di S. di Giacomo.
Da Emporium, Vol. LIX, N. 349, gennaio 1924.
“Roma, due volte — se il ricordo di quel tempo d’anteguerra non mi s’è annebbiato — ho avuto l’onore di conversare di cose che garbano agli studiosi o agli artisti con quella fine, colta e nobile donna ch’è la contessa Pasolini. Una volta, la prima, mi accompagnò a quella signorile e ospitale casa nel palazzo Sciarra il Pascarella, e tanto della casa e dell’accoglienza sì piacquero la Musa dialettale del Tevere e quella del Sebeto da non opporsi al grazioso invito a una colazione che certo sarebbe stata, come fu, assai lontana dall’abito dell’umile merenda vernacola. La benevolenza delle Minerve che anche li proteggono s’induce spesso a preparare a’ poeti, appartengano pur essi a un succinto Parnaso, di simili saporosi trattenimenti.
Era intorno a quella candida tavola bandita con copiosa ospitalità pantagruelica tutta la cara famiglia Pasolini: cara agli uomini di lettere per l’alta e costante comunione che da tempo sapeva mantenere con essi: cara agli artisti che ne conoscevano l’amabile buon gusto, l’amicizia e la protezione: cara pur ad uomini politici che talvolta venivano qui a rifarsi della freddezza della loro scienza e quasi a rivestirsi, a ricomporsi di sincerità. La contessa Pasolini, narratrice e colorita rievocatrice, sempre fervorosa in quelle sue vivaci discussioni, sempre o ideatrice o fomentatrice di cose nobili e opportune, ripigliava poi nel vasto suo salotto qualche tema intorno al cui spunto, tra una portata e l’altra, ella s’era aggirata co’ suoi commensali. Quella volta, come, tra tante cose, s’era chiacchierato di libri, di biblioteche, del secolo decimottavo e di alcune sue suggestive e pur pratiche espressioni ornamentali, da un tavolinetto barocco, che aveva a portata di mano, la signora tolse e ci mostrò, sorridendo e compiaciuta, un mazzetto di ritagli di carta greve, su ciascun dei quali era lo stampo multicolore e imitativo d’ una stoffa un po’ rossa ma di vivace tonalità e di piacevole combinazione di disegno.
— È un minuscolo campionario delle carte Remondini, e suppongo che le conosciate.
Certo, le conoscevo, e me ne rifornivo a quando a quando. Le avevo adoperate e continuavo ad adoperarle per le coperture de’ miei libri, per quelle, anche, di parecchi volumi della Lucchesiana, per le cartelle che ne serbano i manoscritti e gli autografi, e in casa, ancora, per foderarne qualche cassetto della scrivania o d’un canterano.
Ma dove ora si continuava a stampare quei caratteristici e curiosi fogli che fin dai primi decennii del settecento erano penetrati in tutte le case veneziane e occorsi a tanti lieti usi decorativi? La storia della loro origine m’era sconosciuta, e davvero mi seccava un poco di non poterla narrare a quanti, come me, s’ invogliavano, e io stesso invogliavo, a provvedersi di quelle carte. Forse la contessa me l’avrebbe esposta, se altri argomenti, quella volta, con l’arrivo di altri visitatori, non l’avessero distolta: ora si discorreva di scoperte archeologiche, della difesa del paesaggio, delle ultime pubblicazioni d’arte e di letteratura — e la mia curiosità peculiare n’era travolta. Forse, se avessi protratto o replicata la mia visita, la illustre e buona signora mi avrebbe detto per quali ragioni ella si interessava così affettuosamente a quelli stampi Remondiniani che per me, come per tutti gli appassionati del secolo di Goldoni e di quel rompicollo che fu Giacomo Casanova, costituivano, tra’ moltissimi, un de’ più aggraziati documenti del gusto inventivo dell’epoca. E forse io avrei potuto scorrere in quel punto la lettera di cui or ora ho copia e in cui il professor Martello metteva a giorno la Pasolini del bel passato di quella famosa Casa Remondini, una parte della cui scampata produzione ultimamente le capitò in possesso.
Al padovano Giannantonio Remondini che intorno al 1649 cominciò a stampare e vender libercoli di devozione, risale la non certa fastosa origine della Casa. Giannantonio – come forse accadeva pur a Napoli di quelli anni, e a Venezia e in altre principali città e più folte — ebbe l’ umile officina che parimenti i nostri impressori di San Biagio dei Librai e quelli di Venezia occuparono in qualche scura botteguccia d’un vicolo o d’ una stradicciuola popolana.
Gli bastò pel momento un picciol torchio e di quello usò, e di pochi caratteri rozzi, per stampare gli opuscoletti in sedicesimo sul cui frontispizio appariva quasi sempre l’ immagine d’un Santo venerato, di cui l’opuscolo intesseva in poche pagine le lodi. Passarono vent’anni: la stamperia del Remondini — ormai possiamo chiamarla così — s’era accresciuta, dilatata in nuovi locali, fornita di nuovo e più copioso materiale, affollata di garzoni compositori e frequentata, con parecchio suo vantaggio, da letterati e professori. Breve, nel 1670 ecco itorchi tipografici di Giannantonio diventar dodici, e da quelli, che non gemevano più pe’ Santi e per i beati, spuntar fuori nientemeno che un dizionario: il famoso calepino di Cesare Calderino, nelle cui fitte e larghe pagine ficcavano avidamente lo sguardo gli scolaretti del tempo.
Lanciata, come si dice, la stamperia, accresciuta la sua fama ogni giorno, accresciuto il suo fecondo lavoro, il lucro del Remondini andò così aumentando pur esso che al 1711 l’ottimo Giannantonio poteva lasciare a’ suoi figliuoli una sostanza di centocinquantamila ducati in terre e case, la stamperia ch’era salita al valore di oltre seicentosessantamila lire, e alcune officine di panni di lana e di seta che ne avevano uno superiore alle settecentomila.
Quale talento di commerciante possedesse l’attivissimo e intraprendentissimo Giovanni Antonio Remondini — il cui nome si legge su centinaia di libri editi qua e là nel Veneto — è facile immaginare: la sua filosofia mercantile e la sua prudenza s’esprimono per altro, e chiaramente, da questo ch’è un de’ comma del suo testamento e che non ha bisogno di glosse:
«Esorto et impono alli miei Figliuoli et a tutta la Posterità che non facciano mai sicurtà alcuna nisi inter fratres, et che parimenti non s’ingeriscano mai in alcun manegio di danaro pubblico, Commissarie e altre Casse, né in materia di Dazi, Appalti o altro dipendente in qual si sia modo e forma, altrimenti siano tuti e cadauno rispettivamente, et in perpetuo, et qualunque volta succedesse la contravenzione privi di robba e beni tutti di qual si sia sorte. E sopra il tuto comando non solo a miei Figliuoli, ma anco alla Posterità tuta, che sieno fedeli et obedienti al serenissimo principe».
I primi anni del settecento videro — ancora perché nessuno di questi ammonimenti fu dimenticato da’ figliuoli e da’ nipoti di Giannantonio — cresciuto in fama e in ricchezza il fortunato stabilimento tipografico-editoriale. Ad esso fu aggiunto, nel 1732, uno studio d’ incisione in legno, da prima diretto da Giuliano Giampiccoli e Antonio Duratti, poi frequentato dal famoso Volpato, un nome da porre senz’altro accanto a quelli di Bartolozzi e del Piranesi, di Raffaello Morghen e del Calamatta, incisori non pure insigni per la robustezza e la personalità del loro tratto quanto per la suggestiva soggettività che ad esso quasi sempre presiedeva. Successore di Giovannantonio era in quel punto il figliuolo di lui Giuseppe: e a costui — come poi avrebbe fatto col famoso avventuriero Giacomo Casanova, tipo ben diverso e a cui si potevano affidare incarichi anche più difficili e delicati in vantaggio della Serenissima — il Senato di Venezia si rimetteva, pel tramite del Magistrato dei Cinque Savii alla Mercanzia, perché tentasse d’ introdurre nello Stato Veneto la fabbricazione della carta dorata di cui la Repubblica era costretta di rifornirsi ricorrendo a produttori forestieri. Giuseppe vi riuscì. E alla industria novella appaiò quella, che non lo fece meno vantato, della produzione di immagini miniate e di ritratti a una tinta.
Nel 1796 lo troviamo Conte di Gorumbergo. Egli ha comprato quel castello e l’ usa, con la sua famiglia, ne’ pochi ozi che si può concedere durante la turbinosa, moltiplicata e incessante sua fatica.
Già nel 1791 egli ha comprato dal Santini di Venezia tutti i rami degli atlanti da costui pubblicati e già in tutta Europa ha diffuso a migliaia di copie le nuove edizioni, migliorate, di quelle carte geografiche.
Casa Remondini principiò a declinare quando a Giuseppe Remondini successe il figlio, Francesco. E ancor più, quando alla costui vedova si sostituì la contessa Giuseppa Remondini, incapace, non meno di quest’altra, di rafforzare il pericolante edificio. La contessa Teresa Remondini, ultima erede, quando, nel 1848, gli davan l’ultimo crollo quelli avvenimenti politici, cercò di restituire all’antico splendore la vecchia ditta stipulandone la cessione a una Società di capitalisti padovani che ne sarebbero venuti in potere, pel compenso di quasi un milione di lire, se avessero accettato di mantenere in servizio in quelle officine tutti, vita loro durante, gl’’impiegati e gli operai che vi si ritrovavano.
Dopo tredici anni ancora — peggiorando le cose e non trovando soluzione migliore — donna Teresa Remondini chiuse lo stabilimento. E nel 1861 — dopo due secoli e dodici anni dalla sua fondazione — la celeberrima Casa Remondini disparve dal mondo industriale, in cui lasciava orma davvero gloriosa e indimenticabile. La cartiera di Oliero fu venduta ai Randi di Padova; a’ migliori compratori furono cedute le opere rilegate; i libri intonsi e in fascicoli acquistarono l’Antonelli di Venezia e il Basadonna di Torino; le carte stampate il Pozzato, il Menegazzi ed altri; le tavole e i modelli di legno del Zackson e d’altri maestri passarono al conte Negri, allo stesso Menegazzi, al Pozzato — o andarono al fuoco.
E a tutto questo assistettero, a mano a mano, con una stretta al cuore, quanti, amici d’ogni bella e vantata cosa nostra, seguivano le vicende ultime di quell’industria famosa. E disperarono di vederla risorta gli artisti, i collezionisti, gli amatori del libro e della incisione, i teneri di quel secolo armonioso, lieto, fresco, seducente e pittoresco perfino in quelle carte da parati o da rilegature di certi libri che oramai sono spariti addirittura dalle panchette de’ rivenduglioli e forse pur dalle librerie di qualche ultimo appassionato signore, costretto a disfarsene……
Nel 1790 il De la Lande pubblicava la terza edizione del suo Voyage en Italie, conosciuta e ormai rarissima opera. E vi ristampava quel che nella prima edizione aveva scritto su Bassano e sui Remondini.
«Bassano – egli dice – è una cittadina di dodicimila abitanti e si trova a sette leghe a nord di Vicenza, a dieci da Padova, sulle rive del Brenta com’esso scende dalle Alpi, e sulla via della Germania. E’ in bel luogo ameno, circondata da popolati villaggi e da colline ove prosperano vigne ed oliveti. Se ne ignora la prima origine, ma la si crede antichissima.
Dovette il suo principale accrescimento agli Ezelini, che la scelsero per stabilirvisi. Gli Ezelini appartenevano alla Marca Trevigiana e, alla morte dell’ultimo di loro, Bassano ridiventò libera sotto la protezione degli abitanti di Padova, poi passò agli Scaligeri, ai Carrara, ai Visconti. Finalmente, nel 1404 l’ebbe la Repubblica di Venezia, che l’abbellì e la fortificò…
Nacque in Bassano il poi famoso meccanico Bartolomeo Terracini, al quale, nel 1783, è stato dedicato un bel monumento: vi nacquero Lazaro Buonamico, il poeta Campesano, il teologo Vittorelli, lo scultore Marinali. E in questo momento vi si trovano l’abate Roberti, conosciuto scrittore, Giambattista Veri, storico ed archeologo, il poeta Vittorelli, il Volpato, eccellente incisore di Roma.
Ma il De la Lande si sbaglia qui, togliendo a Bassano un’altro de’ suoi figli maggiori. A Bassano nacque il Volpato, e non in Roma, nel 1738: a Roma morì nel 1803, a sessantacinque anni, e dopo d’avervi sposato a un altro famoso incisore, Raffaello Morghen, la prima, mi pare, delle sue figliuole. A Venezia era stato scolaro del Bartolozzi, e le sue prime incisioni avea firmato Rerard. A Bassano fu chiamato, quando già era divenuto assai noto, dal Remondini, e precisamente dal figliuolo di Giannantonio, Giuseppe Remondini.
Di costui e delle sue officine così, seguitando, parla il De la Lande, che certo le visitò avanti di recarsi a Rovereto.
«La stamperia dei Remondini è il più grande stabilimento che di questo genere abbia l’Europa. Vi sono occupate mille persone, senza contare quelle che lavorano a Venezia, ove pur il Remondini fa stampare cose sue. Vi sono diciassette torchi per i libri, ventuno per le stampe, quattro per le carte marmorate e dorate, undici incisori in legno (taille-douce), tre cartiere, che sono fornite di dieci enormi tine.
Nel 1783 il Remondini ha fatto costruire dei cilindri sull’uso d’Olanda per la fabbrica di un certo suo tipo di carta; ha iniziato manifatture di carte dipinte al modo di Francia o delle Indie ; ha impiantato fonderie di caratteri. Insomma si trova a Bassano quel che sarebbe assai difficile ritrovare nelle più grandi città, e ciò si deve al conte Remondini. Egli possiede un vasto feudo che gli conferisce quel titolo nobiliare e gode d’una rendita di sedicimila ducati infuori di quella che gli somministra il suo immenso commercio. Nel maggio del 1783 il Boscovich s’è andato a stabilire a Bassano per farvi stampare dal Remondini tutte quante le opere sue matematiche, in cinque volumi in-4°, dei quali si pubblica uno ogni due mesi».
Chi volesse, per aggiungerla alla non inutile storia della stampa in Italia e dei suoi stampatori rinomati, radunar quella delle vicende delle parecchie collezioni xilematiche Remondiniane — magnifiche collezioni de’ legni che i Remondini avevano fatto intagliare per usarne la quasi rudimentale impressione delle carte uscite da fabbriche loro medesime — potrebbe rimettersene ad alcune lettere del Martello alla contessa Pasolini. Le costei sollecitazioni e le risposte di lui sono, d’ un periodo che corre dal 1900 al 1902, quando l’illustre signora trovò nelle sue parenti della famiglia Ponti le comproprietarie degli stampi della Casa Remondini di Bassano Veneto e insieme pensarono alla risurrezione, addirittura, di quell’industria famosa, commerciale, sì, naturalmente, ma sentimentale ancor più e attesa da tutti coloro che la fomentavano quasi come per devozione familiare.
Gli stampi, scriveva il professor Martello, sono ben quattro o cinquemila, forse più forse meno, e ciascuno si compone di due a cinque pezzi. Il processo della impressione somiglia a quello della primitiva cromolitografia; si preme, per esempio, con un di que’ pezzi sulla carta lasciandovi tutta la parte rossa del disegno: con un altro pezzo, che combina col primo, si stampa la parte verde; con un terzo, che combina col secondo, si stampa la parte gialla.
Ma, — soggiungeva l’accurato informatore a cui la Pasolini commetteva quelle indagini e dal quale s’aspettava opportuni consigli — per quanto mi si dica che ogni stampo conservi tuttora i suoi pezzi, e che alcun d’essi sia mai stato disperso o distrutto, occorre assolutamente che siano riordinati, e, quando lo saranno, occorre avere sottocchi il vecchio campionario, per procedere alla composizione del nuovo. Ma dove trovare l’operaio specialista che, immergendo i pezzi degli stampi in diverse soluzioni colorate, e imprimendoli a prova di stampa su carta speciale, riesca a ordinare questa immensa quantità di legni scolpiti e anche intarsiati talvolta di metallo ?
E il professor Martello, che non si dà pace, e cerca, e fruga e appura, riesce finalmente a trovar l’operaio che lo aiuterà nella ricostruzione del catalogo e s’impegnerà di bene e sollecitamente riuscire in quella paziente fatica di rassegna e di rinnovellamento. Chi è costui? Non altri se non un vecchio fruttivendolo che egli ha ripescato in una stradicciuola suburbana di Bassano, un che ha lavorato quasi mezzo secolo fa con gli stessi stampi, che li conosce, che li ama, che assai volentieri li tornerebbe a maneggiare. Or che cosa occorre per la nuova esercitazione di quella industria? Tre cose occorrono: i colori che non siano a base di anilina, la carta fatta appositamente fabbricare, l’operaio istruttore, infine. A Bassano i colori tratti da speciali corteccie di legno si conoscono, e si sanno trovare e preparare. La carta potrebbe soltanto esser fabbricata dalle cartiere di Fabriano, o da quella di Oliero di Valstagna a ll km. da Bassano. L’operaio istruttore? Ma non s’è trovato quel tal fruttivendolo?
Sì, ma nel punto in cui il Martello lo scopre, ecco che il fruttivendolo s’ammala …..
Bisogna ora saltare una quantità di circostanze tra favorevoli e sfavorevoli — moltissime pur difficili — che hanno battagliato in quest’epopea più recente delle carte Remondiane.
Importante conoscere che allora l’industria riprese l’interrotta sua vita e che oggi l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, ha stipulato il contratto per la vendita delle carte Remondiane con le nobili signore contessa Maria Pasolini Ponti, donna Ester Esengrini Ponti, la contessa
Antonia Suardi Ponti, la marchesa Remigia Ponti Spitalieri, e gli eredi del marchese senatore Ettore Ponti, comproprietarî, tutti quanti, degli stampi ei mmagini, giuochi, caricature ecc. ecc. della Casa Remondini di Bassano. È da ricordare che per mezzo di quelli stampi s’ ebbe dalla cartiera Molina di Varese la prima produzione delle carte antiche, così che esse corrono pur sotto il nome di Carte di Varese. A Varese le ebbe in deposito per la vendita la Ditta Giuseppe Rizzi.
Il piacere di avere sottocchi di somiglianti documenti di un secolo pieno di vita e di letizia, di spensieratezza e di filosofia, di buon gusto e di nobiltà, è di quelli che solamente i suoi rievocatori affezionati possono intendere con un sorriso d’assentimento. È il piacere di un quasi protratto assaporamento, d’ una beatitudine da bibliomani, che mentre dura vi lascia pur rincorrere tante care ombre, le quali vi appaiono e fuggono, in tricorno e mantello.
Ecco, sì, novellamente stampato e allestito con ogni cura, e ricoperto da un de’ più belli di quei fogli preziosi, il catalogo delle Carte Remondini, in formato d’albo, ricco di oltre 300 modelli — ecco, ancora, pel più vivo interessamento, per la più completa gioia degli occhi de’ temporis acti laudatores, quei minuscoli campionarîi del secolo di Giannantonio e di Giuseppe Remondini, quelli che si chiamavano della Carta Cambrich sopraffina o della Marmorata Reale, o della Sbruffata o Tartarugata, oppur della Calicot, che ha novissimo assortimento di vaghi disegni a somiglianza delle tele di Calicot e si vende per buon prezzo a diciotto lire la risma. Ecco, edito a Bassano, nel 1766 e il Catalogo delle stampe incise e delle carte di vario genere della Ditta Giuseppe Remondini e figli; ecco la sua appendice del 1826, su carta verdina, co’ prezzi di qualche poco calati e segnati a mano or nella colonna che addita i pittori de’ varii soggetti di quell’iconografia, or in quella degli xilografi. E questi due cataloghi — de’ quali ormai tornerebbe difficilissimo ritrovar qualche esemplare — non sono essi la storia, appunto, quasi completa della incisione nel settecento e a’ primi del secolo decimonono?
E adesso, ditemi, non vi trascorrono davanti certe figure e certe figurette che approfittano di questo vostro incantamento retrospettivo e si vogliono daccapo far ricordare da quella simpatia onde le seguiste attraverso l’educato lor costume letterario e le loro contingenti preferenze? lo ne vedo tante! Si spargono, qua e là, in tepidi salotti come quelli di Marina Tuirini Benzon o di Giustina Renier, di Caterina Dolfin Tron o di Adriana Foscarini, nella pubblica libreria dello Zatta o in quella dell’Antonelli, nelle quete stanze da biblioteca degli Zeno, de’ Mocenigo, dell’aureo, arguto amico del Casanova, Pietro Zaguri, tra gli associati alle commedie del signor avvocato Carlo Goldoni, tra quelli ancora, che da Padova si fanno spedire la traduzione che dell’Iliade, in dialetto veneziano, va pubblicando l’ erudito figliuolo della famosa Zanetta. E, a braccetto, provvisti anche loro di alcuni fogli di quelle carte in voga, che ha loro additato l’autor del Teatro alla moda Benedetto Marcello, non pare anche a voi di vedere, per qualche viottolo di Venezia, il napoletano maestro di cappella don Gaetano Latilla e il non meno grave suo conterraneo e collega Traetta? Qualche loro arietta, qualche cantatina, qualche amoroso duettino non han bisogno d’ una bella copertura Remondini per andar tra mani di signore protettrici ?…
Fantasticherie? Come vi pare. Eppur quanto ci riappressano al profumo di quel vecchio tempo, e al dolce valore delle memorie preferite!…”