Da La Scienza per Tutti, Anno XXIV, N. 5, 1 marzo 1917.
Del Prof. Giovanni Franceschini.
“■ La guerra attuale, come ha messo in uso antichissimi metodi di lotta — frecce, mazze ferrate, liquidi incendiarî, bombe a mano — così ha esumato anche antichi strumenti di protezione: caschi, scudi, maschere.



■ Fino dall’inizio della guerra era apparsa la necessità di proteggere la testa del soldato dalle scheggie delle granate e dalle palle di moschetto. Già da molto tempo era stato osservato che la forma rotonda della testa e la consistenza delle ossa craniche avevano servito mirabilmente, in moltissimi casi, a far deviare il proiettile, il quale, in luogo di penetrare entro la scatola cranica a lederne il cervello, si era limitato a lacerare e a contundere le parti molli, scalfendo o scheggiando superficialmente l’osso sottostante. Si è pensato quindi di sfruttare a vantaggio dei soldati combattenti questo fenomeno di deviazione dei proiettili quando essi nel loro percorso incontrano una qualsiasi resistenza, aumentando la resistenza naturale delle ossa craniche; e a tale fine si sono adottati i copricapo di metallo, i così detti caschi, foggiati sulla forma a calotta dei caschi antichi. A codesti caschi si è mantenuta la vecchia forma rotondeggiante affinché il proiettile, causa il susseguirsi di piccoli piani curvi formanti la convessità del casco, al suo contatto con questo trovasse un unico punto limitatissimo di contatto, e quindi fosse creata una superficie di scivolamento per il proiettile stesso. Si è poi giudicato che il casco dovesse esercitare la sua azione protettiva tanto nei casi in cui il proiettile veniva lanciato da breve distanza, come in quelli in cui esso proveniva da molto lontano, poiché se il proiettile arriva al casco da una distanza piccola è facile la sua deviazione dalla traiettoria rettilinea appena esso urta contro la resistenza metallica dell’elmetto, come pure è facile che esso esaurisca sul casco la sua forza di penetrazione quando esso proviene da grande distanza. In tutti i casi il copricapo d’acciaio paralizza più o meno uno dei principali fattori di gravità della ferita d’arma da fuoco — la celerità del proiettile — mentre in moltissimi casi ne favorisce la deviazione. Non infrequentemente si verifica il caso di proiettili che, colpendo una determinata parte del corpo, anche per una lieve resistenza opposta da fascie aponevrotiche o da tendini, scorrano al di sotto della pelle per un tratto maggiore o minore, e poi escano di nuovo all’esterno del corpo, formando ciò che è stato chiamato una ferita a setone, il cui tramite è spesso riconoscibile per una linea di scoloramento che si forma alla superficie. Ugualmente, spesse volte si è visto un proiettile girare intorno ad una metà del tronco e perfino intorno a tutta la circonferenza del tronco. Gli stessi vasi sanguigni — specialmente le arterie per la loro maggiore sodezza ed elasticità in confronto delle vene — quando si trovino sul cammino del proiettile possono venir spostati, subire uno scartamento, e così restare illesi. Le ossa, essendo costituite dal tessuto che presenta la massima resistenza, dànno naturalmente il maggiore contributo alla deviazione dei proiettili, confermando con la potenza dell’esperimento fisico che ogni rivestimento solido sulla superficie del corpo aumenta le probabilità di leggero o di modificato traumatismo da parte di proiettili d’arma da fuoco. E qui sarebbe il caso di ricordare — se la cosa non fosse anche troppo nota — quei casi in cui taluni soldati ebbero salva la vita perché la palla di moschetto o deviò o si esaurì, come corpo penetrante, per avere trovato sul suo cammino un orologio, un portasigarette, una medaglia. Un mio fratello, all’assalto di Santa Lucia di Tolmino, non ebbe fratturato l’osso femore per una lampadina elettrica che egli teneva in saccoccia, e che mutò tragitto alla pallottola che lo aveva colpito nella direzione mediana della coscia.
■ Un osso colpito da una palla può essere contuso o fratturato. L’osso può essere semplicemente contuso da un proiettile che gli passi rasente e sia animato da grande velocità, o dall’urto più diretto d’un corpo la cui velocità non sia sufficiente a produrne la frattura. Questa avviene quando la forza di penetrazione del proiettile è tale da superare fulmineamente la resistenza dello spessore osseo, e allora il danno è tanto maggiore quanto più grande è la velocità della palla; avendosi così diversi gradi di frattura: che vanno dalla semplice fenditura dell’osso alla comminutiva, alla perforazione, al resecamento, con le conseguenze della osteite, della osteo-periostite, della necrosi.
■ La frattura delle ossa craniche può essere parzialmente scongiurata o attenuata se con artifici meccanici si fa deviare la palla dal suo percorso, o si fa che il suo urto si esaurisca prima di arrivare all’osso, tramutando quindi il proiettile di grande forza di penetrazione in un proiettile di pochissima azione penetrante. Nel primo caso — della deviazione del proiettile — il trauma penetrante viene trasformato in un trauma radente, il quale, se potrà offendere le parti periferiche del cranio, non riuscirà a colpire l’organo nobilissimo sottostante. Nel secondo caso — della diminuita forza di penetrazione del proiettile — la ferita penetrante sarà trasformata in una ferita contundente o poco profonda.
■ Per tutte queste ragioni si è pensato che l’uso del casco da parte dei nostri soldati dovesse essere di grande efficacia protettiva del cranio; poiché il casco, liscio, levigato, rotondeggiante, e resistente, doveva servire mirabilmente sia a deviare il proiettile, sia ad attutirne l’azione contundente e penetrante. Fu così che tornò a rivivere — pronuba questa nostra guerra combattuta per quella giustizia e per quei diritti che nessun siluro può far naufragare nella coscienza umana — l’elmetto dei nostri guerrieri antichi.
■ L’efficacia protettiva di questo nuovo indumento di guerra — già indiscutibile sotto il punto di vista teorico — fu confermata pienamente dall’uso pratico, sotto il controllo scientifico dei chirurgi delle singole nazioni belligeranti. Sull’argomento fu fatta una particolareggiata relazione alla Società nazionale di chirurgia di Parigi, davanti alla quale un maggiore medico, dopo avere detto come la Sanità militare ed il Comando fossero preoccupati della frequenza e della gravità delle ferite del capo nei soldati combattenti, ha tessuto un vero elogio sui beneficî del casco. Già prima dell’uso del casco si era pensato di proteggere il cranio dei soldati con l’uso d’una calotta metallica, detta cervelliera, la quale, se corrispose in parte al suo scopo, pure non dette risultati così soddisfacenti da trovare credito presso i soldati. Il casco invece ebbe le migliori accoglienze — come afferma il suddetto maggiore medico — sia perché non è troppo pesante, sia perché si adatta bene al capo, sia perché validamente lo protegge dalle intemperie, sia perché lo salvaguarda dalle ferite dei proiettili. Per verificare però se il casco avesse un vero valore protettivo il dottor Potherat iniziò una indagine, che egli proseguì per parecchi mesi, e in seguito alla quale poté concludere affermativamente sulla efficacia protettiva del casco, efficacia che il tempo e le osservazioni ulteriori hanno confermata e consolidata.
■ I soldati stessi — testimoni, ed attori, e giudici delle esperienze sulla utilità dell’elmetto durante i combattimenti — si dichiararono apertamente favorevoli all’uso del casco, e insieme si dissero convinti della sua notevole azione protettiva. Uno di essi si rallegrava d’avere avuto un casco, che lo salvò dalle ferite di cui tutti i suoi compagni vicini, sforniti di casco, furono vittime. Un altro attribuiva al casco la poca entità della sua ferita al cranio, dichiarando che a quella tale distanza il proiettile avrebbe dovuto sfracellargli il cranio. Un terzo dichiarava che la sua ferita al capo era dovuta all’imprudenza di essersi tolto il casco nel momento sfortunato d’una continuata scarica di fucileria.
■ Il confronto praticato sugli esiti di due combattimenti d’assalto depose assai favorevolmente per l’uso del casco, poiché nel combattimento in cui quasi tutti i soldati erano forniti di elmetto, le ferite furono non solo meno gravi, ma anche più scarse, molti proiettili essendo stati deviati dall’urto sulla calotta metallica. È certo che dopo l’uso del casco su larga scala si videro in gran parte scomparire le ferite molto gravi del cranio, e che l’esame diretto dei feriti, delle loro lesioni. e dei loro caschi, fu completamente incoraggiante.
■ Molti caschi apparvero contusi, con infossamenti sulla loro superficie metallica, senza essere perforati, avendo così salvato il capo da qualsiasi lesione anche la più superficiale. In alcuni altri caschi perforati dal proiettile, questo fu trovato incuneato nella calotta di cuoio, senza produrre quindi la più leggera lesione al cuoio capelluto e alle ossa craniche. Nei casi più sfortunati, in cui l’elmetto metallico era stato trapassato dal proiettile. si ebbero contusioni superficiali dell’osso, o perforazioni dell’osso senza lesione delle meningi, o lesioni superficiali delle meningi e del cervello.

■ Si capisce benissimo che un copricapo metallico qualsiasi, anche il più perfetto e resistente, non dia una garanzia assoluta contro le lesioni della testa. Le armi moderne, capaci di sfondare le cupole corazzate, possono avere assai presto ragione di qualsiasi arnese protettivo delle ossa craniche, ma non questo è il quesito che si deve porre a proposito dell’uso del casco. Il quesito è quello di ricercare se l’uso del casco impedisce, attenua, rende più rare e meno profonde le ferite del cranio. E questi risultati pare che si ottengano indubbiamente e anche in proporzioni confortantissime.
■ Un pericolo grave che si temeva potesse derivare dall’uso del casco era che nei casi in cui il proiettile penetra nella scatola cranica, unitamente al proiettile venissero trasportate anche parti metalliche del casco, squarciate dalla forza di penetrazione del proiettile stesso. Questa concezione teorica non resse fortunatamente alla stregua dei fatti, i quali, se non hanno deposto per una esclusione assoluta dell’accidente tanto a ragione temuto (come quello che avrebbe enormemente aggravato il trauma del cervello o delle meningi), hanno però dimostrato che il proiettile non riesce quasi mai a staccare e trasportare nell’interno della scatola cranica pezzi di metallo avulsi dalla calotta del casco.

■ Il dottor Potherat, che ebbe occasione di esaminare un grandissimo numero di caschi perforati in tutto il loro spessore, afferma che avendoli battuti con un martello di legno dall’interno verso l’esterno, poté constatare che le parti metalliche lacerate dal proiettile erano complete, e che non mancava mai alcun pezzo. Si trattava sempre di porzioni di metallo rovesciate, accartocciate, contorte, sbrandellate, ma non mai asportate, così che con il martellamento praticato dalla parte interna del casco, il foro d’entrata del proiettile poteva essere completamente riempito e riparato.
■ L’efficacia protettiva del casco venne luminosamente affermata anche dai dati clinico-statistici, i quali presso tutti i medici osservatori hanno dimostrato la minore gravità del trauma. la superficialità, e la tangenzialità di ferite, che indubbiamente sarebbero state penetranti. Ecco qui la statistica del dottor Launay, dalla quale risulta che su sei casi di perforazione completa del casco — il che vuol dire che la forza di penetrazione del proiettile era potentissima, e che la ferita del cranio sarebbe stata gravissima — si ebbero quattro casi di ulcerazioni del solo cuoio capelluto, e due casi di piccole depressioni ossee con meningi intatte. Su altri dieci feriti, che ebbero perforato il casco ed offeso il cranio, si trovò pure intatta la meninge, restando così dimostrato come il forte impulso del proiettile si fosse quasi totalmente esaurito sul casco.


■ Prima dell’uso dell’elmetto metallico i registri delle operazioni eseguite sul cranio dal dottor Potherat segnavano un trapanazione delle ossa craniche ogni tre interventi chirurgici. Dopo l’uso del casco, si praticò una trapanazione ogni dieci interventi. È un risultato meraviglioso, come quello che ha ridotto a meno d’un terzo i casi di trapanazione. Il dottor Chevassu vide venti soldati, che avevano riportato ferite alla testa. Tredici di questi avevano il casco, e sette non l’avevano. I sette colpiti senza casco presentavano cinque casi di ferite gravi del cervello, seguite da morte, un caso di ferita del cuoio capelluto, un caso di ferita del cranio. Mortalità del 5 su 7. Nei tredici soldati feriti che portavano il casco si ebbero: due lesioni del casco senza ferita alcuna della testa, ma con ferite in altre parti del corpo; otto ferite del cuoio capelluto; due ferite superficiali delle ossa; una ferita del cranio con lesione superficiale della meninge. Quindi in tredici casi non si ebbe nemmeno una ferita del cervello, e non si ebbe nemmeno un morto.

■ Quasi tutti i medici di truppa e gli ufficiali affermano che la mortalità immediata per ferite del cranio è diminuita della metà dopo l’uso del casco. Le ammaccature, le fenditure e le lacerazioni che si vedono su moltissimi caschi di soldati, i quali vengono mandati in riposo negli accantonamenti — e che dichiarano che le lesioni dei rispettivi caschi sono realmente dovute a proiettili (come del resto lo dimostra la forma tipica delle lesioni), proiettili che non hanno in niun modo ferito la loro testa — costituiscono la prova materiale più sicura dell’efficacia protettiva dell’elmetto metallico. A questo proposito il suddetto chirurgo ebbe a dichiarare che non si contano più i caschi che presentano delle pressioni, e perfino dei forami prodotti da scheggie di granata, con o senza inclusione del proiettile nell’orificio. Egli anzi ricorda il fatto di un soldato che riportò una ferita superficiale della regione parietale destra, e il cui casco presentava il foro di un proiettile, che lo aveva colpito tangenzialmente, e che sembra sia stato deviato nel suo decorso dalla resistenza de!l’acciaio. La ferita, che avrebbe dovuto’ essere tangenziale al cranio ma penetrante, non fu invece che una escoriazione (vedi figura 21).

■ Fu assai giustamente osservato dal dottor Ferraton che se vi è una critica da farsi a cotesti tanto benefici copricapo dei nostri soldati è questa: che essi lasciano allo scoperto una delle regioni più vulnerabili della testa, la tempia. Sarebbe quindi desiderabile che con l’aggiunta di piastre temporali supplementari si cercasse di ovviare anche a questo pericolo.

■ Chi scrive questo articolo pensa che quel rilievo metallico che attraversa la parte mediana dell’elmetto in tutta la sua estensione, in senso antero-posteriore, e che potrebbe dirsi la cresta del casco, possa presentare qualche pericolo, come quello che non facilitando la deviazione del proiettile può favorirne la penetrazione. La deviazione e la tangenzialità di percorso del proiettile sono favorite esclusivamente dalla forma convessa, che non presentando punto di appoggio o di resistenza al corpo che arriva con velocità fulminea, ed offrendo ad esso solamente un minimo piano di contatto, provoca il scivolamento laterale del proiettile. Il rilievo metallico sui caschi attuali forma con la loro calotta un piccolo angolo, il quale inceppa la direzione della scheggia di granata o della pallottola, e crea un punto di facile conficcamento del proiettile. Sarebbe quindi desiderabile che nessun rilievo esistesse sulla calotta del casco, il quale in tutta ia sua superficie dovrebbe essere liscio, levigato, perfettamente convesso in ogni sua parte.

■ A questo punto verrebbe assai in acconcio — se lo spazio lo concedesse — la esposizione dettagliata dei risultati meravigliosi ottenuti dalla chirurgia di guerra nelle ferite, anche più gravi, delle meningi e del cervello. Non potendo addivenire ad una simile trattazione particolareggiata, mi limiterò ad intercalare nel testo alcune fotografie, le quali serviranno mirabilmente a dimostrare quali miracoli curativi abbia potuto ottenere l’opera dell’uomo soccorsa da quella grande medicatrice che è la natura.
■ Veggansi le fotografie del soldato R. colpito da uno scoppio di granata alla testa, nella regione occipitale sinistra, con ernia del cervello attraverso le ossa craniche non completamente ricoperte dalla pelle. La parte cerebrale sporgente dalla ferita fu asportata, e mediante una pinza introdotta nella profondità del cervello furono asportate tre scheggie puntute di osso. Vuotandosi l’ascesso, la sostanza bianca si eliminò a pezzi semiliquidi. In seguito si formarono nuovi ascessi cerebrali, che furono trattati chirurgicamente, così che rimase distrutto un terzo dell’emisfero cerebrale.
■ A dispetto d’una così spaventosa lesione di un tanto nobile organo, la guarigione fu ottenuta completamente, con la reintegrazione perfetta delle facoltà intellettuali e con la coordinazione normale dei movimenti muscolari.
■ La protezione meccanica della testa per mezzo dei caschi viene completata dai nostri nemici con speciali occhiali di ferro destinati alla protezione degli occhi. È noto ai medici militari quanto siano frequenti in guerra le lesioni delle palpebre, della congiuntiva, della cornea, e le lesioni profonde dell’occhio, specialmente in seguito a scoppio di granate, le quali esplodendo sul terreno roccioso proiettano una spruzzaglia di piccole pietre e di scheggie. Per salvaguardare gli occhi dei soldati combattenti i nostri nemici hanno munito i militari della primissima linea e i tiratori scelti, che si mettono nelle buche laterali o dinanzi alle trincee, di un occhiale di ferro. Il capitano medico I. Di Giuseppe — il quale si è occupato dell’argomento — dice che questo occhiale «presenta delle fessure orizzontali e oblique, le quali permettono all’occhio quasi complete escursioni nel campo visivo. Inoltre, le coppe proteggono oltrechè dalle scheggie di pietra e di granate, anche dal sole e dal sudore.

■ Certo una vera scheggia di granata non si arresta a sì piccolo ostacolo, ma deve essere, ripeto, una vera scheggia che naturalmente produce il suo effetto.
■ Come protezione dell’occhio, l’occhiale in questione ha lo stesso effetto dell’elmetto per le ferite del cranio.
■ L’occhiale adottato dall’esercito austriaco non è cosa nuova scientificamente, tutt’altro, però corrisponde molto bene allo scopo, e con una piccola lastra di mica applicata internamente, può servire egregiamente anche per la protezione degli occhi contro i gas asfissianti.
■ L’occhiale è completato da un pezzo di lana circolare cucito attorno alla coppa di ferro che fa da lente. Questa lana ha uno scopo praticissimo: assorbe il sudore che scorre dalla fronte e non obbliga il soldato a ricorrere forzatamente al fazzoletto per detergere le gocce di sudore che scorrono sull’occhio, né questo è piccolo vantaggio quando si pensi che molte volte questi tiratori scelti devono stare delle ore, magari delle giornate, immobili se vogliono salvarsi.
■ Riassumendo, quest’occhiale adottato dall’esercito nemico ha questi scopi:
1) protegge dal sole;
2) protegge dalle piccolissime schegge di proiettili esplosivi e esplodenti e dalle schegge di pietra;
3) concentra e rende più acuta la visione (noto principio del foro astenopeico);
4) protegge dal sudore;
5) protegge dai gas asfissianti.
■ L’occhiale è semplice, fortissimo, infrangibile, occupa poco spazio e può essere messo, quando non è adoperato, in una tasca qualsiasi.»

In questi ultimi due anni la chirurgia di guerra ha potuto far tesoro di un preziosissimo materiale di studio — preziosissimo materiale acquistato alla scienza a prezzo di sacrifici, di dolori, di stragi, che avrebbero potuto essere risparmiati all’umanità se un folle istrione sanguinario, criminale per natura, e barbaro per gentilizio, fosse stato internato in un carcere o in manicomio in luogo di essere collocato sopra un trono. La scienza — le cui finalità non sono esclusivamente speculative, ma eminentemente umanitarie — avrebbe ben volentieri sacrificato il proprio recente progresso di traumatologia e di chirurgia di guerra se fosse stata risparmiata al mondo la più infame e la più delittuosa delle carneficine che la storia ricordi. In ogni uomo di studio che non sia un degenerato, il cuore predomina sempre sul cervello. Nell’interno della propria coscienza ogni intellettuale dei nostri giorni deve dire a sé stesso: Che importa che il progresso ci abbia dato l’arco voltaico, il telegrafo senza fili, i raggi Réntgen, le aeronavi, un macchinario perfetto, le scoperte di chimica e di sierologia, se anche ai nostri giorni, nel continente più civile del mondo, si tagliano mani a bambini innocenti, si smantellano edifici dell’arte mondiale, si deportano donne e vecchi, si trucidano feriti e morenti, e i delitti più esecrandi si consumano cinicamente, tranquillamente, a sangue freddo, con l’approvazione di un popolo intero, plaudente ad ogni più atroce offesa della pietà umana? […] “