono meglio aperti.
La luce meridiana filtra a curiosare nella profumata stanza, mentre la damina, dolcemente velata dal recente sonno, si coccola ancora un poco nel molle tepore del letto.
Poi la cameriera porta la cioccolata.
Nice gentil s’appresta quindi al sacro della bellezza amabil rito, mentre nelle stanze adiacenti al tempio, i galanti amici della dama, aspettano di essere inoltrati.
Qui, dove in cura alle ridenti Gratie
T’attende l’odorifera toletta,
Vieni, o Nice gentil. L’ampio t’avvolgi
Batavo lin, cui sull’eburneo collo
Lento e sottil purpureo nastro annoda.
Vieni e t’assidi, e mentre al tuo Lesbino,
Lesbin del dotto pettine maeftro,
La sparsa affidi et incomposta chioma.
Soffri che anch’io vicin ti sieda e al sacro
Della bellezza amabil rito assista.
Intanto la ninfa è entrata, vestita di un accappatoio tanto deliziosamente negligé, e gli amici, mormoranti di ammirazione, vengono allora introdotti.
Il gabinetto di toilette è fragrante di essenze. I complimenti più poetici vengono pronunziati per le squisite grazie della gentile, che si siede innanzi all’abbigliatoio, mentre lo stuolo delle damigelle e degli adoratori con elegantissimo gesto le porgono le cento specie di oli e di pomate.
Un abatino narra la sua ultima avventura amorosa ad alcuni giovani cavalieri spiritosi ed eleganti.
Il lever è bene iniziato quando si annunzia il cavalier Violetto.
— On! Venga il cavalier Violetto!
— La gioia di queste ornatissime stanze è quella di godere un sole più ridente che Febo! I miei omaggi, bellissima Nice.
— Qual fortuna, D. Violetto, ci fa godere la vostra presenza? E la bella Serina?!
— Miglior gioia è con voi, Nice! — volgendosi al preferito. — E ben sa Monsignore, i «lacci vostri».
— Siete grazioso cavaliere, ma la leggiadra Serina?
— Agli amici — Oh, sapete Monsignori che ha gli anni di mia madre? È ben noto del resto. Per questo pare una statua antica, con tutti quei restauri!
Cavaliere Violetto, non è con la polvere di Cipro che si fan belle le donne! Perdonate se’l dico, Violetto, ma ove la Serina non offrisse una ben ricca imbandigione ai suoi amici, assai pochi adoratori ella avrebbe!…
— Vedo, Nice, che la vostra toeletta è assai bene fornita di pomate e di oli, e, insieme, ammiro la sapienza di Lesbino squisito…
— Siete scaltro, cavaliere, ma pur è bene sappiate sì come a le mie carni è sol piacere e non bisogno l’uso di pomate. Non ho io rughe da celare! Or ora son uscita dalla stanza, lo vedete come sono!
— Ho inteso di elogiare l’eleganza del vostro abbigliatoio… Mi sarei ben guardato!…
— Conoscete voi l’Argia? È color della cenere quando si leva!
— Mi si perdoni, ma l’ho vista io!… È rosea!…
— Allora dorme col rossetto ancora sul viso — interrompendosi. — Ah, cavaliere Violetto, voi guardate il mio cappello! Non riferirete a Serina la mia nuova acconciatura. Nessuna dovrà averne l’eguale! Argia, Rosaura, Serina, troppo peneranno per ottenerne una così bella!…
— Si annunzia il medico.
— Godo della vostra floridissima ciera, Nice.
Intanto il dottor Lesbino attacca i néi sul bel viso.
Il momento è solenne. Un cavaliere che da un ben comodo posto assiste all’opera elegante, la commenta, mostrando una competenza ben raffinata…
Poi la bella si veste. Quella cuffietta non le è adatta. Quell’ altra neanche. Nice batte i piedi in terra, deliziosamente piagnucolando. L’abatino dà il suo parere, e gli occhi di Nice sorridono di soddisfazione.
Nessuno ha così squisito buon gusto da superare l’abate Eufemio.
I motti arguti e galanti e spiritosi, si intrecciano tra le risatine più corrette.
L’opera dei consiglieri della toilette si svolge felicemente, con garbo ineffabile e con risultato portentoso.
I pettegolezzi piccanti infiorano i graziosi conversari dei zelantissimi cicisbei, e la prima delle tre quotidiane composizioni di un bel volto forse è terminata.
Entra il mercante di libri offrendo le interessanti opere giunte da Parigi: Le Gratie d’amore, L’Enciclopedie des dames, Le Canzonette del signor Abate Metastasio, Gli Almanacchi, La vie d’une dame de qualité. Si canticchia un’arietta di moda. Un ardito ha fatto modulare al clavicembalo un motivetto languido. Gli si fanno intorno gli altri, cortesemente esortando.
Entra la mercante di mode: nastri, falbalas, blondes, dentelles, broderies, bracelets, bagues, bouquets, convenances, pompons, pedands, auguilles de téte, bijoux…
Il cicaleccio diventa chiacchierio. Ognuno dice la sua e vuol farla preferire. L’abatino è ascoltato come un oracolo. La damina dalle occhiaie profondamente dipinte è pronta a muovere le labbruzze rosse anche prima che l’abatino abbia finito,..
Ci voglion pomate
ci vuole rossetto
ci vuole belletto
con l’acqua d’odor;
Ci vogliono fiori,
pennacchi, cappelli,
posticci capelli;
ci vogliono ancor…
La mercante esce soddisfatta, con le sue ceste cariche di sì preziose cose.
Si avvicina l’ora in cui la damina, con distinta grazia, congederà ai cicisbei, essendo finita la toilette.
Intanto il signor marito non si vede.
Signore mie, la questione del marito è certo interessante, e, per me… imbarazzante. Peraltro dobbiamo esaminarla, onde non circondare di un non desiderato mistero, così degno personaggio. Il marito, in quel secolo curioso, era proprio costretto a… trascurare la consorziale dignità per l’ambiente stesso che lo circondava, usando dei costumi che su quel punto di vista erano… trascurati. Lo seppe Goldoni che ci pensò tanto a «maritarsi»!
Il cavalier servente, che il marito per necessità di cose doveva concedere alla propria moglie, onde non appaiarsi con un qualunque ignobile plebeo, pretendeva bene la famigliarità intima, quella che per noi è scandalosa, pure se non costituisce niente… di grave.
Così la parte che un marito faceva meno di tutte, era quella del marito.
Il matrimonio, in questo modo, finì per essere considerato come un ozioso atto accademico che aveva la sola qualità di portar legami noiosi. Poiché se un marito faceva il viso energico, allora era un guaio; mentre là dove si mostrava cortese e non curante gli veniva solo fatta, la testa grave e pesante… dai pensieri, s’intende.
Goldoni scrisse:
Che guadagnano i mariti
con le dame a trovar liti,
con la moglie a taroccar?
Guerra in casa, guerra in letto
e l’amor divien dispetto
e la bile fa crepar!
Con questo, la massima… superiorità, da parte di lui…
I ganimedi trionfavano e, del resto, anche i mariti, fattisi ganimedi, o meglio senza cessare di esserlo con il matrimonio, frequentavano al mattino i gabinetti di toilette delle languide Filli.
Abbiamo veduto come l’acconciatura del capo fosse per quel secolo un ben grave affare. Si consideri che le dame spendevano intere sostanze e intere giornate per acconciarsi. Persino di Pasqua, dice Goldoni in un suo almanacco:
In sì gran giorno, una gentil contessa
al parrucchier sacrifica la messa.
I parrucchieri, tutti francesi, perché la moda pretendeva che solo essi possedessero con vera sapienza la sublime arte del pettine, erano ricercatissimi al pari dei ballerini. E, come questi, compresi dell’importanza del loro altissimo ufficio, si davano le più altezzose arie.
Da gran monsù elli veste
e l’orologio i gha
i marcia sgonfii e duri
che i sbocchiarave i muri
co la so gravità;
perché i sa far le creste
e el fronte un poco alzà
i xe chiamai de tute
zovene, bele e brute
e i core qua e là
per questo elli si crede
de aver gran nobiltà
nel trato affettatissimi
et titol de illustrissimi
i vol che ghe sia dà.
E non c’era alcuno, tra i ganimedi adoratori, che non li chiamasse illustrissimi…
I parrucchieri, infatti, proteggevano con bel tono lalcuni di oro, ed erano utilissimi, perché assai ben tagliati a fare di quel genere di favori…
Qualcuno però non si lasciò sfuggire l’occasione di poter lui stesso fruire dei doni offerti dalla fortuna, tanto che quel briccone di Casanova trovò nel Carcere dei Piombi proprio un coiffeur, che scontava la pena di una colpa di quelle.
È proprio impossibile parlare brevemente delle acconciature piramidali che ornavano fantasticamente le testine delle dame settecentesche perché nello scarso spazio si resterebbe con la voglia di guardare ancora altri figurini curiosi, e di sapere ancora altri fattarelli.
Basti dire che un bel giorno non si trovarono più carrozze alte tanto da poter contenere una dama seduta col proprio monumento sul capo!
La cipria, poi, era usata con una sovrabbondanza tale da sbalordire, sì che, aggiunta agli altri ingredienti, come gli oli, le pomate, i belletti, i néi, ecc., finiva col costituire, sul viso della dama, una maschera vera e propria.
Quando poi andarono di moda le mouches, di carta e di taffetà, allora lo spettacolo divenne davvero comico. I visi parvero zodiaci, tanto erano costellati di pezzetti. Ogni dama portava con sé un piccolo bossolo pieno di mouches, onde potersele riattaccare sul viso quando cadevano. E, secondo il posto dove si trovavano, le mouches venivano a significare una cosa diversa, tanto che si chiamavano diversamente.
I néi erano tagliati a forma di luna, di stelle e di comete, e una dama non ne portava meno di una diecina. Come oggi le signorine conoscono il linguaggio dei fiori, allora sapevano il linguaggio dei néi. All’angolo degli occhi essi volevano indicare passione, nel mezzo della guancia galanteria, sul naso sfrontatezza, vicino al labbro dardo infuocato, vicino alla gola amore fino all’ultimo respiro.
Non si capisce una cosa però: la ragione che spingeva le dame a dire a tutti le proprie tendenze o le proprie caratteristiche piuttosto… intime!
Quando si attaccava un neo, abbiamo veduto che si faceva un religioso silenzio, affinché il dotto Lesbino potesse
…or presso alle tempie ed or vicino
al vermigliuzzo tumidetto labbro
or su la molle alabastrina gota
la nera macchia collocar con arte.
Poiché i néi, gustatissimi allora, dovevano dare grazia, freschezza e fascino ai visi delle damine, facendone risaltare l’incipriato candore e la leggiadria già curata dai mille cosmetici.
La costituzione di una Biblioteca da toeletta era così un problema assai imbarazzante per un marito che, nonostante la noncuranza di moda, doveva anche allora pensar lui a risolverlo.
Un almanacco di moda portava, ad esempio, una nota di almeno 200 ingredienti necessari: Acque 43, spiriti 19, essenze 16, allumi 5, spugne 4 qualità, pomate 34, olii 11, aceti 5, paste 6, saponette 16, polveri 23, rossetti 13, guanti e manopole 20, néi o moschetti di velluto, di raso, di taffettà, polveri da denti 15, scatole, sacchetti odorosi, 6, latte verginale 3, pastiglie per profumare l’alito 10. E tra questi ingredienti si leggevano in cinque pagine di un altro Almanacco alcuni particolari come i seguenti: Acqua di citriuolo, di luzé, di fava, del pot-pourri, acqua di vita semplice, di gaiaco (!?), d’iride di Firenze. E spiriti: di succino volatile e di coclearia. Ed essenze: di citriolo, di Ben, di anitra. E spugne pei denti e per la barba (!). E pomate: di piedi di montone (!), d’orso annegato, di punta d’orecchi. E guanti: di bufalo, di vitello marino, di cane, ecc. E per i denti, le radici di guinava (!?). Tutti ingredienti per i quali, purtroppo!, nessuna enciclopedia è utile, di guisa che, noi poverini, siamo condannati oggi ad un supplizio di Tantalo veramente nuovo, non potendo gustare la conoscenza di siffatti meravigliosi cosmetici.
Con questo, però, vediamo quale fantastica erudizione in riguardo alla toilette, doveva avere allora una dama de qualité.
Si legge in un almanacco del 700, intitolato «Il collegio delle marionette» che è necessario istruire una pulzella in molte scienze e, per esempio, nell’architettura, perché questa le gioverà molto nella costruzione di sé stessa e farà sì che appaia ben edificata ed organizzata nelle necessarie montagne di ornamenti sì da sembrare un mirabile edificio vivente. E parimenti lo studio della scultoria darà modo alla giovine damina di plasmarsi un bel corpo, e quella della pittura, le sarà necessario, perché l’istruirà nell’usare il minio, la biacca, gli olii, le gomme e i néi:
nero taffettà che segna e imprime
d’un più vivo color le rose e i gigli
di bella guancia:
mentre :
L’ingegnoso Lesbin che ognor seguendo
le nuove leggi che l’ardita Francia
a gli italici petti oggi prescrive,
sa con sì destra e poderosa mano
sull’ordin varia edificar la chioma.
Il tempo in cui il Buffon diceva che «l’habillement est une partie de nous mémes» trionfava: ma pure c’era qualcuno che non condivideva il parere del Buffon ed esasperato specialmente dai nèi, chiedeva:
Qual fine, o donne, e qual desìo v’inchina
A quel bollarvi a nere marche il fronte?
Saper dovreste pur che per affronte
ciò fossi a chi fu posto alla berlina.
Ma meglio ancor intenderla mi pare,
facendo riflession che i bollettini
s’attaccano alle case d’affittare!…
E qualcun altro meno feroce ma più fine, esclamava rivolto ad una graziosa dama:
Tela dipinta mia, con ragion dei
«Pezzo di Paradiso» esser chiamata,
ché — non soggetto a carne — agli occhi miei
sembri di puro spirito formata.
Ma il puro spirito, forse, era una esagerazione per una tela dipinta; tanto più che il paragone di questa era ottimamente trovato perché le tele si ingessano prima come le dame settecentesche si stuccavano la pelle. Nel n. 37 della Gazzetta Urbana Veneta del 1792, si leggeva, infatti, questa réclame:
«Dal muschiere vicino all’orologio, dirimpetto al negozio Calvi si dispensa il vero Bianchetto di Francia, che non nuoce né alla pelle, né ai denti, non entrandovi in esso né biacca, né mercurio, ed essendo di una finezza e d’una candidezza insuperabile. Il più convenevole ed efficace modo di adoperarlo è di stenderlo sulla palma della mano onde si imprimi nella pelle del viso e vi conservi per lungo tempo la sua bianchezza senza staccarsi (!!)».”