Da La Lettura, Anno II, N. 3, marzo 1902.
Di Piero Giacosa.
“■ Ra, il Dio del Sole era vecchio e malaticcio, forse in conseguenza d’un brutto scherzo fattogli da Iside, che, vogliosa di possedere il segreto dei potenti sortilegi, aveva fatto pungere il padrone da un serpentello velenoso, offrendosi poi di guarirlo.
■ Ra era dunque vecchio e gli uomini mormoravano contro di lui; lo seppe, se ne offese, convocò il consiglio di famiglia e deliberò di inviare l’occhio divino, la Dea Ator a castigare gli uomini, rapidamente, prima che avessero sentore della cosa e scappassero nel deserto, dove gli Dei d’Egitto non han più presa. Ator prese il suo mandato a cuore, e scese con un gran coltello nella valle del Nilo e lo adoperò così sapientemente che grande estensione di terre rosseggiava di sangue. Il vecchio Ra vide che di questo passo egli non avrebbe avuto più sudditi, elemento che fu sempre indispensabile a costituire un Re; richiamò la sanguinaria Dea, la selvaggia leonessa affamata di sangue. Ma essa rispose che quando sterminava gli uomini il suo cuore esultava, e seguitò. La sera finalmente il sonno e la stanchezza la presero, e Ra convocò in fretta i suoi messaggeri, quelli agili e rapidi che volano come il vento. «Correte a Elefantina e portatemi quante mandragore potrete cogliere». Giunsero le piante e egli ordinò al mugnaio della sua città Pi-ra (da città di Ra, Heliopolis dei Greci) di pestarle in un mortaio, e ne mescolò il succo alla birra che si stava preparando dall’orzo; vi aggiunse altrettanto sangue umano e preparò 7 mila orcioli di questa bibita. Ra l’assaggiò, la trovò di suo gradimento e rispondente alle sue viste e ne inondò la terra d’Egitto che ne fu coperta per l’altezza di quattro palmi. La Dea svegliatasi col sole vide quest’inondazione «e il suo volto si addolcì; ma quando ebbe bevuto anche il cuore si ammansò; se n’andò ebbra, senza più vedere gli uomini».
■ Mi pare una gloriosa maniera d’entrare nelle leggende, e non so quale altra pianta possa competere colla mandragora per la nobiltà di sua origine. Non certo il frutto del misterioso albero dell’Eden, che ebbe a protagonisti del suo dramma una povera prima coppia d’uomini inesperti e curiosi e un maligno serpentello. Le favole egiziane hanno le imponenti proporzioni dei loro monumenti.
■ Ma tutto questo è leggenda, leggenda formatasi forse qualche centinaia di anni dopo l’epoca in cui i fatti miracolosi sarebbero avvenuti e messa insieme dai teologi egiziani nell’ordinare gli elementi della loro complicata teogonia. Il vero è questo: che gli Egizii conoscevano un’erba velenosa; che quest’erba era probabilmente la mandragora dei nostri botanici, e che cresceva nell’alto Egitto; che sapevano prepararne miscele inebbrianti, mescolandone i succhi colle bevande. Di che natura sia poi il veleno, lo si può arguire dai sintomi che presentò la Dea: la leggenda la mostra ebbra. gli occhi lucenti, e inetti al loro ufficio dopo alzatosi il sole.
■ L’ebbrezza è un sintomo che può esser comune a molte intossicazioni e che non è ben definibile; in generale, è una alterazione passeggera delle facoltà mentali per cui si smarrisce la capacità a osservare, a riflettere e a temperarsi e si acquista una esagerata disposizione ad associare visioni di pensieri, più che pensieri, a disordinati movimenti del corpo. È una specie di violento e incoercibile stato emozionale, e come tale può prodursi anche senza il soccorso di droghe o di farmaci. Una successione rapida di inusitati, meravigliosi, incomprensibili fenomeni, che colpiscono vivamente l’immaginazione, produce nelle menti semplici uno stato d’ebbrezza. Il bambino ed il selvaggio gridano, saltano, ridono e piangono ad un tempo, s’arrossano in viso, palpitano, escono in parole sconnesse quando si presenta a loro uno spettacolo nuovo e gioioso, un giocattolo, un dolce, una vistosa stoffa colorata o pezzi di vetro brillanti.
■ Più determinati sono i due altri fatti, che si riferiscono all’occhio della Dea avvelenata. I poeti parlano spesso dell’occhio splendente. come tutti noi parliamo di occhi belli, grandi, espressivi. È interessante il determinare le condizioni fisiche per cui l’occhio ci rivela così rapidi ed efficaci mutamenti d’espressione. Un primo esame ci prova che l’occhio che noi facciamo protagonista di queste azioni non ha gran che a farci. Parlo dell’occhio vero, di quell’organo che è destinato a vedere, che è fatto di una sfera annidata nell’orbita, la quale per un polo è unita al cervello mediante il nervo ottico, mentre la zona polare opposta appare all’esterno per l’apertura delle palpebre, e mostra il cerchio mutabile dell’iride contornato dalla pallida sclerotica (il bianco dell’occhio) e perforato dal forellino della pupilla, nero e profondo come un pozzo, per cui si scende direttamente nelle profondità dell’anima. All’infuori della facoltà che ha di volgersi in diverse direzioni. affermando così eloquentemente il dominio dell’uomo sullo spazio, l’occhio in sé non può mutare d’aspetto se non in quanto l’apertura della pupilla può farsi più o meno larga. Se l’iride è molto scura, il mutare delle dimensioni della pupilla può passare inosservato, se è chiara invece è più evidente; questo cambiamento è però difficile a riconoscersi, perché la pupilla non si contrae rapidamente e si dilata soltanto all’oscuro, cioè appunto quando è più difficile osservarla. In alcuni animali invece, fra cui i gallinacei, l’occhio appare continuamente irrequieto e mutabile, perché il contrasto di colore fra l’iride e la pupilla rende manifesto il dilatarsi e lo stringersi del cerchio nero centrale.
■ Alla espressione abituale e giornaliera dei sentimenti la pupilla umana in complesso partecipa poco, poiché quando c’è lume sufficiente perché l’occhio possa osservarsi. la pupilla suole avere sempre lo stesso diametro.

■ Vi partecipano invece vivamente altri accessorii dell’occhio; le lagrime anzitutto, le quali, allorché stanno formandosi abbondanti senza che tuttavia trabocchino dal margine della palpebra, dànno un luccicare dell’occhio che pare vi si immerga. Sono «gli occhi natanti nel lume» cantati da Carducci.
■ Vi partecipa il giro esterno che va dal sopracciglio, lungo la fronte, sui polsi, per la palpebra inferiore fino alla radice del naso. L’alzarsi o il scendere dell’arco che spiana la via dell’occhio o la chiude, lo oscura, lo nasconde, lo dirizza; il ridere delle sottili aluzze che irradiano a ventaglio all’angolo esterno o solcano di linee parallele la palpebra inferiore; lo spalancarsi della rima palpebrale che disegna nel bianco immacolato la meraviglia del piccolo cerchio attonito; il socchiudersi che pare l’invito discreto d’una porticina che si apre nell’anima e si rinchiuderà dietro di voi; e i misteriosi piccoli lumi che s’accendono, scompaiono, errano, vibrano a seconda delle ombre e delle luci che questi panneggiamenti esterni sapienti accordano alla levigata superficie interna; ecco il segreto dell’espressione dell’occhio, ecco le sillabe del suo divino linguaggio.
■ E torniamo alla nostra feroce ubbriacata. Il suo occhio non è più umano; esso non è più l’occhio sano, il vigile guardiano e maestro della mente; ebbro come il cervello, esso manda bagliori, sì rifiuta al suo ufficio e teme il sole da cui riceve l’alimento. Non sono dunque gli abituali cambiamenti d’espressione che dobbiamo cercare in lui. Qualche mutamento più grave si è fatto, che non è arduo immaginare. La Dea è avvelenata dall’atropina.
■ È l’atropina, l’alcaloide contenuto nella mandragora, nella belladonna, nello stramonio, nel giusquiamo, in tutte queste piante che la tradizione ha associato alle idee di oscurità e di sortilegi, di furore o di letargo che ha alterato l’occhio suo, come ha sconvolto il suo cervello, ed ha intenerito il suo cuore. È l’atropina che ha dilatata la sua pupilla, allargando a dismisura il nero cerchio fino quasi al margine della sclerotica, sì che su quel fondo le luci esterne anche meno vive risaltano evidenti e dànno all’occhio quel fosco lumeggiare; è l’atropina che togliendo all’occhio la capacità a sbarrare le vie per cui entra la luce diurna, e inibendo alla lente cristallina la sua motilità, ha permesso che l’occhio fosse inondato di raggi che si intersecano in ogni senso, si che l’immagine si pinge indefinita e torbida sulla retina. L’occhio della Dea avvelenata è come l’obbiettivo della camera oscura a cui si tolgono i diaframmi e che non si può mettere a fuoco per gli oggetti vicini. L’immagine non definisce che gli sfondi; il primo piano è incerto e la lastra fotografica nell’intensa luce e nella indeterminatezza dei contorni dà immagini grigie, uniformi, senza contrasti.
■ Sia dunque mandragora quella che il Dio del Sole ha scelto per placare la indomabile furiosa figliuola, o altra pianta affine, certo è una del gruppo di quelle che contengono atropina. Diagnosi più sicura non potrebbe farsi di nessun’altra alterazione descrittaci dagli antichi.

■ I quali, del resto, conobbero queste piante e le temettero; per essi naturalmente l’effetto principale fu la turbata funzione cerebrale; ad essa attribuirono la incapacità a vedere, come nel lampeggiare dell’occhio nereggiante e smarrito videro le fiamme dell’interno fuoco. Gli altri fenomeni dell’avvelenamento da atropina o sfuggirono all’esame dei medici d’allora, o furono interpretati come conseguenza del delirio maniaco; l’incapacità a percepir la luce, il battere precipitoso del polso, l’arsura delle fauci disseccate, erano considerati come sintomi dell’ebbrezza. Noi ne sappiamo di più; conosciamo l’azione violenta eccitatrice della corteccia cerebrale che può giungere al punto di determinare veri accessi epilettici, ma la separiamo dagli effetti del veleno sull’occhio, sulle secrezioni delle ghiandole, sui muscoli lisci e sul cuore. Abbiamo anche imparato a conoscere e in parte a fabbricare delle varietà di atropine, in cui si ha solo l’una o l’altra azione, come sappiamo adoperare il veleno in modo da avere soltanto quello dei suoi effetti da cui ci ripromettiamo qualche vantaggio. Così, instillando nell’occhio tenui traccie d’atropina, riesciamo a dilatare la pupilla senza che sì produca nessun altro degli effetti venefici. Così pure sappiamo che vi sono varietà di atropina che non producono accessi di mania, ma calmano e addormentano.
■ La mandragora ricompare nella leggenda in altre forme che mostrano essersi intorno ad essa raccolti altri elementi di terrore. E con essa le sue affini che ho nominato, la belladonna, lo stramonio, il giusquiamo, piante sparse in tutto il continente d’Europa, che i greci non hanno saputo distinguere bene le une delle altre, e di cui alcune sono state designate col nome di stricnon, in cui troviamo la stessa radicale del nome strige, che designa il gufo, anche esso incapace di tollerare la luce del sole. Fra questi stricnon vi sono specie innocue, come la comune dulcamara; le tossiche sono chiamate stricnon ipnoticon, stricnon manicon; questo è probabilmente la pianta che Saladino d’Ascoli nel suo Compendium aromatariorum (circa 1450) chiama Solarum furiale. e che si trova poco dopo descritta e figurata dal celebre medico senese Pietro Andrea Mattioli, il quale afferma che a Venezia la chiamano erba belladonna. Di dove proviene questo nome? Forse dal fatto che questa pianta e altre consimili entravano nella composizione dei filtri amorosi, che a Venezia, città elegante e dissoluta, si preparavano e si smerciavano, forse dall’impiego che si faceva di essa per rendere gli occhi scuri e lumeggianti. Questo impiego della belladonna si trova ancora ai nostri tempi; vi sono disgraziate che, per dare alla loro fisionomia non so qual fascino d’ebbrezza bacchica, si applicano dei dischi d’atropina nell’occhio rinunciando a guardare nell’intento d’esser guardate.
■ La mandragora si tenne sempre distinta per nome e per caratteri dal gruppo affine degli stricnon, benché meno pericolosa perché meno ricca d’atropina, benché i suoi fiori e le sue bacche siano d’aspetto meno triste delle sue congeneri, essa continuò a raccogliere intorno a sé paurosi miti, e a rappresentare potentissime virtù. È un’erba che non alza dal suolo il ciuffo compatto delle sue foglie ovali e ondose, dall’odore grave: fra le foglie sorgono su uno stelo corto i fiori violacei, che maturano bacche giallognole; nella terra si sprofonda una radice grossa, lunga, conica, simile a una carota, spesso spesso bi o tripartita nel suo decorso, munita di poche e sottili barbe. Tutta la pianta, fronda e radice contengono un succo velenoso; ma la radice è più reputata ed intorno al essa la leggenda ha ordito le più fitte trame.
■ Già Plinio. il grande raccoglitore degli errori popolari degli antichi, amante delle superstizioni e dispregiatore della scienza, ammonisce dei pericoli a cui va incontro chi raccoglie quest’erba: «chi vuol scavare la radice di mandragora si guardi dal mettersi contro vento; inscriva tre circoli intorno colla spada e poi scavi guardando verso l’occaso». Tranne quella dell’evitar il vento contrario, che può giustificarsi col desiderio di sottrarsi all’odore della pianta, che si pretende narcotico, le altre sono prescrizioni magiche, cioè cerimonie aventi carattere di scongiuro per impedire alle potenze arcane della pianta d’esercitare il loro malefico influsso.

■ A radice così terribile non poteva assegnarsi la volgare forma ordinaria; qualche cosa doveva nel suo aspetto rivelare la malvagità di sua natura. Sempre quando le leggende paurose ricorrono al soccorso delle arti rappresentative, queste adattano la rappresentazione al carattere assegnato all’oggetto che riproducono, in modo che l’imagine sola sia sufficiente a rappresentarlo in tutti i suoi aspetti. Specialmente nei popoli primitivi o nelle epoche di decadenza intellettuale, questa tendenza idealistica delle arti rappresentative è manifesta e nella sua ingenuità riesce efficacissima. In tutto il medio-evo le piante furono rappresentate secondo un tipo fisso convenzionale, il quale era destinato a metter in luce quelle particolarità — vere od immaginarie — che caratterizzavano la pianta stessa e la sua azione.
■ Ed ecco come la radice della mandragora nelle figure della pianta assunse l’aspetto umano, mentre il ciuffo di foglie in alto, che la leggenda considerava come indifferente, poté sfuggire alle alterazioni. Un codice prezioso che dalla biblioteca borbonica di Napoli passò alla Imperiale di Vienna, ornato di figure di piante disegnate nel settimo secolo, ci mostra le due mandragore, maggiore e minore (maschio e femmina) colla rosetta di foglie e le bacche benissimo riprodotte, ma la radice ha già un contorno umano colla testa, le due braccia e le gambe che s’assottigliano in ramoscelli serpeggianti. Un altro codice di poco posteriore, della biblioteca di Lucca, della fine del secolo nono, ha la figura della mandragora colla radice completamente antropomorfa. Si direbbe che nei tre secoli che separano l’un codice dall’altro, tre secoli di decadimento scientifico, che vuol dire di trionfo della superstizione, la mente del disegnatore si sia sempre più offuscata. O piuttosto erano tempi in cui non si pensava più a ricorrere al modello vivente, da cui certo Il disegno del codice più antico era stato tratto. Nella riproduzione sistematica da figure sempre più convenzionali è naturale che s’esagerasse sempre più quello che voleva mettersi in rilievo. Un altro carattere della figura è da notarsi: la sproporzione fra la radice umanizzata e la parte aerea della pianta, tutta a detrimento di quest’ultima; processo questo che venne sempre adottato per significare la dignità maggiore d’una parte rispetto all’altra; anche i Faraoni, scolpiti nei piloni dei templi in atto di saettare il nemico, sono giganti che combattono un esercito di nani.

■ La leggenda ha già fatto un passo innanzi dall’epoca di Plinio; ormai ogni scrupolo è scomparso, nessuna voce vivente oserebbe ancora in quell’epoca richiamare alla verità; i botanici greci, Teofrasto e Dioscoride, così esatti e sobrî, così schivi di fiabe, non sono letti, non sarebbero forse compresi; il solo nome loro vive ancora, ma posto come suggello a compilazioni affrettate, ad estratti dei loro libri, passati da Bisanzio ai barbari al di là dei Balcani, tradotti nella lingua gotica, e arricchiti di tutto il materiale d’errori che quei popoli primitivi recavano seco.
■ Ecco la leggenda della mandragora posta accanto ad un codice di Lucca dell’ottavo secolo; la traduco dal latino barbaro del testo:
«I latini chiamano la mandragora malum terrae; i poeti la chiamano antropomercas perché la radice ha forma d’uomo, la corteccia della quale, infusa in vino, dassi a bere a quelli che si operano per la loro salute (questo accenno prezioso allo impiego della mandragora come anestetico delle operazioni mi porterebbe molto lontano dal mio argomento, e forse servirà di punto di partenza per un altro studio); i quali come presi da sopore non sentono il dolore. Ve ne ha due specie: la femmina ha foglie come la lattuca e il frutto simile a quello del pruno, il maschio invece ha foglie come di rapa. Coglila perché grande è la visione, grandi i beneficî suoi; e come tu vi giunga io ti spiego. Di notte splende come una lucerna. Appena la scorgi conducile un ferro intorno al capo perché non ti fugga; poiché ha tanta virtù che se viene a lei un uomo immondo subito fugge innanzi a lui. Adunque la circonduci col ferro e scavi intorno senza toccarla col ferro e poi diligentemente smuovi la terra innanzi con un palo d’avorio. E allorché scorgerai il piede di quest’erba mandragora e la sua mano, la legherai con una fune nuova, e l’altro capo lo legherai al collo d’un cane che avrai affamato prima; e gli metterai poco lungi del pane come esca perché possa sradicare l’erba. Ma se non vorrai ingannare il cane (poiché si dice che quest’erba abbia tanta divinità da ingannare [uccidere] sul momento chi la svelle), se dunque non lo vorrai ingannare fa fare una grande pertica che funzioni da mangano».
■ E qui descrive come la pertica arrovesciata a cui sarà attaccato il capo della fune nel tornare a sé sradicherà l’erba, che potrà allora raccogliersi e si metterà in una ampolla di vetro.
■ L’eco di questa leggenda si prolunga nei secoli. Shakespeare in Romeo e Giulietta vi aggiunge un particolare più drammatico: la pianta che si sente svellere manda urli strazianti, che fanno impazzire chi li sente: «And shrieks like mandrake torn out of the earth, that living mortals, hearing them, run mad.»
■ Ma la leggenda non è che la prova della importanza che s’attribuiva alla pianta. Come ai tempi favolosi di Ra, così lungo tutta l’antichità e il medio-evo, la mandragora si tenne per capace di esaltare l’uomo, di inebbriarlo in sogni di delizia che agitavano tutte le energie corporee, e infine di addormentarlo. Nella medicina. la mandragora preannunzia il cloroformio, come preannunciò l’atropina.
■ Consigliata raramente nei trattati, perché i medici esitavano dinanzi ad un rimedio di così eroica riputazione, essa trionfa nei rimedî secreti, nei filtri usati a richiamare le forze o ad esaltarle per eccessi ignobili. Numerosi accenni a questa credenza si hanno nella letteratura. Ma se si va a fondo nella ricerca della storia di questo farmaco, si scorge che esso è soprattutto vantato nella medicina popolare, mentre gli autori classici non gli riconoscono queste miracolose virtù. Ippocrate la nomina, Galeno vi torna spesso sopra nel libro sui rimedî semplici, ma si contenta di accennare alle sue proprietà narcotiche, all’odore suo disgustoso, alla necessità di non usare dosi troppo forti e alle sue proprietà refrigeranti. Dioscoride pure ne discorre distesamente senza esagerare punto la sua azione, mettendone in vista quelle qualità che noi riconosciamo ancora nelle piante affini che racchiudono gli alcaloidi del tipo dell’atropina. Il botanico senese che ho già nominato, Mattioli, anch’esso non riconosce alla mandragora virtù speciali, e anzi si ride di quelli che credono che abbia forma umana nelle radici. È probabile che Machiavelli, acuto e freddo osservatore, poco propenso a credere alle fiabe, avesse anch’egli la stessa opinione su quest’erba, e che l’abbia introdotta nella sua commedia La mandragora, solo perché la scena si passa fra gente ignorante e scaltra, cioè in quel ceto che costituì sempre ed in ogni epoca il fondamento e il sostegno della medicina ciarlatanesca volgare, di quella medicina che anche oggidì sussiste ancora daccanto all’altra, e a cui forse molti, anche colti, ricorrono quando, abbandonati dalla scienza, brancolano per afferrarsi a qualsiasi tavola di salvezza.

■ L’antropomorfismo della radice di mandragora è stato un dogma per molto tempo; un disegnatore di piante medicinali non stimava poter dare un’idea giusta della pianta se non ci metteva qualche cosa d’umano nella radice. Chi sa come il Mattioli dovette sorvegliare il suo artista per avere le due belle figure di mandragora che illustrano il suo libro; la tirannia della tradizione era tale che in un erbario della biblioteca di Pavia — che a mio parere non può essere anteriore al secolo XVI, e che contiene impronte di erbe ottenute dalla pianta stessa fresca sulla carta — la figura della mandragora mostra in basso nel fittone una fisionomia meravigliata che ride, e forse nella mente dell’artista rappresentava lo scherno finale del lungo inganno ordito alla credulità umana.
■ Ma se anche i pittori avessero rinunciato all’ufficio di umanizzare la radice di mandragora, non per questo sarebbe mancata l’esca all’errore popolare. Si vendevano secretamente ed a caro prezzo piccoli omiciattoli barbati fatti di radici di mandragora; i tedeschi li chiamano Alruniken, da Alraun che è il nome della pianta; si chiamavano anche Galgenmännchen, omunculi della forca, perché una tradizione dai crudi particolari realistici, che mostrano come fosse familiare in tutti i suoi multiformi fenomeni fisiologici il supplizio della impiccagione, li faceva nascere ai piedi del patibolo a cui fosse stato sospeso un innocente. Questi ometti si vestivano, si chiudevano gelosamente in casse, ci faceva loro parte dei pasti quotidiani, si lavavano e sì ripulivano per averli propizî nelle operazioni magiche, nella ricerca dei tesori, e per ottenere le grazie speciali di cui la mandragora in ogni tempo ebbe il privilegio.

■ Tutte cose lontane di questo nostro secolo ventesimo, non è vero? Eppure io credo che se si rovistasse bene si troverebbe in qualche angolo perduto della Germania un piccolo omiciattolo che aspetta il suo tempo per uscire a propiziare le potenze occulte.
■ Egli deve avere la coscienza della sua rarità; ormai non s’impicca più. In Italia, del resto, la fama non s’è perduta delle proprietà benefiche e terribili della mandragora. Che direbbero le mie lettrici s’io confidassi a loro che un direttore d’un orto botanico spedì tempo fa una pianta di mandragora ad una supplichevole signorina, la quale la voleva come talismano di felicità? Se queste righe le capitano sotto gli occhi, vorrà quella signorina rivelarci se la pianta ha adempito il suo ufficio ?
■ Voglio sperare di sì; non ho io inteso che in un altro orto botanico d’Italia, non è gran tempo, un giardiniere non osava trapiantare la terribile radice, e colui che lo fece in vece sua morì poco dopo! La leggenda della mandragora non è dunque morta. Chi sa che qualcuna di quelle virago che si raccolgono intorno al tavolo verde di Montecarlo e spiano ansiose il voltarsi d’una carta non carezzino colle mani irrequiete una radice di mandragora custodita segretamente nella tasca insieme agli altri amuleti propiziatorî.
Febbraio 1902.”