di Luigi Barzini.
Da Sapere, Anno I, Volume I, N. 1, 15 gennaio 1935.
“Luigi Barzini, che fu corrispondente del Corriere della Sera durante la guerra russo-giapponese, e nel 1907 percorse la Russia accompagnando il Principe Borghese nella corsa automobilistica Pechino-Parigi, ha compiuto l’anno scorso un viaggio Roma-Pechino, via Mosca. Unico giornalista che abbia visitato la Russia in epoche tanto distanti e in condizioni così diverse, la minuziosa relazione sul suo recente viaggio ha però un valore ed un interesse assoluta mente eccezionali. […]
Nelle immense officine, ogni tanto si vede una bandierina rossa attaccata a qualche macchina. Vuol dire che l’uomo addetto a quella macchina è un udarnik.
Gli udarnik sono i componenti delle così dette “brigate di assalto” del lavoro: i trascinatori, gli energetici e gli energumeni.
Ogni opificio ha la sua brigata. l’udarnik è il prodotto più puro dell’educazione comunista, il privilegiato dell’uguaglianza, l’aristocratico della collettività. A lui si aprono le scuole professionali e, gratuitamente, le porte dei teatri.
Davanti alla macchina decorata della fiammetta vermiglia egli lavora severamente, con in testa quel berrettone da ciclista che è diventato emblematico dopo che lo adottò Lenin. L’udarnik è sempre molto giovane. Chi ricorda o conosce l’esistenza di altre condizioni di vita sembra meno soggetto ad entusiasmi forsennati.
L’occhio vivace e intelligente, l’aria lievemente spavalda, l’udarnik ha sopra tutto un’espressione decisamente priva di amenità.
Non si sa perché, ma è un fatto che il bolscevismo mantiene i suoi fedeli in un pessimo umore permanente e contagioso. Nella visione della felicità comunista ci deve essere qualche cosa di incompatibile con gaiezza. Tutta questa gente ha l’aria tragica. Il popolo russo, non è mai stato particolarmente allegro, ma aveva esplosioni festose ed ilarità infantili. Adesso non più. C’è una tristezza senza soluzioni di continuità su tutto il territorio sovietico. Non vi abbiamo ancora visto una persona ridere. È anche vero che non vi abbiamo trovato alcuna ragione per ridere.
L’istituzione degli udarnik è di una importanza capitale nella organizzazione di quella gigantesca e perfetta propaganda operaia per il lavoro sulla quale si appoggia la industrializzazione sovietica, e che spinge le masse ad uno sforzo strenuo ed incessante. L’udarnik è un po’ il cane da pastore la cui sola presenza fa trotterellare anche le pecore più ritardatarie.
L’inefficienza operaia si presentava come il più grave ostacolo alla realizzazione dei “piani” vertiginosi. I russi sono operai intelligenti e accurati ma estatici. Non hanno mai considerato il lavoro come una cosa urgente, essenziale e improrogabile. Bisognava dunque creare nelle masse uno stato di esaltazione produttiva senza altro compenso che la speranza. Si è riusciti. Il sentimento proletario è stato così abilmente forgiato da poterlo dirigere a fascio, come il raggio di un proiettore, su qualsiasi obiettivo. Il russo è rimasto un mistico impulsivo. Una volta cancellate dall’anima dei giovani la fede cristiana, l’influenza della famiglia, la tradizione, e persino la poesia dell’amore, come si cancellano delle cose scritte sopra una lavagna, si è creato un vuoto avido di devozione e di passione, e tutto quello che vi si è messo ha assunto profondità sacre, valori dogmatici, ardori di fanatismo. Il comunismo è diventato una religione bizzarra, esclusiva e intransigente, al di fuori della quale tutto è eresia e dannazione. E in materia di religione i russi non scherzano, loro che due secoli fa misero a ferro ed a fuoco mezzo paese per decidere se la benedizione sia valida impartita con due dita o con tre. I due più grandi moventi della esaltazione umana sono stati messi sapientemente in opera: la fede e la guerra. L’industrializzazione dell’U.R.S.S. è presentata come una battaglia per la salvezza e la supremazia della Russia, che nemici implacabili circondano e minacciano. L’odio e il patriottismo sono in fondo all’entusiasmo bolscevico, benché abbiano preso i nomi di “fraternità” e di “Internazionale”. Si lavora guardando al di là dei confini.
«Diventeremo il paese dell’industria… — ha scritto Stalin — ed i signori capitalisti che vantano la loro civiltà, tenteranno di raggiungerci.» Sono le stesse cose che, con altre parole, Pietro il Grande gridò ai suoi boiardi brindando alla presa di Riga: «Io sento che la scienza — egli disse — abbandonerà le sue dimore di Inghilterra, di Francia e di Germania e per alcuni secoli prenderà stanza da noi.» C’è sempre l’idea del predominio. Sullo stemma sovietico la terra intera con i suoi continenti ed i suoi oceani è raffigurata sotto alla falce ed al martello, come un cuscino che porta i nuovi emblemi di una sovranità mondiale.
Un ansito di conquista è soffiato sulle folle lavoratrici perché si sentano in combattimento. Le varie piatiletke assumono aspetti di assalti successivi. È con il linguaggio dei bollettini di guerra che si annunziano le mète raggiunte dall’avanzata industriale. I ritratti degli operai più alacri sono esposti al pubblico: citazioni all’ordine del giorno. Le notizie dal fronte interessano tutti, e, come sempre in tempo di guerra, tutti si ritengono strateghi.
Si capisce che, se qualche cosa va male, la gente indignata attribuisca il guaio a tradimenti internazionali, e la Ghepeù trovi opportuno presentare, con pezze di appoggio, dei capri espiatori.
Nella rottura di una dinamo e nell’insufficienza di un impianto c’è la mano dell’Europa. Il proletariato russo immagina le altre nazioni contorte dagli spasimi dell’invidia e della paura, intente nell’ombra ai più neri complotti. Bisogna che l’operaio sovietico senta così, perché la sua ossessione è una forza costruttiva. Se egli si considerasse in pace col mondo allargherebbe i tempi. In questa atmosfera drammatica, nella oppressione di una propaganda magistrale e incalzante che non lascia penetrare niente di estraneo ai suoi fini, tra tanta miseria di vesti e severità di visi scarni, in questo mondo cupo, tetro, saturo di fantasmi, di paure, di manie, di disperazioni e di dissimulazioni, vi è qualche cosa di terribilmente grandioso e angoscioso, allucinante e imponente come un mondo medioevale elettrificato e motorizzato che aspetti il millennio. Quanto è profonda la crosta di incandescenza comunista su questa grande massa enigmatica? È difficile dirlo. Nulla, pareva in Russia più profondo e indistruttibile della devozione ortodossa e del timore di Dio, che apparentemente si sono spenti senza eccessive esitazioni al soffio della rivoluzione come candele accese di un santuario invaso dall’uragano. E duravano dieci secoli.
L’entusiasmo bolscevico è nei più giovani sincero, vivo, dimostrativo, .evidente. Nei meno giovani ha delle apparenze più sedate. La grande maggioranza del popolo è disciplinata, docile, attiva, ma profondamente inespressiva. Fa pensare ad una magnifica truppa schierata, pronta ed impassibile, della quale è difficile dire quanto ami il suo colonnello.
Molto del fragore comunistico sotto al quale le masse sono tenute è il prodotto di una esagerazione voluta, calcolata per spronare moltitudini dall’indole normalmente placida, dal carattere freddo, dalla mentalità lenta, venute dalla campagna e propense ad un calmo disinteresse. L’eccitazione bolscevica è la banderilla de fuego inferta nella pelle di questo toro mansueto, che noi vediamo lanciare scintille balzando feroce e muggente nell’arena, ma che senza i razzi cercherebbe forse la stalla.
E vi è anche in questa frenesia una certa dose di ostentazione, di posa, e di prudenza. L’’instancabilità è di moda adesso in Russia come gli stracci. Ragazze del popolo vanno in giro in tuta, sporche di fango fino agli occhi, un fazzoletto rosso intorno alla testa, l’aria terribilmente lavoratrice. I “volontari del lavoro” gremiscono nei giorni di riposo gli sterri dei cantieri della ferrovia metropolitana in costruzione, formicai umani su cumuli di sabbia; ma i volontari gettano di tanto in tanto una piccola palata un poco più in là, come per un rito, e aspettano il momento di andarsene dopo questo compunto gesto di adesione. Il giorno dopo la stampa li chiama titani. Ma qualunque sia l’estensione del parossismo religioso e bellico da cui scaturisce la paradossale “mistica del lavoro forzato”, esso non può essere perpetuo. L’esasperazione, come la febbre, non è una condizione permanente. La guerra eterna è inconcepibile. Non mancano vaghi sintomi di stanchezza, che si manifestano talvolta in storielle satiriche, circolanti segretamente e sussurrate spesso con facce impenetrabili da giuocatori di poker, da bolscevichi che nell’intimità lasciano il fuoco sacro in anticamera insieme alla pelliccia: «Sapete, non ci sarà una terza Piatiletka» — «E perché? » — «Perché il codice sovietico non ammette condanne superiori ai dieci anni. Dopo i dieci anni è la morte.» Una parte imprecisabile dello slancio comunistico del proletariato russo somiglia al movimento di quelle immense masse di alberi tagliati che le fiumane della Carelia trascinano: una gesticolazione che è inerzia e un impeto che è abbandono. Ma una cosa è certa, ed è che il popolo russo uscirà profondamente modificato, non nell’indole ma nella mentalità e nelle abitudini, dall’attuale stadio di enfasi e di schiavitù. La macchina è entrata profondamente nella vita della Russia, alterandone i ritmi, gli aspetti, le possibilità. Con tutti i suoi errori, i suoi sperperi, le sue follie e le sue crudeltà, l’industrializzazione ad oltranza è una enorme iniezione di acciaio nel gran corpo silvano dello sterminato impero.
Gli udarnik sono operai esemplari — dicono i bolscevichi — scelti per la loro efficienza e la loro diligenza. Le maestranze sono invece di opinione che essi siano scelti per ragioni politiche, visto che debbono essere figli di proletari, atei, e riscuotere la fiducia del partito comunista. Sono loro che, quando viene l’ordine di fare una dimostrazione, prendono le bandiere rosse ed emergono dall’officina. Squadre di udarnik armati furono spedite a liquidare i kulak nel momento in cui i soldati esitarono a sparare. Lo udarnik mantiene alta la temperatura rivoluzionaria dell’officina.
E una scintilla della banderilla de fuego.
Strana vita è quella dell’opificio sovietico, un miscuglio di laboratorio, di caserma, di scuola, di comizio. Da ogni parte si leggono massime, consigli, regole, generalmente scritti in grandi caratteri bianchi su strisce di stoffa rossa. Tovarici! (compagni) gridano dei manifesti. L’esistenza del lavoratore trascorre in una ridda di frasi che lo circonda come la galoppata delle pellirosse intorno al prigioniero. Nemmeno se è analfabeta sfugge, per via della radio, e se nella casa gremita non c’è spazio c’è tuttavia un altoparlante gratuito, ammaccato ma instancabile e collettivo.
Negli atrii, per le scale, al refettorio — dove i superiori mangiano in un reparto riservato — per tutto è la galoppata rossa, la fiumana delle scritte che insegnano, ammaestrano, ordinano incitano, condannano, proclamano, informano. Il giornale murale edito dal Comitato di fabbrica, per fortuna in un solo esemplare, annunzia i nomi dei solerti e degli infingardi della quindicina (con fotografie) e critica gli uffici tecnici (con caricature). Fasci di bandiere rosse coperte di scritture circondano i ritratti di Marx, di Lenin e di Stalin negli angoli dove una volta erano le immagini dei santi. Parole, parole, parole, una nevicata incessante di parole cade sulla Russia malinconica. Ed è strano come queste immense officine appena nate abbiano già l’aria stanca, logora, trascurata, sudicia, delle cose decrepite. Fuori delle macchine, tutto pare di seconda mano. Si è costruito con tanta fretta, con materiali così poveri, e con metodi talmente sommari, che tutte le superfici a contatto d’uso si deteriorano, si screpolano, si fendono. Si è sacrificato ogni cosa all’essenziale. È giusto. Quello che non è indispensabile può essere benissimo sgangherato. Sembra la massima del regime sovietico. Fuori delle gallerie delle macchine, scalini che sgretolano, poggiamano di legno unti e intoccabili, corridoi patinati di grasso, pavimenti primitivi costellati di sputi, stipiti sconnessi, una trasandatezza, un logoramento e un’incuria che sorprendono. La degradazione e l’avvilimento degli edifici offrono forse l’aspetto più immediato e desolante della indigenza russa.
Ecco, è l’ora della sosta meridiana. I macchinari si fermano, il frastuono si quieta. Un appello si leva: Tovarici!, sono sorti qua e là degli oratori. In piedi dietro a delle cattedre, fra le macchine, dei capi-reparto tengono alle maestranze delle conferenze sulla “razionalizzazione” ed altri argomenti tecnici e politici.
Docili come scolari, gli operai si aggruppano intorno alla cattedra e stanno immobili fissando il maestro con un’aria di diligente e profondo disinteresse. È difficile capire se ascoltino. Le donne, tipi di giovani contadine dal viso tondo e il naso a pallottola, la blusa e i calzoni maschili, la testa avvolta nel fazzoletto rosso, si tengono alla periferia della classe, a coppie, con le braccia gettate sulle spalle l’una dell’altra, fianco contro fianco, e sono francamente distratte. Rimarranno irrazionali.
Sorprende la statura di questi gruppi. La corporatura russa era una volta famosa per il suo eccesso. Ma pare che il moscovita abbia perduto l’abitudine di essere un gigante biondo. Si è accorciato di un palmo. Le nuove generazioni appaiono generalmente mingherline e con una singolare maggioranza di bruni. E con il gigante è quasi scomparso un altro tipo che era comunissimo in Russia, paese della longevità: l’uomo anziano.
L’individuo che abbia fiorito nell’ante-guerra è rarissimo. Dove sono andati a finire i canuti ed i grigi? Quelli che non erano proletari, probabilmente non hanno potuto avere la tessera del pane.
Ce n’è capitato uno l’altra sera di questi superstiti della fame, uno spettro tremolante che ad un angolo della Arbat Uliza, riconoscendoci per stranieri dalla sontuosità del nostro abbigliamento, ci ha chiesto sottovoce se eravamo franzuski.
La notizia che eravamo italianski è sembrata deluderlo amaramente. Scuotendo la testa coperta da un enorme e consunto colbacco, senza aggiungere parola si è allontanato nel buio.”