In memoriam: Ferruccio Mengaroni (1925)

di Luigi Serra.
Da Emporium, Vol. LXI, N. 365, maggio 1925.

“13 maggio 1925 segna una data luttuosa per l’arte italiana. Fervevano i lavori di apprestamento della seconda Biennale di Monza, che doveva essere inaugurata il 16, e nelle prime ore del pomeriggio entrava nel vasto atrio a giardino della Villa Reale una enorme cassa circolare del peso di dodici quintali che conteneva una gigantesca figurazione del capo anguicrinito della Gorgone Medusa, opera di Ferruccio Mengaroni. Il peso, !a forma, il volume, la mancanza di mezzi e di personale idoneo a muovere cose di tal fatta, rendevano ardua l’operazione del trasporto in una sala del primo piano destinata al Mengaroni ed agli altri ceramisti marchigiani. Discesa la cassa dal carro, si tentava di farle superare la prima rampa della scalea rotolandola su due tavole poggiate ad un gradino di essa ed al carro di trasporto.
D’un tratto la cassa sbanda da un lato; gli uomini di fatica si disorientano e lasciano andare: Ferruccio Mengaroni si slancia dalla parte dove la cassa s’abbatte, e da solo cerca di impedire la distruzione dell’opera sua. E’ un attimo. L’immane peso sopraffà di colpo la sua salda vigoria, la passione e lo spirito di sacrificio che la moltiplicavano oltre ogni possibilità umana. Egli è schiacciato tra la cassa e la balaustra della scalea: e quando è liberato dalla compressione tremenda esala l’ultimo respiro.

“Ferruccio Mengaroni e la sua fatale Medusa.”

La Gorgone aveva annientato l’audace che osava rievocarne l’orrido volto spietato! Ma l’artefice, composto nell’ultima quiete, che raffrenava l’impetuoso ardore irradiato fino a pochi momenti prima intorno a sé, sorrideva sereno, soddisfatto di aver salvata l’opera sua, di aver superata con essa le leggi della morte, che son di oblio e di annientamento.
Certo, non ora si pensava di ricostruire l’opera e di tessere l’elogio di questo sovrano maestro del gran fuoco, che sembrava pervenuto al culmine della vitalità creatrice, in un perpetuo fervido rinnovellamento, e che vedeva ormai riconosciuti i suoi meriti singolari.

“Trascrizione in ceramica della «Fuga in Egitto» di A. Dürer con rinnovamento cromatico.”

Perché al Mengaroni, come a molti dei grandi artisti, era toccato di essere apprezzato soltanto a poco a poco. In un momento come quello che viviamo, in cui la probità e la nobiltà artistica son divenute di una rarità impressionante, sostituite dalla più sfrontata faciloneria; in cui non si ha tempo per osservare pacatamente, per meditare, per istituir confronti; un artista come il Mengaroni, che sorgeva dalla tradizione e su essa solidamente si fondava, doveva apparire, a primo sguardo, come un copista di vecchi modelli del quale non era il caso di occuparsi. Peggio, poi, quando si pensi che la fotografia per la ceramica non dà proprio nulla di tutto ciò che è vitale in essa, cioè il colore, lo smalto, il lustro, le iridescenze e simili: quelli che giudicavano il Mengaroni attraverso riproduzioni fotografiche, sopratutto in quelle manifestazioni in cui egli interpretava antiche ceramiche o prendeva l’impulso da stampe e dipinti di vecchi maestri, dichiaravano senz’altro che si trattava di un imitatore dell’Antico…. e passavano ad ammirare quel fior fiore di maiolicari improvvisati, ultrasintetici ed ultracontorsionisti, i così detti moderni, che tendono rumoreggiando di far perdere di vista i pochi artisti autentici che vi sono. Ora, però, fortunatamente, si comincia a non esser più disposti in nessun campo dell’arte a tollerare queste prese in giro, favorite dal pudico timore di ricadere negli errori di valutazione verso nuove tendenze che nel passato si avverarono. E così si vien facendo giustizia a coloro che perseguivano in silenzio un’alta meta.

“Trascrizione in ceramica de «L’offerta» di A. Dürer con rinnovamento cromatico.”

Il Mengaroni si dedicò fin dalla fanciullezza all’arte della ceramica. Passando da una fabbrica all’altra, egli poté rendersi conto de’ vari procedimenti tecnici, delle varie tendenze artistiche, e siffatti insegnamenti corroborò con una lunga appassionata assiduità alla superba collezione di ceramiche che vanta il Museo del Palazzo Ducale di Pesaro.
In un primo periodo egli afferma le straordinarie sue doti contraffacendo l’antica ceramica. Chiunque ha veduti saggi di lui in tal genere è rimasto stupito e quindi non è da far troppo caso se or è qualche anno una grande rivista d’arte italiana abbia pubblicati con la firma di un noto studioso di ceramiche taluni esemplari del Mengaroni come opere quattrocentesche! Per riuscire a queste imitazioni così aderenti ai modelli nel carattere del segno e della notazione coloristica egli penetrò ed assimilò grado a grado la tecnica e lo spirito della antica ceramica.

“Pavimento a mattonelle.”

A questa fase, in cui dimostra come si sia per istinto e per studio assicurato un magistero vasto e possente, succede quella in cui ripete antichi esemplari ceramistici, non contraffacendoli ma interpretandoli e innovandoli, nei tipi, nello scenario, nella colorazione ed in tutte le proprietà peculiari alla ceramica.
Egli opera cioè allo stesso modo che nelle antiche officine ceramistiche, ripetendo un modello non pedissequamente, ma con varianti che gli mantengono la freschezza della creazione, lo avvivano dell’impronta di un’altra personalità artistica. Naturalmente bisogna aver la pazienza di confrontare la ripetizione col prototipo per riscontrare quel che v’ha di trasformato, quel che asserisce l’apporto di una nuova forza viva. Le riproduzioni che si dànno vogliono soltanto indicare questo orientamento; non possono, certo, aver la pretesa di chiarire per sé stesse quanto sarà intelligibile mediante il confronto.
Talvolta, come nei vasi ansati che discendono dalla celebre serie lauretana, non è imitato uno dei pezzi ma l’inspirazione è tolta dal complesso della raccolta, sì che si han saggi che si ricollegano alla serie e la prolungano senza annullarsi in essa, mantenendo, cioè, nella definizione della figura, del paese, dei particolari ornamentali come nella notazione cromatica, una indipendenza spontanea e serena in cui è il segno della assimilazione matura.

“Pavimento a mattonelle.”

Ben poco, ma qualcosa di più, può rendere la riproduzione per un altro gruppo di ceramiche del Mengaroni, che rappresenta lo sviluppo di queste due fasi e si svolge fino allo scorso anno parallelamente ad altre correnti artistiche che si determinano nella produzione del maestro; quello che traduce in ceramica pitture o stampe antiche. — Chi ha dimestichezza con le ceramiche antiche sa da un lato che per i maiolicari, generalmente, la figurazione in sé non ha rappresentato gran cosa, meno negli elementi ornamentali; dall’altro che essi prendevano liberamente il soggetto da stampe o dipinti. Mastro Giorgio, Lanfranco, i faentini, i durantini etc. non si son mai preoccupati troppo di «rappresentare» alcun che, ma han posto mente all’organismo decorativo e più che altro ad ottenere al massimo grado le qualità della ceramica. E per quel che riguarda le figurazioni, ad esempio, delle botteghe urbinati, è agevole riscontrare come esse sieno derivate in gran parte da altre rappresentazioni figurative. Il Mengaroni, dunque, è nell’ambito della tradizione ceramistica, non inventando la figurazione, ma da altri derivandola. Ed è altresì nello splendore della tradizione «trascrivendo» volta a volta dalla pittura o dalla incisione in ceramica. Questo è appunto il compito; «trascrivere», mutando lo spirito, il carattere ed i modi.

“Testa del Battista – Trascrizione in ceramica con rinnovamento figurativo e cromatico di una figurazione di Marco Zoppo.”

In due mattonelle derivate da incisioni di Marcantonio Raimondi, che, a sua volta, si inspirò al Dürer, la stampa non offre al maiolicaro che la composizione ed i tipi, ma egli fa diventare l’una e gli altri proprî dell’arte sua, inspira in essi il suo ardore e li esprime in una propria visione cromatica, con proprio sentimento decorativo. Nella Fuga in Egitto l’opulenza fantastica del Dürer perde il suo accento fra stregonico e malinconico, la precisione analitica del segno cede ad una larghezza spigliata, la colorazione s’avviva e palpita in uno squisito avvicendarsi di tonalità turchine e giallette, vagamente schiarite da ampie lumeggiature. Ancor più delicatamente e raffinatamente intesa nell’organismo cromatico è la mattonella rappresentante L’offerta. Una orchestrazione di tonalità rare, verdini, gialletti, marroni, velata senza illanguidimento, ché soccorrono certi vivi squilli di verde, risuona sul verde neutro delle tende; uno straordinario valore fantastico è conferito mercé la colorazione anche alle particolarità dello scenario.

“La Battaglia di Costantino delle Stanze Vaticane rinnovata soprattutto nel movimento dei piani e nella notazione coloristica.”

Una maggiore espansione di individualità si coglie in un altro gruppo di opere, quello in cui il distacco dal modello non è sancito da modificazioni interpretative o complementari, ma addirittura da una nuova vita in esso infusa, da un totale rinnovamento cromatico. La mattonella che rievoca uno dei famosi affreschi del Signorelli ad Orvieto intende la superba composizione in un mezzo coloristico assolutamente personale, la riduce ad un raffinato eppur semplice monocromo turchino, variato da talune tonalità verdi e da qualche giallo. Il medesimo indirizzo rispecchia il tondo con S. Cecilia che fa l’elemosina (Domenichino, S. Luigi de Francesi a Roma), anch’esso sentito come tenue sinfonia in turchino sbiancato da vaste lumeggiature frequenti, benché qui la figurazione sia anche diversamente inquadrata rispetto all’originale e variata.

“Bombola a tre anse.”

Così nella Battaglia di Costantino, che rinnova totalmente la ben nota figurazione delle «Stanze Vaticane», sopratutto per quel che riguarda la successione dei piani e l’organismo coloristico; così nell’ampio fregio di mattonelle esposto l’anno scorso alla Mostra della ceramica in Pesaro, rievocante il Trionfo di Cesare del Mantegna, in cui, ispirandosi a stampe di esso, conferisce tutta una impronta | diversa alla definizione delle figure e delle cose, alla notazione coloristica, facendo in tal modo opera di creazione ceramistica.
Una più libera espansione fantastica è in quei saggi in cui l’elemento ornamentale predomina. E’ arduo determinare in essi dove le derivazioni dall’Antico si esauriscano fondendosi a partiti sbocciati dalla fantasia dell’artista, tanto è omogeneo l’organismo decorativo, in cui lo spirito antico mirabilmente si disposa ad un fresco senso di modernità, in un gioco ritmico brioso ed agile ed elegante. Tal decoro anima piatti, vasi, mattonelle da pavimento…

“Vasi di diverse forme.”

Nei piatti talora circoscrive figurazioni, come quella di David campeggiante contro uno scenario fantastico di rocce nel quale sembra riflettersi lo spirito fantasioso diffuso tutt’intorno, nella tesa. Nei vasi esso vien modulato seguendo le cadenze delle forme, le quali si presentano di straordinaria varietà, mai spoglie pertanto di uno squisito senso della linea; ora pago di sé, ora intrecciato mirabilmente in un tripudio decorativo a figure umane decorativamente stilizzate, ad animali, a putti, come in un vaso senza anse; oppure in un servizio da tavola, in cui figure di animali si muovono fra motivi ornamentali come nel loro naturale elemento. Dove pertanto questo sentimento ornamentale spontaneo e vivace si espande con più vivo fervore è nei pavimenti che si fregiano di una ricca, sempre rinnovantesi serie di motivi, che gareggia con le più fulgide opere antiche di Faenza. Ed è in queste opere, puramente o essenzialmente ornamentali, che risalta meglio una delle più alte qualità dell’arte del Mengaroni: il sentimento musicale del colore. Ecco perché le riproduzioni non possono dare neppure una idea approssimativa dell’arte sua a chi non conosca gli originali e non sia, quindi, in grado di completarle col ricordo di quella sua colorazione veemente ed insieme armoniosa.

“Piatto – Derivazione libera nei modi dell’antica ceramica urbinate.”

In lui viveva, quasi inavvertito dall’artista stesso, un alato spirito di musico. Le più squisite norme del contrappunto e dell’armonia regolano gli accordi delle tonalità e la loro stupenda risonanza sul fondo. Gli occhi s’inebriano indimenticabilmente di questo spettacolo, che realizza una delle più spontanee e felici corrispondenze tra la musica e le arti figurative.
Svariano le gamme senza forzamento alcuno, come sgorganti da una inesauribile vena, in un perpetuo mutamento canoro, quali canti di un vasto poema sinfoniale. Or sono accordi di verde di marrone e di turchino intensi sopra un fondo bianco, or di gialli e bleu sul bianco; talvolta notazioni di un bianco di spuma campeggiano sopra un opaco fondo turchino, con avvivamenti di bleu e di giallo; tal’altra son note bianco di spuma sopra un lieve fondo verdino con avvivamenti di giallo intenso; o addirittura è soltanto verde su bianco o nero su bianco….

“Piatto – Rinnovamento figurativo e coloristico dell’«Elemosina di Santa Cecilia» del Domenichino.”

Ma sempre è trasfuso nella materia bruta un arcano potere di canto.
E anche quando la figura umana vien prescelta come elemento di animazione, non stilizzatamente decorativo, ma improntata di accenti vivi di carattere e di umanità e definita con sapienza stupenda di pittore, sempre essa è intesa in modo da non diminuire il risalto pieno dei valori ceramistici, da non togliere alla ceramica alcun che del suo carattere. È questo un altro de’ doni singolari del Mengaroni: egli porta nella ceramica rare qualità di scultore e di pittore, ma — notate bene — mentre generalmente quelli che alla ceramica vengono dalla pittura e dalla scultura rimangono più pittori e scultori che ceramisti, e quindi producono opere ambigue, il Mengaroni crea ceramiche nel senso pieno e classico della parola perché nei caratteri e nei doni peculiari all’arte ceramica inquadra le infinite risorse del suo eccezionale temperamento di artista.

“Piatto – Elementi arcaici ripresi con sentimento moderno.”

Anche nell’elemento figurato si riscontra quella personale e schietta compenetrazione di arcaico e di moderno che caratterizza l’impiego dei motivi puramente ornamentali o tratti dalla natura vegetale ed animale. Si veda come plastica e pittura si equilibrino e si subordi nino alla ceramica nella coppa, sorretta da due delfini e che ha per anse due serpenti, gli uni e gli altri intesi con brillante spirito decorativo, mentre intorno si dispiega un fregio bacchico e nell’interno tripudiano tritoni e nereidi, nell’ovale mediano, e alate figure trasvolano nell’aria. Si veda come le teste di stampo arcaico che animano un servizio da the, pur assumendo, se guardate a sé, intensa significazione di carattere non turbino il risalto proprio della ceramica; come non lo menoma la dolorante testa che domina il vaso ansato sovrapposto ad una colonna. Allo stesso modo nel mirabile vaso avvivato da motivi vegetali e bestiarî in plastica; in oggetti di adornamento femminile, quali ad esempio, una croce ed una serie di cammei, con figurazioni varie, in cui questo artista di spirito vasto e grandioso trovava delicatezze e raffinamenti ineffabili pur conservando la sua ardente orchestrazione cromatica.

“Boccale.”

E come l’alta sua preparazione pittorica lo ha sospinto ad ampie dipinture in maiolica, così in una fase successiva, la potenza plastica ch’egli sentiva in sé lo decise nettamente per la plastica in ceramica. Questo momento si afferma nel 1924 alla Mostra Nazionale delle Ceramiche in Pesaro dov’egli espose un granchio gigantesco, stupendo per evidenza, costruito ed analizzato con occhio sicuro e penetrante, splendente di mille riflessi di perle; una meraviglia dell’arte ceramica. E trova il suo pieno dispiegamento nella raccolta che è gloria della sezione marchigiana della odierna Biennale di Monza.

“Coppa.”

Vi è, tra l’altro, un pesce gigante, che sembra ancor rorido d’acqua marina, tutto iridescente di riflessi e di baleni, svariante dal verde dell’onda al madreperla e all’argento, modellato con sinteticità conscia dei valori essenziali, animato di schietta vitalità, trionfante sopratutto come ceramica. La medesima impronta, lo stesso spirito di creazione molteplice e singolare è negli altri animali, che si rivestono di manti fantastici nel corrusco splendore di gialli, di verdi, di bianchi, di neri, intonati dagli smalti e dai lustri: la vespa tutta verde, la tartaruga verde e gialla e nera, lo scoiattolo giallo con avvivamenti in nero…

“Derivazione libera dalla serie dei vasi lauretani.”

È questa una manifestazione affatto nuova, per il suo alto grado di eccellenza, nell’arte ceramica antica e moderna; e i saggi analoghi di altri maestri giovano a farla risaltare ancor più nella sua smagliante eccezionale significazione.

“Contraffazione di antica ceramica.”

Ma non meno insistentemente richiamano l’attenzione le due grandiose teste modellate dal Mengaroni per la stessa Biennale. La Testa del Battista prende l’impulso da un dipinto di Marco Zoppo del Museo di Pesaro: si confrontino, però, le due opere per rilevare come quella del bolognese non sia che un punto di partenza e come di essa l’artefice moderno compia una sostanziale trasfigurazione, considerandola in tal modo non quale un riflesso della realtà — come è l’opera d’arte — ma quale un aspetto della realtà stessa. La testa campeggia sopra un fondo a mosaico di tessere turchine e la sua definizione anatomica, l’espressione del suo pathos profondo passano dallo stilizzamento zoppesco a’ modi propri del Mengaroni, espressi con spirito di ceramista.

“Pesce gigante.”

Ancor più personale, ancor più grandiosa è la tragica Medusa. Un fondo a mosaico di un rosso cupo, come di sangue un po’ rappreso, sul quale stacca la maschera orrenda, scolpita con senso penetrante della forma negli occhi lampeggianti sotto le sopracciglia corrugate, nelle nari frementi, nella bocca spalancata ad un urlo immane, nella pelle stirata e diradata dallo sforzo. E intorno al capo un incorniciamento di serpenti di un verde intenso, ferini negli scatti e nell’avida bramosia, ma intesi nei loro avvolgimenti con superbo vigore decorativo. Tutt’intorno nel bordo una notazione coloristica chiara, sì che l’intensità del rosso cupo del fondo e del verde groviglio serpentino, che inquadrano il lieve colore ambrato del volto e la notazione gialla della bocca e della lingua, viene fatta risaltare a pieno ed insieme non si appesantisce. Ecco sempre il ceramista che prevale sullo scultore; ed ecco altresì il creatore che innova: poiché egli mantiene alla Gorgone il suo carattere di mitico orrore, ma nel volto di lei riflette i propri lineamenti; ond’esso diventa fatalmente il suo testamento di uomo e di artista in un appassionato impeto di dedizione e di creazione.

“Coppe varie.”

L’arte italiana moderna ha poche opere da mettere accanto a queste, non solo nell’ambito della ceramica ma nell’intero suo dispiegamento.
Con Ferruccio Mengaroni essa perde uno dei temperamenti più profondamente dotati del dono della creazione, più solidamente preparati ad ogni cimento, signore dell’arte sua. Anche quando si richiamino alla memoria i prodigiosi maiolicari nostri del passato, un’osservazione attenta e serena, ci fa pensare che il Mengaroni si era agguagliato a quasi tutti e che forse soltanto taluno, come il meraviglioso Mastro Giorgio, gli era rimasto superiore nella virtù di rapire alle gemme più fulgide, alle più splendenti colorazioni dell’iride riflessi e splendori in un magico incantamento.
La sua perdita è di quelle che lasciano un vuoto profondo; la sua personalità non si sotituisce, poiché egli era non solo un creatore possente, ma anche un animatore, onde la fabbrica da lui diretta a Pesaro si gloriava di una feconda attività. Possa essa mantenersi sulle sue luminose direttive e diffondere ancora l’alto suo insegnamento per la gloria della ceramica italiana moderna.”