In viaggio con Giacomo Casanova (Il turismo nel secolo XVIII) (1911)

Da La Lettura, Anno XVII, N. 1, gennaio 1911.
Di Vincenzo Bucci.

” ■ Ai pigri viaggiatori spirituali, ai turisti dell’immaginazione, che amano il moto con la eccitabile fantasia, ma col corpo indolente preferiscono la quiete, io propongo un dilettoso viaggio — in ispirito, si capisce a traverso l’Europa. — E’ troppo poco — diranno i turisti dell’immaginazione — Con la fantasia si può fare ben altro; e noi si vorrebbe qualche cosa che uscisse dall’ordinario. — Benissimo. Aprano le Memorie di quell’instancabile vagabondo del settecento, di quel celeberrimo avventuriero italiano che fu Giacomo Casanova, si lascino condurre da lui, lo seguano un po’ dappertutto e vedranno che non si tratta di un viaggio comune.
■ La vita del Casanova fu vita di movimento continuo. Talvolta obbedendo alla necessità, tal altra al suo spirito avventuroso o all’invincibile suo bisogno di cambiar sede e, diremo con una frase viva in quel secolo, di correr le poste, l’irrequieto veneziano non fece che viaggiare. Visitò e conobbe tutta l’Europa, e la percorse en touriste, col desiderio di veder cose nuove. Le particolarità dei paesi attraversati, la loro diversa bellezza, i costumi degli abitanti non isfuggirono alla sua attenzione se non quando, incalzato da troppe cure, (spesso i viaggi del Casanova erano fughe) egli non ebbe né tempo né voglia di considerarli.
■ Avranno, dunque, una guida preziosa coloro che vorranno rifare con lui, nel suo secolo, il giro d’Europa, ed io li esorto a preparare sùbito le valigie. Né mi limiterò soltanto ad esortarli, ma metterò a profitto la poca esperienza acquistata nel giro, che a mia volta ho già fatto, per informarli delle condizioni del turismo nel secolo decimottavo: poche notizie, desunte dalle stesse Memorie del Casanova; appena tanto che basti per mettersi in cammino con qualche utile conoscenza.

“Giacomo Casanova.”

■ I viaggi, si sa, erano lenti nel secolo decimottavo. Ma non s’impressionino i turisti fantastici: erano lenti per quelli che viaggiavano per davvero. Essi, quando vogliano far molta strada con un salto, non hanno che da saltar… molte pagine.
■ Fra paese e paese esistevano vere e proprie linee carrozzabili, interrotte ad ogni otto miglia in circa dalle poste: catapecchie il più delle volte e semplici scuderie pei cavalli di ricambio, spesso anche alberghi pei passeggeri; e lungo queste linee, con un orario piuttosto approssimativo, (qualche cosa, chi voglia figurarselo al vivo, come quello delle nostre ferrovie) transitavano le pubbliche diligenze. Quando s’aveva una borsa ben fornita si poteva noleggiare una vettura per conto proprio e farvi attaccare molti cavalli; ma comunque si cercasse di correggerli, i difetti di quei mezzi di trasporto erano sempre il disagio e la lentezza. Alla lentezza s’aggiungevano i pericoli: le vie terrestri erano infestate di malandrini, le vie marittime di corsari; e contro i loro soprusi le leggi avevano, sì, disposizioni rigorose, ma che venivano malamente eseguite. I boschi più frequenti e più folti, le contrade più spopolate, la polizia meno vigile facilitavano le imprese dei ladroni; e questi avevano buon giuoco contro i poveri viandanti, che potevan dire d’essersela cavata bene quando rimanevano, nudi e crudi, in mezzo a una strada. Ma v’erano (coraggio, turisti dell’immaginazione!) v’erano altre insidie lungo il cammino: osti ricattatori, accordati con gli sbirri, gabellieri insolenti e prepotenti, che si appigliavano ad ogni minuzia per estorcere denaro; postiglioni avidi; bari, ciarlatani, mariuoli e avventurieri: genìa, quest’ultima, assai numerosa nel secolo decimottavo e nomade per natura, così che il viaggiatore la incontrava sempre sui suoi passi e per poco che fosse ingenuo o inesperto s’impigliava nelle sue reti.
■ Tanta varietà di peripezie e di pericoli davano, a chi si metteva in un lungo viaggio, l’impressione d’ingolfarsi in un’avventura, e stabilivano fra i compagni di strada una rapida intrinsechezza, come tra gente affratellata da un comune destino. Oggi non è più così. Si viaggia con troppa frequenza, con troppa facilità e, sì, anche con una certa sicurezza; i compagni mutano ad ogni tratto, si rinnovano ad ogni stazione, e son molti, e tutti abituati ai lunghi tragitti e preoccupati, in questo secolo positivo, solamente di sé. Allora, invece, le condizioni stesse del viaggiare creavano, per necessità di cose, la socievolezza e la famigliarità. Nelle anguste diligenze limitato era il numero dei passeggeri e quindi raccolta e quasi intima la compagnia. Nel ristretto spazio della vettura sì stava pigiati, gomito a gomito, naso a naso, piedi contro piedi: impossibile non iscambiarsi fin dal principio qualche parola, se non per altro per chiedersi almeno scusa d’essersi urtati l’uno con l’altro. E così, dai convenevoli e dalle scuse cominciava la conversazione. Inoltre, i nostri nonni del secolo decimottavo erano curiosi, pettegoli, ciarlieri: amavano i complimenti, gustavano le galanterie. Il cicisbeo cavava di tasca la tabacchiera d’oro smaltata o la confettiera guarnita di perle e, prima di servirsene, le faceva girare intorno fra i compagni. Sarebbe stato mal garbo rifiutare l’offerta; ed ecco che l’oggetto prezioso, passando da mano a mano, accompagnato da un motto cortese, presentava l’uno all’altro i viaggiatori. I quali non domandavano di meglio che di conoscersi, di associarsi, di conversare: la strada era tanta, così lungo era il tempo che dovevano stare insieme: come si sarebbe passato cotesto tempo se non ciarlando? E le fermate, poi; le lunghe fermate ad ogni posta, nell’attesa che si cambiassero i cavalli; e le soste nei piccoli alberghi, ove spesso la scarsezza delle stanze costringeva due sconosciuti a dormire assieme: tutto, infine, accomunava tra di loro i passeggeri.

“Calesse per viaggio del sec. XVIII.”

■ La conversazione era, dunque, animata in viaggio, e per giunta, viva e colorita fra i viaggiatori italiani, a causa della lingua. Le divisioni politiche, la chiusa vita regionale sviluppavano ed afforzavano l’uso dei dialetti. Ne resultava un incrociarsi d’idiomi, tutti immediatezza, vivacità, colore. Così, in queste Memorie del Casanova, troviamo, in una diligenza, un avvocato napoletano, che pure doveva essere persona colta, e due dame romane a conversare animatamente, ciascuno nel proprio vernacolo; ed ascoltiamo un dotto pontefice, Benedetto XIV, dire al Casanova, recatosi a visitarlo a Monte Cavallo, che «senza imbarazzarsi a parlar toscano, gli parlasse pure in veneziano, come egli parlerebbe bolognese».
■ Nei viaggi da nazione a nazione la conoscenza d’una lingua più generale era necessaria, e questa lingua, allora come oggi, era la francese. Ma in un secolo in cui non si discuteva l’insegnamento delle lingue classiche ed il latino si sapeva un po’ meglio che ai nostri giorni, non era raro che due viaggiatori colti, ignorando ciascuno l’idioma nativo dell’altro, si parlassero appunto in latino. V’è di ciò un esempio nelle Memorie, ove s’incontra un capitano ungherese che racconta i fatti suoi al Casanova con maccheronica eleganza d’eloquio e si meraviglia che a Roma la lingua latina «non fosse generalmente parlata nella buona società, o almeno non fosse così comune come in Ungheria». Lo stesso capitano ci fornisce, nel suo racconto, un particolare assai curioso del turismo nel settecento. Egli narra che, volendo visitare Civitavecchia, vi andò con un cicerone che parlava latino.Il capitano non dice nulla dell’eloquenza della sua guida; ma nessuno vorrà mettere in dubbio la purezza d’un latino così… ciceroniano.

“Carrozza italiana di grande comparsa del secolo XVIII.”

■ Il Casanova (ci convien dire qualcosa anche di lui, che abbiamo preso a prototipo dei turisti del settecento), nei molti anni trascorsi a Parigi, imparò il francese abbastanza bene; ma sulle prime s’impacciava ad ogni frase e diceva spropositi su spropositi. Un giorno una dama gli domandò se voleva trattenersi a colazione con lei: — Non — rispose il veneziano — c’est fait; j’ai pris un café avec deux savovards. — La dama inorridì, e solo dopo un’ampia spiegazione riuscì a persuadersi che il suo amico non era un antropofago, che non aveva inghiottito una bottega e che i due savoyards erano degl’incruenti biscotti e non degli abitanti della Savoia.
■ Infine, discorrendo di linguaggi internazionali, non ne trascureremo uno che ancora è di moda ai nostri giorni, ma che allora doveva esser più facile a parlare, in quelle anguste diligenze, quando rimpetto a un giovine intraprendente sedeva una dama civettuola e vezzosa: il linguaggio… dei piedi.


■ Il mezzo di trasporto più economico, e perciò più in uso, era la diligenza. Generalmente, questa vettura aveva torma rettangolare; ma in Francia se ne usavano anche di ovali, come quella grossa carcassa che trasportò, una volta, l’avventuriero veneziano da Lione a Parigi, e che era scomoda appunto per la sua foggia, poiché nessuno poteva giovarsi degli angoli. L’eguaglianza, nel paese che più tardi l’avrebbe imposta alle genti, è incominciata dalle vetture.
■ La diligenza: quante buone cose antiche si rievocano a questo nome, e che nostalgia nel rievocarle!
■ Al mattino, di buon’ora, si udiva nella via un suono di corno: il postiglione annunziava la partenza. Nelle case, i partenti affrettavano gli ultimi preparativi, ma senza troppo affannarsi. Quella grossa carrozza, laggiù nella via, aveva un’aria così tranquilla, così bonacciona, che pareva proprio dire ai viaggiatori: «Fate pure il vostro comodo. Si arriverà lo stesso». E poi, i viaggiatori avevano accaparrato il posto un pezzo prima della partenza, e la carrozza non avrebbe mai commesso la sgarberia di lasciarli a terra.
■ Giungevano alla spicciolata, si scambiavano un sorriso, un saluto, una presa di tabacco, stavano un poco a questionare cerimoniosamente per decidere chi dovesse salir prima, e finalmente eccoli seduti. Ci son tutti? No, manca qualcuno ancora. Ed ecco sbucare da una via il ritardatario, col tricorno di traverso, le falde della zimarra al vento, il bastone sotto l’ascella: ha corso un poco; ma diamine! gli orari c’erano anche allora e la tolleranza aveva pure un limite nel secolo decimottavo…

“Lettiga del sec. XVIII sorretta da mule.”

■ Si partiva. L’enorme vettura, con i suoi cinque cavalli quali al trotto quali al galoppo, col suo grosso ventre giallo, con la cassetta pel cocchiere, con i tre posti dinanzi coperti dal mantice di cuoio, con la parte interna dove si stava in sei e l’imperiale dove si stava in quattro, col dosso tutto carico di bagagli, di animali domestici, di gabbie d’uccelli, procedeva solenne e grottesca, rumoreggiando sul lastrico, rimbalzando sui ciottoli, fra il tintinnio dei sonagli, l’abbaiare dei cani e gli schiocchi di frusta del conduttore.
■ Era un personaggio, il conduttore; e tutti lo conoscevano di fama e sapevano già da prima se fosse quel tale prudente abile sicuro, che conduceva i passeggeri sani e salvi alla méta, o quel tale altro, beone dormiglione dappoco, che spesso li rovesciava giù nei fossi delle strade. E non soltanto i passeggeri avevano una gran considerazione per questo personaggio, dai quale dipendeva la salvezza delle loro costole, ma anche gli osti, che cercavano di cattivarselo in tutti i modi. Egli, infatti, esercitava sui viaggiatori una specie di tutela. Nel prezzo che questi gli sborsavano per il posto in vettura erano compresi il vitto e l’alloggio ad ogni fermata prestabilita. Ed egli sedeva a mensa con loro, quasi fosse il capo di quella famiglia randagia, ed ordinava, mercanteggiava e pagava per tutta la compagnia.
■ Erano pesanti quei carrettoni pubblici e poco adatti per chi avesse gran fretta. E gran fretta aveva il Casanova quando rapì alla madre la bellissima Corticelli e se la condusse, in una sedia di posta, da Firenze a Bologna. La sedia di posta era molto più leggera della diligenza, ma scoperta dinanzi; ed il vento, che in quella notte d’ inverno soffiava gelido dalle gole dell’Appennino, sferzava i volti ed agghiacciava i corpi dei fuggenti, cui non giovava, a proteggerli, nemmeno il fuoco d’amore. I fuggenti, però, si fermarono alla prima posta e si misero subito in un buon letto caldo; e noi a questo punto li lasceremo, ché il turismo c’insegna, quando si può, a non metterci per le vie… scabrose.


■ Il mezzo di trasporto più spedito e più rapido era il cavallo da sella. Si viaggiava preceduti da un postiglione, anch’egli montato in sella, col compito di custodire i cavalli, di guardare che non fossero, lungo il tragitto, trafugati o strapazzati, e, giunti alla posta seguente, di ricondurli alla loro posta. Per istrada, se, a causa d’un qualche accidente, il viaggiatore non potesse più servirsi del suo ronzino, aveva diritto di montare quello del postiglione. Ma sembra che talvolta i postiglioni s’infischiassero di un tal diritto.
■ Una notte che Casanova galoppava a spron battuto verso Padova, il suo cavallo cadde e rimase storpiato. Avendo fretta, egli montò senza altro su quello dell’ accompagnatore, che però non voleva saperne di cederglielo, e, afferratolo per la briglia, lo tratteneva. Casanova, dopo aver tentato di persuadere il testardo, visto che non intendeva ragioni, estrasse la pistola e gli tirò un colpo a bruciapelo, ma senza colpirlo; poi, profittando dello sgomento di lui, puntò gli sproni nei fianchi al ronzino e s’allontanò. Il padrone della posta, quando seppe l’accaduto, non si diede punto pensiero del postiglione, del quale si poteva credere, non essendosi ancora ripresentato, che giacesse morto o ferito in qualche fosso lungo la strada; ma badò soltanto a strepitare pel suo cavallo storpiato. E lo stesso avventuriero, a questo punto, esce fuori a dire che di proposito egli aveva mancato il colpo di pistola, ma se anche il postiglione fosse rimasto ucciso, nessuno gli avrebbe chiesto conto di quel delitto.

“Portantina del sec. XVIII.”

■ Le vetture postali — diligenze, sedie o berline — non sempre soddisfacevano il viaggiatore, che spesso, quando la borsa glielo permetteva, preferiva di acquistar la carrozza adatta al viaggio che era per fare, pur servendosi dei cavalli che si noleggiavano lungo le poste. La necessità di acquistar vetture e poi di disfarsene ad ogni tratto, per sostituirle con altre più convenienti, doveva essere un impaccio assai grave alla speditezza del viaggio ed un fastidio non lieve pel viaggiatore. Ma era una necessità. A Wesel, infatti, il nostro turista, se vuol continuare il viaggio, deve disfarsi della sua sedia di posta, perché i cavalli del paese non sono abituati a tollerare la stanga; ed a Saint Jean-de-Luz, per potersi recare, traverso i Pirenei, a Pamplona, è costretto a vendere la carrozza con cui ha viaggiato finora, e che sostituirà con un’altra quando avrà valicato le montagne a cavallo d’un mulo. Pure con muli egli passò il San Bernardo, nel suo ritorno dalla Svizzera; ma nell’andata aveva percorso la via del Moncenisio, servendosi di un mezzo più comodo: la portantina.
■ Le persone di qualità si distinguevano, viaggiando, per la ricchezza dei loro equipaggi, che consisteva specialmente nella comodità delle vetture e nel gran numero di servitori e di cavalli. Non era decente che un gentiluomo andasse pel mondo senza domestici: doveva condursene dietro almeno uno; e la gentildonna che non avesse seco un laquais a cassetta ed a fianco una dama di compagnia era tenuta in poca considerazione. Completava l’equipaggio un corriere, che aveva il còmpito di precedere e di apprestare nel luogo dell’arrivo l’alloggio e quant’altro occorresse agli esigenti viaggiatori.
■ Ma non sempre l’alloggio si trovava; e poi, in certi casi di gran fretta, si viaggiava anche la notte. In questi casi, la vettura più adatta era la così detta dormeuse: ampia carrozza, provveduta di sedili a lettuccio ed imbottita di dentro; ma dispendiosa, perché a tirarla bisognavano parecchi cavalli. Il Casanova si giovò molto della sua, quando da Riga si trasferì a Pietroburgo, con una temperatura di quindici gradi, e quando si recò a vedere una grande rivista militare, che ebbe luogo a quindici verste dalla metropoli russa, con l’intervento dell’Imperatrice e di tutta la corte. Nelle due notti che i convenuti alla festa passarono lontano dalla città, in un luogo quasi deserto, mentre tutti dovettero spendere un occhio del capo per essere malamente alloggiati nelle catapecchie dei prossimi villaggi, egli se ne stette, con una sua amante, la bella Zaira, nella soffice dormeuse, dove il giorno venivano gli amici a visitarli; e Zaira gongolava nel fare ai mal ricoverati ospiti gli onori di quella sua casa ambulante.

“Carrozza Arconati nella Villa di Castellazzo.”

■ Anche nel secolo decimottavo si poteva viaggiare con grande comodità, e, come oggi nei nostri treni di lusso, si poteva, essendo in una vettura, aver l’illusione di trovarsi quasi in casa propria. Bastava esser ricchi. Il duca di Richelieu, per esempio, possedeva una berlina da viaggio magnifica, con letto, tavolo, specchi, lavabi, soffici sedili, tappeti; insomma, con un confortable dei più raffinati. Lasciando Choisy-le-Roi, nel 1742, il duca fece stiepidire il letto, vi si coricò solennemente, alla presenza di trenta persone, poi diede ordine al postiglione di partire e al cameriere di non risvegliarlo se non a Lione. La berlina non era un supplizio pel cardinale di Richelieu…
■ Un mezzo di trasporto delizioso, tale da fargli dire che sarebbe stato felice chi avesse potuto compiere con esso il giro del mondo, il Casanova lo trovò in Olanda. Era una barca posata su una slitta a vela, che per forza di vento trascorreva dolcemente sul ghiaccio, con una velocità massima di quindici miglia all’ora. Ma siccome il timone non serviva a nulla, bisognava avere il vento sempre in poppa: non era possibile né andare ad orza, né col vento di lato. «Ciò che mi sorprese moltissimo — scrive l’autore delle Memorie — fu l’esattezza con la quale i marinai abbassarono la vela proprio al momento opportuno; ché la slitta, anche dopo questa operazione, séguita a correre un gran tratto. Il nostro naviglio si fermò precisamente alla riva: se avessero abbassata la vela un po’ più tardi, sarebbe andato a infrangersi contro la sponda».

“Carrozza del Cardinale Pozzobonelli (1744).”

■ Così il Casanova poté provare, pur nel secolo decimottavo, l’ebrezza della velocità, e lanciare anche lui la sua brava iperbole, dicendo che «il moto della slitta pareva rapido come quello della freccia nell’aria». È una similitudine un po’ pretenziosa per un turista del settecento, ed un po’ umiliante per noi, che l’applichiamo spesso anche ai nostri veicoli. Ma le freccie iperboliche, si sa bene, hanno l’andatura del loro tempo.


■ Come erano le strade nel secolo decimottavo? Le Memorie sorvolano su l’importante argomento, o solo qua e là vi accennano, ma di sfuggita.
■ In Prussia erano pessime, a causa del terreno sabbioso: se lo seppe il Casanova, che mise tre giorni a percorrere otto miglia tedesche fra Macdeburgo e Berlino. Non così in Inghilterra, dove, fra le cose che maggiormente colpivano, a quei tempi, il viaggiatore straniero, erano «la bellezza delle strade e delle vetture postali, la modicità delle corse, la facilità di pagarle con un pezzo di carta e la rapidità dei cavalli da tiro, benché non vadano mai se non al trotto». Buone dovevano essere anche le strade francesi, se per lodare quella che da Pamplona, a traverso la Navarra, conduceva fino in Castiglia, il Casanova la paragona alle prime. Ma l’eccellente strada di Pamplonaera, in Ispagna, un’eccezione dovuta al generale De Gage, che l’aveva fatta costruire durante il suo governatorato in Navarra. In Castiglia le cose mutavano completamente d’aspetto: non cattive strade, ma addirittura mancanza di strade, ed un terreno aspro, con salite brusche, discese rapide, fra colline brulle e disabitate.
■ Non parliamo, poi, degli alberghi castigliani. A Madrid, dove l’inverno è assai rigido, non si trovava nemmeno una stufa nelle locande, e se l’avventore si lagnava con l’oste perché aveva freddo, questi gli consigliava di andare a prendere un po’ di sole alla Puerta del Sol.
■ Eppure, come dovevano essere simpatici quegli alberghi del settecento, anche coi loro disagi! Molto più ristretti dei nostri, e più alla buona, vi si stava tutti come in famiglia, vi si stringevano sùbite amicizie, vi si godevano facili e fuggitivi amori… Già, gli osti avevano sempre qualche graziosa figlia da mettere alle costole dell’avventore. Ella sedeva a mensa con lui, sotto pretesto d’intrattenerlo, si lasciava persuadere senza troppa resistenza ad accettare qualcosa, suggeriva il piatto prelibato e la bottiglia più fina e, terminato il pasto, si eclissava, lasciando all’industre genitore il compito di continuare il téte-à-téte con la vittima; e l’oste, un ineffabile sorriso su le labbra e il tovagliolo sotto il braccio, mescolando il miele delle sue moine col pepe delle sue cifre, veniva a fare il conto del pranzo in due.

“Berlina da campagna.”

■ Le stanze erano poche negli alberghi, ma provviste di tre o quattro letti. Quando i passeggeri abbondavano, l’oste li distribuiva come meglio poteva; così che spesso due o più, sconosciuti fra loro, si adattavano a dormire in una medesima stanza. Al Casanova capitò perfino di dividere la sua camera con qualche bella viaggiatrice. Andando, una volta, da Napoli a Roma, conobbe nella diligenza un avvocato, che viaggiava con due donne. Giunti a Terracina, non trovarono nell’albergo che una sola camera disponibile. Poco male: si misero d’accordo e si divisero i tre letti in modo che le donne ne ebbero insieme uno e gli uomini presero gli altri due. Si può immaginare un… cameratismo più grande fra compagni di viaggio? E un’altra volta, in una locanda di Treviso, il nostro avventuriero, che fu anche un donnaiuolo sfrenato, divise la stanza con un buon prete… (un momento!..) e con la sua bella nipote. Ma qui le cose non andarono lisce, e noi faremo bene a cambiar discorso.
■ E’ strano trovare, in quel tempo, così liberi usi e tanta assenza di scrupoli accanto a leggi pedantesche e severe, come quella del Sant’Uffizio, che non permetteva ad alcun uomo di… coabitare negli alberghi con una donna, se non provava, con regolari certificati, d’esserle marito. Avuto sentore che il tale, nel tale albergo, infrangeva codesta prescrizione, gli sbirri si presentavano all’uscio del malcapitato, e, coltolo in flagranti, lo conducevano dinanzi al bargello. Era facile, veramente, placar lo zelo dei poliziotti con qualche pizzico di scudi ben distribuito; ma questa legge, che facilmente si eludeva in Italia, si osservava ferocemente in Ispagna, dove, per facilitare il compito agli sbirri, gli usci delle stanze, negli alberghi, dovevano avere il serrame dalla parte esterna. E i ladri lo sapevano…


■ Non erano tutte alla buona le locande, nel secolo decimottavo: in alcune città se ne trovavano di molto comode, se non di sontuose. «A Parigi — scriveva l’autore delle Memorie — mi piacquero molto, negli alberghi, la pulizia, la tavola ottima, la prontezza del servizio, i letti eccellenti, il contegno modesto della persona che serve a tavola: una fanciulla, il più delle volte, ma così costumata, da inspirare rispetto a qualunque libertino. Chi, in Italia, non è preso da sdegno, vedendo la sfrontatezza e l’insolenza dei servi d’albergo? Nella Francia del mio tempo non si sapeva che volesse dire tirare il collo agli avventori. La Francia era veramente la patria degli stranieri, era il paese della cortesia».

“Sediolo italiano del sec. XVIII.”

■ Lo straniero che vi andava per la prima volta doveva trovarsi un po’ in imbarazzo fra quei francesi, così attaccati alle forme della correttezza più scrupolosa, della più minuziosa politesse. E non soltanto in imbarazzo: a quei tempi, una trasgressione delle forme poteva costare a chi la commettesse qualche buon colpo di spada. Fu fortuna pel Casanova l’incontrare, nella sua prima andata in Francia, e proprio in quella diligenza ovale che lo portò da Lione a Parigi, un buon pedagogo, che durante il viaggio gli dette una lunga lezione di politesse. — «Dimenticate la particella No: non è parola francese. In luogo di questa sillaba villana, dite: pardon». — E il nostro avventuriero se la tenne a mente, e nei primi tempi, a Parigi, non fece che dimandare pardon.
■ Una sera, a teatro, un tale gli pestò un piede, e lui subito:
— Pardon.
— Anzi — rispose l’altro — siete voi che dovete perdonare.
— No, voi.
— No, voi.
— Ebbene, signore: perdoniamoci l’uno con l’altro, ed abbracciamoci.
L’abbraccio pose fine alla disputa, che altri menti chi sa come sarebbe finita.
■ La politesse non era, però, una prerogativa di tutti i francesi. A quel tempo esisteva, in Francia, una classe di gente rinomata, fra i viaggiatori, per la sua villania. Erano i gabellieri. Non dovevano essere molto garbati in nessun paese, ma nel regno di Luigi XV ne allignavano di terribili. «Fra costoro — dice il Casanova — si trovava la schiuma della canaglia». Abusando dell’uffizio, essi ricattavano i passeggeri che non volessero o non potessero cattivarseli con qualche mancia, o che li trattassero come meritavano; e la rappresaglia era feroce. Ad Amiens, la carrozza del Casanova s’accosta alla porta; le arpie si precipitano su di lui e gli domandano se ha nulla contro gli ordini del re; il viaggiatore, che ha un po’ le lune, risponde male; ed ecco che i gabellieri gli mettono le mani nei vestiti, lo frugano come un ladro, aprono i suoi bauli, li rovistano da cima a fondo, buttano per aria tutto. Un gabelliere, messosi ad ispezionar la carrozza, vi trova il resto d’una libbra di tabacco, e col contrabbando in pugno torna fra i suoi compagni, gridando: «Vittoria!» Si sequestra la vettura e s’ingiunge al Casanova di pagare, nientemeno, duecento franchi di multa.
■ Una razza non meno abbietta di questa dei gabellieri francesi era quella dei «Commissari di castità» viennesi, instituiti nella capitale austriaca dal bigottismo di Maria Teresa: vili spie che avevano il compito di denunciare gli amori illegittimi. Seguivano per via le donne; quando queste entravano in una casa, le aspettavano all’uscita, le interrogavano: per poco che si mostrassero imbarazzate a rispondere, le conducevano in prigione e quivi sequestravano loro denari e gioielli, che non restituivano mai. Erano, insomma, una squadra di ladri privilegiati; «una instituzione, conclude il Casanova, che rendeva il soggiorno di Vienna sgradevole ai forestieri». E certo, fra i molti inconvenienti cui sottostava chi viaggiasse in quel secolo, questo di Vienna doveva sembrare al nostro gaudente avventuriero il più insopportabile…
■ Più insopportabile, forse, della stessa quarantena nei lazzaretti, che pure non era piccola noia, e nemmen rara. In Italia, per tutto ciò che venisse dal Levante, la quarantena era perpetua; ma anche fra i suoi piccoli Stati si prolungava, talvolta, per degli anni, e a prolungarla bastava il ripicco di un governo, qualche futile bizza. Nel 1744, ad esempio, tra Venezia e le terre del Papa codesta formalità fu mantenuta, pur non essendovene bisogno più, solo perché il Papa voleva che i veneziani fossero i primi ad aprir le frontiere e questi esigevano che le aprisse prima il pontefice. E fra i due litiganti il terzo, cioè il povero viaggiatore, godeva…


■ Quali mezzi di trasporto, in uso nel settecento, non esperimentò il Casanova? Tutti li conobbe: e quando la necessità ve lo costrinse, si servì anche delle proprie gambe: un mezzo che, nel caso nostro, possiamo ben considerare come proprio del secolo decimottavo, poiché quelle del Casanova erano gambe… del settecento.
■ Il nostro avventuriero non fu podista per vocazione. Specialmente in viaggio, gli piacevano le comodità, il lusso; gli piaceva distinguersi; e come il suo secolo non aveva ancora inalzato il podismo a dignità di sport, codesto genere di locomozione doveva sembrargli, oltre che troppo incomodo, anche troppo… pedestre. Ma una volta, recandosi da Venezia a Roma, si fermò in Ancona, e là, attirato da alcuni bari in una bisca, vì perdette fino all’ultimo zecchino, e se volle continuare il viaggio gli convenne farlo a piedi.
■ Ebbe a compagno di strada un monaco francescano, un curioso tipo di fratacchione e di briccone, che campava la vita girovagando da un paese all’altro e scroccando laute elemosine dappertutto. «Chi va piano va sano e va lontano» era la buona, vecchia massima podistica del frate. Il Casanova, invece, avrebbe voluto correre; e i due compagni spesso s’accapigliavano per far prevalere ciascuno il proprio metodo di marcia, e qualche volta spingevano il podismo fino a darsi delle pedate.
■ Finalmente si accordarono: il monaco s’affretterebbe un po’ di più, e, in cambio, il Casanova lo libererebbe per un tratto del suo pesante mantello. Ed avvenne un curioso scambio d’indumenti: fra Stefano infilò, su la tonaca, la redingote del compagno, e questi si ammantò della cocolla fratesca. Quando l’ebbe addosso, non comprendendo come mai potesse pesar tanto, Casanova si mise a frugarvi dentro. Non era una cocolla, era una dispensa ambulante, con dodici tasche — senza contarvi quella di dietro, che fra Stefano chiamava il batticulo — tutte piene zeppe di pane, vino, carne fresca e salata, uova, formaggio, prosciutto. Se l’unzione di quel religioso si fosse misurata dall’untume delle sue saccocce, egli avrebbe potuto ben chiamarsi il più unto fra tutti gli unti del Signore…

“Pietro Longhi: Il ciarlatano – R. Acc., Venezia.”

■ Un vero record di velocità pedestre il nostro avventuriero lo batté quando evase dai terribili Piombi di Venezia, dei quali aveva concepito un tale orrore, che non appena ne fu fuori se li volle togliere dalla memoria ed anche… dai piedi. Egli infatti andò per tre giorni e tre notti, e tutt’altro che con piedi di piombo, a traverso i campi, i boschi, i monti, riposando su la paglia e mangiucchiando sotto gli alberi; e benché esausto, con le caviglie gonfie, le scarpe rotte, non cessò di correre se non quando ebbe passato il confine della Repubblica. A Borgo di Valsugana, al sicuro ormai dalle persecuzioni dei birri, si licenziò del podismo per tutta la vita; ma fin nella tarda vecchiaia gli rese onore e ne consacrò in un passo delle Memorie la grande utilità, scrivendo che on ne saurait trop exercer la geunesse à la marche. Ed egli lo sapeva per esperienza che cosa valgano due buone gambe, in certe occasioni…


■ Andremmo troppo per le lunghe se volessimo seguire passo passo, nella sua vita errabonda, l’avventuriero veneziano; e noi dobbiamo esser brevi. Ma prima di «calar le vele e raccoglier le sarte», accenniamo, appunto, ai mezzi di trasporto marittimi e fluviali usati, ne’ suoi viaggi, dal Casanova.
■ Il bizzarro uomo fu anche navigatore. E chi, infatti, potrebbe più di lui vantarsi di aver navigato, e di aver saputo navigare ad ogni vento e di aver navigato în buone e in cattive acque?… Il primo suo viaggio fu proprio un viaggio per nave, ché egli uscì la prima volta da Venezia per andare a Padova, e vi andò in burchiello, lungo il canale della Brenta.
■ «Il burchiello — scrive egli stesso — può esser considerato come una piccola casa galleggiante. V’ha una sala con un gabinetto in ciascuna delle estremità, e v’hanno ricoveri per i domestici a prora ed a poppa. È un rettangolo di imperiale, orlato di finestre con vetri e imposte».
■ Era delizioso risalire il canale tranquillo, in quel naviglio scivolante su l’acqua come una slitta sul ghiaccio, non accorgendosi del moto se non pel continuo e lento sfilare degli alberi delle sponde. Ben altro navigare fu quello da Venezia a Corfù, nell’Adriatico in tempesta, sotto un cielo saettato da folgori e da lampi e corso da enormi nuvoli neri, che il cappellano della nave, scambiandoli per diavoli, esorcizzava di su la tolda; e ben altro fu il tragitto da Otranto a Corfù, sotto la minaccia d’un brigantino di corsari, che manovrava per mettere sotto vento e catturare la feluca nella quale era il Casanova.
■ Anche in feluca nave piccola e sottile, di corso veloce, a vela e a remi, fornita di due alberi per lo più leggermente inclinati a prora, con vela latina — il nostro veneziano si condusse da Genova ad Antibes. Temendo i corsari, egli munì la snella barca di due petrieri — mortai dei quali si faceva uso per iscagliar pietre — e di ventiquattro fucili. Ma non gli abbisognarono le armi in quel viaggio che fu assai piacevole e senza pericoli né di assalti né di tempeste.
■ Traversò più volte l’Adriatico, quando in tartana, quando in peota. Le peote — barche di mediocre grandezza, con una coperta o ponte e con più vele — erano comunissime in quel mare. Delle tartane oggi ancora si fa uso per trasportare le merci: avevano un solo albero a calcese ed una vela latina con sartie a colonna, come le galee.
■ Nelle galee e nelle galeazze della Repubblica viaggiò pure, nel tempo in cui servì, da ufficiale dell’esercito, la Serenissima. Carcasse di antichissima instituzione, costose a mantenere ed ormai inservibili, le galeazze furono soppresse nel 1745; le galee scomparvero anch’esse, più tardi, benché il Casanova profetizzasse nelle Memorie che la Repubblica non le avrebbe mai soppresse «innanzi tutto, perché la flotta ha bisogno di queste navi per vogare in mari angusti, ad onta della bonaccia; e poi perché lo Stato non saprebbe che farsi dei condannati al remo».
■ Ad ogni modo questa specie di barche rendeva ancora ottimi servigi alla Repubblica, nel secolo decimottavo; e però i lettori, ai quali ha proposto l’immaginario viaggio col turista veneziano, se vogliono seguirlo diligentemente e dappertutto, si rassegnino, qualche volta, ad andare… in galera.


■ Ma per poco. In viaggio con Giacomo Casanova, più spesso e più a lungo che in acqua, si rimane… all’asciutto. Era una passione diffusissima quella del giuoco, nel settecento, ed il viaggiatore non poteva fermarsi in una città e porre il piede in un caffè, nel ridotto d’un teatro, in una casa privata o in un albergo senza che la bassetta, il picchetto o il faraone non insidiassero le sue tasche.

“Pietro Longhi: Costumi veneziani del sec. XVIII – Galleria Naya, Venezia.”

■ La truffa al giuoco delle carte era, quindi, un’arte assai coltivata e sapientemente organizzata, nella quale moltissimi si sperimentavano e molti eccellevano; e di bari di professione le Memorie ce ne presentano parecchi. Tipico, fra gli altri, quel don Bepe il Cadetto, baro ed avventuriero al tempo stesso, che il Casanova conobbe a Pesaro. Lo rincontrò, nove anni dopo, a Vienna, capitano al servizio di Maria Teresa, sotto il falso nome di D’Afflisso; più tardi lo rivide, sotto il nome non meno falso di Giuseppe Marrati, in una bisca di Lione, dove teneva un banco di faraone e dove guadagnò, in pochi giorni, 300.000 franchi; poco tempo appresso lo ritrovò ancora, in divisa di colonnello ed in fama di milionario; e, finalmente, lo rivide per l’ultima volta, in galera…
■ Un baro che la sapeva lunga era quello pseudo conte Celi, che a Verona riceveva in casa molto ospitalmente e pelava poi molto accuratamente tutti i forestieri di passaggio. Per meglio adescarli si serviva della sua amante, alla quale accordava una parte delle vincite a patto ch’ella fosse compiacente con tutti i suoi avventori, senza distinzione di simpatia né di età. E l’espediente doveva essere ottimo, poiché molti colleghi del conte lo adottavano: fra gli altri, don Antonio Croce di Venezia, quegli che propose, una volta, al Casanova di entrare come… Socio nel banco di faraone ch’egli teneva in casa sua. Anche lui aveva per puntatori alcuni ricchi forestieri, i quali facevano tutti la corte a sua moglie.
■ La presentazione di questi insigni personaggi e l’accenno ai pericoli che i viaggiatori del settecento correvano a bazzicarli non saranno inutili, spero, a quei turisti della fantasia pei quali ho spigolato nelle Memorie le poche notizie intorno al turismo nel secolo decimottavo. Seguano pure il Casanova nell’anacronistico viaggio a traverso l’Europa del suo tempo, ma non si fidino troppo né di lui né della sue conoscenze. E si guardino, sopratutto, le tasche. Comincino, anzi, a guardarsele fin da questo momento, ché forse, dopo la mia chiacchierata, potrebbero aver bisogno di qualche… riparazione.”