Da Il Secolo XX, Anno XV, N. 1, 1 gennaio 1916.
Di Mario Fiorini.
” ■ Avverrà, tra un centinaio d’anni, di questa nostra travagliatissima epoca quello che è accaduto ad altri periodi straordinarî della vita del mondo: se ne impadroniranno gli storici che a furia di considerazioni, di paralleli e di filosofia arriveranno a non far capire più niente a nessuno, e le briciole cadranno nella muta dei conferenzieri, degli articolisti e degli «accademici» i quali scaveranno con le unghie robuste in ogni episodio e su ogni nome.

■ Noi abbiamo già avuto il piacere di leggere volumi intieri sulle intimità dei grandi uomini trapassati; i nostri posteri impareranno «che Cadorna fumava dei sigari virginia bene asciutti; che Joffre, durante la battaglia della Marna, non si fece rader la barba per una settimana; che Sonnino pronunciò nei quattro giorni precedenti la guerra ben diciotto parole assortite…»
■ Niente di straordinario perciò se ad un postero qualunque prenderà vaghezza di intrattenere i suoi contemporanei sulla censura in Italia durante la guerra del 1915. Vediamo dunque di aiutare il futuro nepote nel suo còmpito; faremo un’opera buona e trarremo giornalistica vendetta dell’arcigna Madama Anastasia che ci minaccia con le sue forbici… di Damocle.
■ Tralascio naturalmente la storia della censura attraverso i secoli. Se le maledizioni che giornalmente vengono inviate dalle concordi redazioni di tutta la penisola «alla censura e a chi l’ha inventata» dovessero giungere a destinazione, papa Alessandro VI dei Borgia starebbe fresco, malgrado le fiamme infernali dove si presume — se Domineddio non ha fatto dei favoritismi — debba cuocere con tutta la sua esemplare famiglia. Perché fu proprio il Borgia — e non poteva essere che un Borgia — a inventare questa forma di supplizio.
■ Ma veniamo ai giorni nostri, del postero conferenziere.
■ La data storica: 25 maggio 1915. A mezzogiorno un invito convocava in Prefettura tutti i direttori dei giornali. Il Prefetto lesse un decreto reale col quale si ristabiliva, per la durata della guerra, la censura preventiva sulla stampa secondo le disposizioni delle leggi vigenti. L’annuncio non fece grande impressione perché era previsto. Anzi molti giornalisti, senza prevedere i guai prossimi verituri, arrivarono a benedire in blocco censori e censura.
■ La necessità di guerra imponeva infatti che le vecchie forbici simboliche — simbolismo… verista, però! — fossero rimesse in opera. I vecchi giornalisti si sentiron venire il sudor freddo: sapevano per esperienza che razza di bestia fosse quella che stava per tornare in scena e sapevano anche che non c’era niente da fare. Altri da principio presero la cosa più alla leggera, ma poi dinanzi alla fredda, inflessibile e inafferrabile ferocia del censore bisognò che tutti cedessero. Continuarono e continuano le proteste ma in fondo una convinzione generale s’è formata: il miglior modo per far divenire sopportabile la censura è quello di abolirla. E siccome questo per ora non è possibile, l’unico sistema per non pigliarsi una malattia di fegato è quello di aspettare pazientemente che la vittoria e la pace rendano inutile il vecchio strumento.
■ L’abolizione della censura preventiva nei tempi normali fu opera, ed è vanto ed onore, dell’on. Sonnino. Prima del 1906 i giornali erano sottoposti alla revisione delle Prefetture, secondo tutte le vecchie norme del decrepito «editto albertino». Dal 28 giugno 1906 al 25 maggio 1915 la stampa italiana è stata libera; e nessuno può negarle di aver saputo ben profittare della libertà.
■ Ma nove anni di indipendenza avevano ormai abituati i giornalisti a sentirsi completamente padroni delle proprie idee, della forma di esprimerle, del modo di propagarle. La censura di guerra, necessaria ma non per questo meno dura, ha interrotto assai bruscamente la libera corsa.

■ Chi conosce il giornale soltanto come lettore, non può immaginare quale incubo sia la censura per una redazione. Ad ogni notizia, ad ogni idea espressa, ad ogni progetto di articolo segue una domanda assillante e terribile: — Ma lo permetterà la censura?
■ Il pubblico si è ormai abituato alle quotidiane «finestre bianche» che nei primi giorni facevano una certa impressione ed eccitavano vivamente la curiosità. Non c’è quotidiano che non abbia avuto almeno un paio di volte la sua brava sforbiciata in pieno corpo del giornale. E non bisogna illudersi sul conto di alcuni grandi periodici che sembrano meno degli altri tartassati dalla censura. A Milano, per esempio, il Secolo e il Corriere della Sera stabilirono, subito dopo il 25 maggio, di non dare ai loro lettori lo spettacolo delle castrazioni in bianco e di sostituire, con notizie e articoli tenuti in riserva, le notizie e gli articoli che Madama Anastasia si sarebbe trangugiati. Così è avvenuto infatti ed avviene ancora: ed è questa l’unica ragione per la quale questi grandi giornali sembrano più rispettati dalle forbici feroci.
■ Ma anche il Secolo, malgrado tutta la sua buona volontà, ha finito per perder la pazienza ed è uscito due o tre volte con la sua brava finestra bianca e con tanto di «censura» a caratteri cubitali. Quanto al Corriere basterà ricordare il …massacro dell’ode dannunziana al popolo serbo.
■ Spesso, del resto, lo spazio bianco diviene un’arma anche per il censurato. Anzi, qualche volta, è assai più eloquente protesta una colonna vuota che una colonna di prosa. Tanto è vero che in Inghilterra, dove la censura è entrata in vigore con la guerra, è severamente proibito ai giornali di lasciare in bianco la notizia censurata: deve essere sostituita per legge.
■ Ma per dir la verità in Italia la stampa è stata trattata dalla censura con imparzialità egualmente feroce. Naturalmente i giornali redatti abitualmente in forma più vivace, hanno portate più chiare le traccie dell’implacabile nemica. A Milano Il Popolo d’Italia e l’Avanti!, a Roma L’Idea Nazionale, per dire soltanto dei quotidiani, sono usciti spesso in condizioni pietose. E il colore dei tre giornali ricordati dimostra meglio di ogni altra cosa che le forbici di Madama Anastasia sono tremende con tutti i partiti politici.
■ Il giornale di Mussolini inaugurò il nuovo regime con una mezza pagina bianca. Da allora quindici volte su venti, l’articolo direttoriale uscì con il titolo — ma non sempre — e… con la firma! Le proteste, nei primi giorni, fioccarono. I censori, appena rimandato l’articolo col «veto», si preparavano a sostenere l’assalto telefonico del censurato.
■ Una volta il direttore del Popolo d’Italia scrisse un articolo e lo intitolò: «La parola che non fu detta». La censura non intese a sordo e… non fece dire neppure una parola di più di quella che… non era detta nel titolo. Un’altra volta uscì un articolino intitolato «Senza Dio». Ma Dio fu soppresso dal censore, che doveva essere quel giorno un tremendo mangia-preti! E di episodî simili al giornale di Mussolini ne sono accaduti a decine. Arturo Rossato (Arros) è un altro dei prediletti di madama Anastasia. Una notte gli si toglie completamente l’articolo di fondo. Rossato escogita uno stratagemma: ricopia l’articolo cominciando dall’ultimo periodo, salendo su, su a rovescio fino al primo e legando questa marcia forzata a… schiena voltata con parole insignificanti. L’articolo torna così capovolto alla Censura che lo approva integralmente! Rossato allora, superbo del trionfo, si presenta in persona alla commissione dei censori e svela il suo trucco e fa toccare con mano che il secondo articolo incensurato non era che il primo censurato e viceversa. Ma i censori, dopo un primo momento di confusione, replicano tranquillamente: «Ah! vede? Così va bene! Dicendo per ultimo quello che aveva detto per primo, la cosa è… meno vivace».

■ Ma sulla risposte esplicative dei censori ai censurati si potrebbe far tutto un volume, che probabilmente non farebbe molto piacere agli aiutanti di Madama Anastasia. Spesso però la risposta è eguale e inattaccabile: «Ordini superiori». C’è poco da replicare, a meno di non volersela rifare direttamente con Salandra. Tuttavia a Roma, anche con il sacramentale «ordini superiori» i censori non hanno impedito che le proteste continuassero e più di una volta il commendatore Piero Baldassarre, capo dell’ufficio stampa del Ministero, si è sentito svegliare dal telefono alle tre di notte e ha dovuto sorbirsi le proteste di tutta una redazione inferocita.

■ Come al Popolo d’Italia, e all’Avanti! — qui non esaminiamo le ragioni politiche diverse, facciamo solo della cronaca — anche alla Idea Nazionale è accaduto di uscire… di bianco vestita. Esempio tipico: un articolo intitolato «La censura» fu soppresso di colpo dalla prima all’ultima parola.
■ Il Messaggero non è meno bersagliato. Un suo articolo sulla necessità dell’intervento italiano in Oriente (ora si può dire, dopo il discorso Sonnino) fu soppresso: il giornale democratico si arrabbiò e uscì con un «Censura» più grosso della sua testata. La cosa fece impressione.

■ Per contro anche l’arcigno Osservatore Romano ha dovuto più di una volta subire i rigori dello stato di guerra. E per l’organo pontificio dev’essere stato anche più amaro che per gli altri giornali vedersi censurato da una… potenza non riconosciuta! Lo stesso giornale si vendicò però inscenando una protesta a rotazione che durò una ventina di giorni, contro una poesia dello Stecchetti sul patriottismo del Papa, lasciata pubblicare sul Travaso. Molti parroci e molte beghine si sentirono in dovere di protestare contro «l’empio libello», il «poeta satanico» ma sopratutto contro la «parziale censura del Governo Italiano», riempiendo intiere colonne del giornale papalino.
■ Fra le varie forme di vendetta de censurati una è stata assai graziosa: quella dell’umoristico torinese Numero che alla censura dedicò tutto un fascicolo dicendone di cotte e di crude senza farsi cogliere in fallo.
■ Un episodio rigorosamente storico: nel luglio scorso fuggì dal Giardino Zoologico di Roma un grosso pitone. I giornali ne dettero la notizia e il censore di turno la soppresse! Proteste da tutte le parti. Il Ministero non sapeva come giustificare il provvedimento e domandò spiegazioni allo stesso autore del taglio; rispose che lui aveva tanta paura dei serpenti ché se avesse trovato il pitone per la strada ne avrebbe fatta una malattia: perciò…
■ Non credo che il censore così disperatamente rettilofobo sia rimasto molto alla Prefettura. Ma intanto la notizia era stata censurata e coerentemente non poteva essere più permessa. E allora i giornali di Roma si divertirono per un pezzo a mandare tutti i giorni in Censura le bozze di certi pezzetti di cronaca a base di pitone in tutte le salse, che i censori dovevano regolarmente tagliare. Finalmente il pitone fu ripreso all’Acqua Acetosa. E finì la tortura: la Censora di turno permise di pubblicare che era stato catturato il rettile che, secondo lei, non era… mai fuggito!
■ I cento occhi di Madama Anastasia frugano in ogni angolo d’Italia e anche i più oscuri giornali di provincia non sono immuni dalle forbici terribili. Valga come esempio Il Corazziere, un settimanale di Volterra che porta nel titolo la sua ortodossia, e che pure ha avuti dei tagli feroci e irrimediabili.
■ Intanto l’antagonismo fra censori e censurati aumenta. Si è avuto perfino qualche caso di minacciata questione personale! I giornalisti si sfogano spesso tirando giù dei trafiletti feroci centro i loro rivali e si vendicano con caricature atroci e con invettive frizzanti. Alla Camera si sono avute, durante la breve tornata, delle sedute in cui quasi non s’è parlato altro che della censura, per dirne… tutto il male possibile. L’on. Salandra l’ha difesa dicendo che bisognava ringraziare Iddio se non faceva di peggio ed ha concluso anche lui con l’osservare che soltanto quando si potrà sopprimerla diventerà sopportabile.
■ Come funziona la censura? — «Male!» vi risponderebbe subito un giornalista. Ma vediamone il meccanismo assai rugginoso, senza entirare in apprezzamenti. Tanto dopo quello che è stato detto a Montecitorio non sarebbe facile trovare nuovo male da dirne!
■ Dunque il generalissimo dei censori è il comm. Piero Baldassarre, capo dell’ufficio stampa del Ministero degli Interni. Lo presento ai miei colleghi perché possano… impiccarlo in effigie. Veramente però il comm. Baldassarre riesce a farsi perdonare l’ufficio, a furia di cortesia e di affabilità. Egli riceve giornalmente una cinquantina di telefonate di protesta e non c’è pericolo che dia mai torto al reclamante. Anzi gli dà ragione; ascolta tutta la diatriba, condita spesso di frasi tutt’altro che riguardose per la istituzione, e poi finisce col promettere di provvedere subito. Lo farà? Bisogna credergli sulla parola.
■ Dal Ministero dunque partono, sotto forma di circolari, gli alti dettami per i sessantanove uffici del Regno. Perché, com’è noto, la censura dipende direttamente dalle Prefetture. È il Prefetto che nomina, sotto la sua responsabilità, i censori.
■ Il progetto per impiantare la censura era stato curato dal comm. Baldassarre prima della guerra in ogni più piccolo particolare, tanto che l’egregio funzionario credette di aver fatta una cosa quasi perfetta. Ma se il progetto filava così bene sulla carta, quando si trattò di metterlo in pratica… divenne un guaio serio e da tutte le parti saltaron fuori difetti e inciampi.
■ Ho voluto domandare direttamente al commendatore Baldassarre qualche informazione sui funzionamento della censura e ho cominciato col chiedergli come sono stati scelti i censori.
— I prefetti — mi ha risposto — hanno seguito generalmente il sistema di incaricare della cosa i migliori funzionarii…
— Figuriamoci gli altri!
— Badi: lo censureranno!… In qualche caso, come a Milano, si è ricorso direttamente ai giornalisti sperando che le proteste sarebero state minori. Ma era inevitabile che nessuno potesse esser contento, e specialmente i censurati, di questa vecchia arma arrugginita che le necessità del momento han costretto il governo a rimettere in uso. Chi ne soffre le conseguenze più di tutti però siamo proprio noi del Ministero, costretti a rimanere giorno per giorno fra l’incudine del censore e il martello del censurato. Alla protesta dell’uno, segue la contro protesta dell’altro; a tutti e due si aggiungono le proteste degli undici ministeri e specialmente dei due ministeri militari, che non lasciano mai di inviare a Palazzo Braschi i loro rilievi: «Segnaliamo a codesto ufficio che il giornale Tale ha pubblicato nel suo numero… etc». È bisogna promettere che la cosa non si ripeterà e fare circolari su circolari. Al Ministero si è dovuto creare un ufficio apposito dove gli impiegati armati di… doppia lente, rivedono quotidianamente le buccie ai censori di tutta Italia attraverso circa 160 quotidiani. Un inconveniente dei più lamentati è stato quello della disparità di trattamento fra l’una e l’altra città: gli è che non tutti i censori hanno lo stesso cervello…
— Quando lo hanno!
— …e non è possibile che la stessa notizia sia esaminata con criterio perfettamente eguale, nello stesso momento, a Palermo, a Roma e a Milano. Tuttavia ora la notte sono state poste a disposizione degli uffici le linee telefoniche, in modo che i censori possano tenersi in contatto e consigliarsi sulle varie notizie.
— Così prevale… regolarmente il più feroce! Ho voluto riferire le parole del comm. Baldassarre, ad uso e consumo del mio postero storico. Non credo che i miei colleghi contemporanei possano esserne ammansiti e d’altra parte proprio non ho il coraggio di consigliarli a cedere le armi.
■ Ma se Messene piange, Sparta non ride. La censura all’estero non è meno feroce di quella italiana. Il… modo di usarla è uguale tanto in Francia, che in Inghilterra, che in Russia e in Italia: i giornali debbono inviare all’autorità la loro prima copia e attendere il «visto ». Per fare più presto in generale si mandano le piccole «bozze» di ogni articolo e gli «stamponi» della pagina, via via che l’impaginazione procede. Il censore esamina, vaglia, pesa e… taglia. Badate: le forbici della censura moderna son proprio simboliche, anzi credo che in tutti gli uffici del Regno non ne esista un solo paio. Ma sono egregiamente rimpiazzate da un modesto lapis bleu o rosso, da un timbro turchino e da una stampiglia con tanto di «veto» scritto a caratteri lapidarî. Così è dunque, come in Italia, nelle altre nazioni.
■ In Francia la censura è arrivata a fare a pezzi le illustrazioni. L’Excelsior è uscito un giorno, caso più unico che raro, con un cliché dal quale Madama Anastasia aveva portato via di netto ben due personaggi lasciando la sola sagoma bianca! E tutti ricordano la lotta feroce che Giorgio Clemenceau sostenne nei primi mesi della guerra con i censori: pubblicava il suo vecchio Homme Libre dal quale tuonava ogni giorno contro il Governo, il Parlamento, i nemici, gli amici… Fu censurato ed uscì lo stesso coi pezzi incriminati intatti. Allora fu sospeso per un mese. Ma il «tigre» non si dette per vinto e fondò un altro giornale: «L’Homme Enchainé», dal quale riprese la sua campagna un po’ contro tutti. Fu censurato ancora, fu nuovamente sospeso e minacciò di mettere al mondo un terzo uomo, L’Homme Suspendu…
■ Gustavo Hervé, nella sua Guerre Sociale ha istituito addirittura una rubrichetta in cui domanda direttamente alla censura se si può parlare di questo o di quell’argomento: «Peut-on le dire?». Ma spesso e volentieri anche sotto la domanda così educata appaiono degli squarci bianchi che sono la risposta non dubbia.
■ Consoliamoci dunque, ché per la censura tutto il mondo è paese. E speriamo che venga presto il giorno in cui, celebrando la pace e la vittoria, i giornali deporranno per sempre nel sepolcro la vecchia Anastasia.
■ Alla lapide potranno pensare i censurati che hanno trovato, in questi otto mesi di tagli, le definizioni più feroci per la loro persecutrice. Questa è una delle meno diffamatorie, ed ha il pregio di essere stata coniata sul fronte durante la visita dei giornalisti nel settembre scorso:
La censura è quella cosa
Che comanda al giornalista
Di non dir cosa non vista,
Quella vista di tacer. “
