Da Le vie d’Italia, Anno XXX, N. 10, ottobre 1924.
Di Guido Arosio.
“Fra i mezzi più efficaci di propaganda turistica viene giustamente considerato quello della riproduzione fotografica dei luoghi; una vignetta, una cartolina, un avviso che raffiguri un monumento, un paesaggio, un’opera d’arte vale assai più d’ogni descrizione, per abile ed efficace ch’essa sia.
La Svizzera in questa materia è maestra, e l’organizzazione della sua propaganda turistica per mezzo dell’immagine fa sì che nessuna delle sue meravigliose bellezze resti ignota a chi percorra anche un breve tratto delle sue linee ferroviarie. Voi giungete a Basilea dalla Francia, dall’Olanda, dalla Germania, rivivete ancora l’ambiente che vi ha ospitati; vi sorride la queta armonica poesia dei lunghi viaggi, o ripensate ancora al sacro Reno, alla bionda Loreley, o alla cattedrale di Colonia, che austera si specchia nel fiume fatale. Scendete dal treno e già nelle sale della stazione vi assale inesorabile la visione del paesaggio svizzero. Reno, beghinaggi, Loreley, cattedrali svaniscono nel lontano. La mente vostra si orienta subito verso il paese pittoresco che vi invita sciorinandovi innanzi ogni sua bellezza. La jungfrau e il Cervino, Lucerna e la Cappella di Tell, Zurigo e Ginevra e via via le numerose cascate e i numerosi gorghi onde s’abbella la terra svizzera sono presentati in enormi quadri che costituiscono il fregio delle varie sale. Lo scopo è raggiunto. Voi siete ossessionati dal fascino di quella bellezza, e non sfuggirete alla necessità di recarvi presto o tardi a veder da vicino ciò che vi vien suggerito col mezzo dell’immagine.
Anzi: col mezzo della fotografia. Poiché è certo che se invece che per fotografia quelle stesse bellezze fossero presentate in quadri, pure di insigni artefici, l’effetto psicologico della propaganda non sarebbe lo stesso. Troppo facilmente si è infatti indotti a pensare che l’artista, recando all’opera sua il contributo della propria personalità, tenda ad alterare quella che è la realtà, quella che invece il viaggiatore cerca come nucleo alle interpretazioni che della naturale bellezza darà il suo spirito; in questo caso, si tende a dar maggior valore alla riproduzione fotografica, che si ritiene soprattutto essere fedele e non ingannatrice.
E occorre insistere sul valore dei grandi quadri fotografici. La piccola vignetta, la cartolina illustrata, l’opuscoletto vi richiedono uno sferzo, sia pure piccolo, d’attenzione, e voi sareste tentati di mandar al diavolo chi vi frastornasse con simili bubbole quando scendete in una stazione stanchi da un lungo percorso ferroviario. I grandi quadri invece sono discreti. Essi sono là sulla parete e non vi chiedono d’essere guardati. Voi dovete sostare al buffet per attendere una coincidenza, dovete sbrigare le pratiche di dogana e passaporto, dovete far coda agli sportelli: vi annoiate, siete tremendamente seccati. Il vostro sguardo gira smarrito per la sala. Un bel paesaggio alpino, un ridente laghetto par quasi vi sorridano dalle pareti, e voi, senza addarvene, li degnate di uno sguardo. To’ davvero? Esistono luoghi tanto belli? Come vi si può andare?
Dimenticate passaporti, biglietti, polizia, urtoni di compagni di viaggio, proteste dei vicini: tutto vi par rimpicciolire di fronte al premio promesso…. E voi sarete tra coloro che finiranno col visitare quelle bellezze, se non subito, certo alla prima occasione che si presenti.
Così si creano le correnti di turisti: così la fotografia gigante agisce sulle folle meglio che ogni altro modo di propaganda per mezzo dell’immagine. È ancora un’arte che tutto fa nulla si scopre.
Quanto dicemmo spiega come i propagandisti chiedano alla tecnica i mezzi per ottenere questi colossali prodotti dell’arte fotografica.
Vi siete mai chiesti come sia possibile ottenere quadri di tanta superficie, quali siano le vie per cui la tecnica fotografica è riuscita ad eseguire le manipolazioni necessarie? Forse no.
Ebbene: non è privo di interesse il conoscere quali difficoltà enormi debbano superarsi, e come esse siano state superate.
Voi avrete forse visto in qualche esposizione il grande panorama del golfo di Napoli eseguito da una casa tedesca e che costituiva la più grande fotografia che mai fosse stata eseguita. Si trattava di un quadro lungo 12 metri e alto un metro e mezzo. Avrete certo pensato ad un ingrandimento fotografico: sta bene. Ma come trattare una carta di simili dimensioni, senza guastarla, eseguendo tutte le operazioni di sviluppo, lavatura, fissaggio, essiccazione?
Ecco qua: si trattava effettivamente dell’ingrandimento di sei vedute giustapposte tra loro e delle dimensioni ordinarie di 21 x 27 centimetri. Di queste sei vedute che comprendevano il golfo di Napoli si fecero direttamente sei ingrandimenti delle dimensioni di 1.50×2 metri ciascuno; però non erano staccati l’uno dall’altro, ma erano eseguiti su un rotolo di carta l’uno accanto all’altro in modo da formare una veduta continua. Si ebbe così un quadro di 12 metri di lunghezza per 1.50 d’altezza che si doveva sviluppare e trattare cogli ordinari metodi fotografici.
La cosa non era agevole. Si costruì un grande tamburo del diametro di quattro metri e dello spessore di m. 1.75 e si arrotolò su di esso con ogni precauzione la carta fotografica. La periferia del tamburo, misurando m. 12.50, poteva sostenere l’intero quadro senza che si verificassero sovrapposizioni. Si prepararono allora tre vasche destinate rispettivamente allo sviluppo, alla lavatura e al fissaggio. Ogni recipiente era montato su ruote in ferro e poteva spostarsi su una tratta di 16 metri.
Lo sviluppo fu eseguito all’aria aperta durante la notte. Si rotolò sul tamburo la carta fotografica impressionata, coperta da uno schermo protettore. Poi portato sotto il tamburo lo sviluppo lo si fece girare in modo che successivamente tutta la superficie della prova si immergesse nella soluzione di sviluppo. Le parti illuminate venivano trattate con una spugna imbibita di uno sviluppatore energico, mentre sulle parti troppo esposte si agiva con una soluzione di acido acetico.
Ultimato lo sviluppo si arrestò il processo irrorando la prova con acido acetico mediante una pompa a mano. Poi si sottopose la prova a un bagno di venti minuti in acido acetico: si lavò energicamente, e si trasportò alla soluzione di fissaggio dove rimase tre quarti d’ora. Seguì una lavatura all’acqua corrente per otto ore e l’essiccazione per altre dieci ore. La prova era terminata. Non restava che il lavoro di ritocco, che si affidò ad abili specialisti, allo scopo di mascherare tutte le imperfezioni della fotografia.
Accanto a questo metodo tedesco per la produzione dei grandi quadri fotografici che potrebbe dirsi indiretto in quanto si basa sull’ingrandimento di fotografie ordinarie, si ha il metodo diretto degli americani, metodo assai meno pratico forse, ma che tuttavia ha dato buoni risultati.
Già qualche anno addietro un ingegnere di Chicago, M. George Lawrence faceva costruire una macchina fotografica gigantesca per la presa diretta di vedute fotografiche colossali.
Per aver un’idea delle dimensioni della macchina del Lawrence diremo che la camera oscura misurava oltre 3 metri di larghezza per 2 circa d’altezza, che il soffietto spiegato era più lungo di m. 6.50 e che la camera e il suo supporto pesavano la bellezza di 634 chilogrammi.
La macchina montata sul suo sostegno raggiungeva l’altezza di un primo piano, e doveva essere manovrata da almeno dodici uomini. Allorquando occorreva trasferire questo colossale istrumento da luogo a luogo occorreva montarlo su un carro ferroviario a sponde basse.
Particolari cure erano state necessarie per ottenere che il soffietto non si deformasse. Esso era sostenuto a intervalli da quadri di legno nascosti tra le piegature interne, mentre quattro armature esterne contribuivano a tener in sesto l’assieme.
Le lastre sensibili destinate a questa macchina avevano pure richiesto una fabbricazione speciale. Anzitutto la scelta di vetri senza imperfezioni di quattro metri quadri di superficie non riuscì agevole. Poi si dovettero adottare dispositivi speciali per distendere in strati uniformi la gelatina su una superficie insolitamente vasta; infine la essiccazione di queste lastre al riparo dalla polvere richiese altre accurate precauzioni. Si ottennero alla fine lastre fotografiche del peso di 45 Kg. ciascuna.
Non era neppure facile mettere a fuoco un apparecchio così grandioso. Il Lawrence ricorse ad un espediente. Collocò a fianco della macchina un cannocchiale, costruito in modo che allorquando in esso si doveva accorciare il tubo di dieci centimetri per ottenere la visione distinta, ciò corrispondesse allo spostamento di un metro dell’obbiettivo fotografico.
La levata delle vedute fotografiche si eseguiva pure con molti curiosi artifici. Si collocava in posto la lastra fotografica, poi si entrava nel soffietto mediante acconcie aperture e alla luce rossa si ripuliva l’interno da ogni frustolo di polvere: si toglieva la chiusura della lastra, la si spazzolava, e poi si rimetteva ogni cosa a suo posto. Si eseguiva allora la posa.
Lo sviluppo e il fissaggio avvenivano in recipienti giganteschi e alla fine si ottenevano grandi fotografie dirette di m. 2.60 per m. 1.50 le quali per finezza e per bellezza nulla avevano ad invidiare alle fotografie di dimensioni più modeste.
Con questo mezzo furono eseguite molte litografie per una compagnia ferroviaria di Chicago, la quale appunto annetteva una importanza stragrande all’azione psicologica di quadri fotografici sui viaggiatori.
Il mezzo per produrre questi quadri, grazie all’ingegnosa audacia dei costruttori, esiste. Non v’è che profittarne.”