Da La Scienza per Tutti, Anno XXIII – N. 15, 1 agosto 1916.
“Non si è generalmente molto ottimisti sui risultati che può dare la propaganda d’una verità scientifica quando essa conduce alla condanna d’un’abitudine invalsa nella moda femminile. Senza dubbio, il mondo umano è fatto più di passioni che di logica — e la vanità femminile di parere più belle o meno brutte di quanto si è, può definirsi pur essa una passione. Nemmeno però bisogna attribuire al sesso gentile anche l’aggettivo d’irragionevole, e credere che le campagne degli igienisti non abbiano alcuna influenza su certi usi.
Così, ad esempio, è avvenuto pei busti ultra-serrati di una volta; così per le orribili scarpe a punta che rovinavano le dita dei piedi a beneficio dei… cerotti pei calli; così per la famosa entrave che impediva alle donne ogni libertà di movimenti; così infine per gli spilloni enormi destinati a fissare i cappelli sulla testa delle signore… nonché a forare gli occhi dei vicini. Ed anche tra gli uomini, il cappello duro, che si è spesso accusato colpevole di tante insolazioni e di tante calvizie, va scomparendo, dopo quello a tuba.
Ora, vi è ancora una moda assurda e dannosa: i tacchi alti. Eppure, ogni giorno le osservazioni confermano il giudizio espresso, non solo da ora, dai medici e dagli igienisti più illustri: cioè ch’essi costituiscono un pericolo per la stabilità generale del corpo, una deformazione del piede, di cui indeboliscono la resistenza e compromettono la funzione, ed una fonte di malattie costituzionali per l’intero organismo.
Anzitutto, è interessante notare come l’uso secolare dei vestiti e delle calzature abbia influito sulla costituzione fisica dell’uomo. Nello stesso modo che la nostra pelle, a forza di coprirsi, è diventata più sensibile, e non potrebbe più sopportare impunemente il nostro clima, sebbene più temperato di quello che sopportano gli indigeni o gli acclimatati delle zone torride, così l’uso continuo delle scarpe ha finito per toglierci quell’agilità del piede che è sovrana in certe popolazioni primitive. Chi, ad una certa età, volesse tornare… all’assoluta economia di scarpe, dovrebbe attraversare un certo periodo di disagio prima di riabituarsi a camminare speditamente.
Peraltro, le scarpe con tacco regolare — cioè ampio quanto la parte posteriore della suola e alto da cm. 2,5 a 3 — non hanno sostanzialmente mutato il modo di funzionare del piede umano; gli hanno forse tolto un po’ d’agilità, ma ne hanno forse accresciuta la stabilità e la resistenza. Basta, per comprenderlo, pensare in qual modo il piede sorregga il peso del corpo: la colonna ossea G della gamba si connette, con un giunto A, alla parte più alta e sollevata d’un osso il quale da un lato (fig. 1) poggia a terra mediante il tallone T, e dall’altro, con un secondo giunto, si prolunga nel collo del piede, che poggia poi a terra con quella parte P della pianta da cui partono le dita. In breve, il peso del corpo, trasmesso dalla gamba, grava sopra la sommità di un ponte sorretto da due appoggi laterali. Si ottiene così una certa elasticità di portamento, ed una base per il corpo umano, il quale è molto meno stabile che non quello degli animali, come dimostra la diffioltà pei bambini di camminare: lo star ritti è un po’, per noi, un equilibrio, dovendosi per far sì che la verticale abbassata dal centro di gravità della persona, relativamente alta, cada sempre sul quadrilatero formato dalle due punte è dai due talloni.
Una scarpa a tacco moderato non altera dunque questo equilibrio generale; anzi, col rialzo della suola nel mezzo sostiene la parte più delicata del ponte, la chiave dell’arco, che riceve il peso e lo trasmette equamente ai pilastri. Senonché a questo modo la scarpa resta lunga precisamente come il piede, o poco più: fatto naturalissimo, ma che le signore eleganti non vogliono ammettere. Esse hanno un po’ la debolezza delle calunniate Cinesi, con le quali sono d’accordo nell’adorare i piedini piccoli, anche sproporzionatamente piccoli; e non volendo torturarsi a rimpicciolirseli sul serio, ricorrono ad una specie di inganno geometrico. Se una linea orizzontale — che sarebbe la mediana inferiore della pianta — viene sollevata obliquamente, essa darà una proiezione orizzontale minore della linea medesima: la distanza fra la punta e il tacco della scarpa diminuirà (fig. 2). Anzi, per renderla ancora più corta, si potrà inclinare il tacco verso l’avanti; e il tacco si presta, perché, dovendo mantenere sollevato il tallone del piede e dargli l’obliquità, risulta smisuratamente alto.
Vediamo ora gli effetti che ne derivano.
In primo luogo, quelli concernenti la stabilità generale. Nella fig. 1 si vede che il punto d’appoggio del tallone T si trova parecchio oltre la verticale rappresentata dalla colonna ossea della gamba. Facciamo girare T attorno ad A, in modo da sollevarlo: il dislivello fra T e P aumenterà; la curva inferiore dell’arco si avvicinerà ad una retta obliqua, la verticale passante per 7 si accosterà a quella passante per G. La sporgenza sarà dunque minore, e minore la base. Ma non per questo si raccorcia, almeno in proporzione, la distanza fra la colonna G e il sostegno P della pianta, cosicché il punto d’applicazione del peso si troverà spostato relativamente, e peserà quasi tutto direttamente sul tallone anziché sul ponte per essere poi ripartito fra gli appoggi. D’altronde, data la posizione del piede, la porzione della pianta che poggia veramente a terra si riduce ad una piccola striscia presso l’origine delle dita, che rimangono piegate fortemente: essa non può compiere un’efficace funzione di sostegno. L’equilibrio del corpo è tale che ricorda i trampoli: infatti, il peso grava quasi tutto sopra una colonna a cui il tallone fa da prolungamento, mentre il resto sembra un puntello obliquo, come quelli che si mettono alla base dei pali per evitarne la caduta verso una data direzione. E purtroppo, qui il puntello — uno solo — non protegge che verso la direzione anteriore.
Tutto ciò supponendo che il tacco, prolungante ancora il tallone, sia diritto: ma anche questo non è vero. Il primo s’inclina verso l’avanti, per cui il secondo, che preme precisamente sulla parte estrema posteriore della scarpa, rimane senza appoggio, giacché la verticale abbassata da esso cade fuori della base. Così se si camminasse in modo normale, cioè posando con noncuranza lo stivaletto per terra, nulla sarebbe più facile che un rovesciamento del piede all’indietro. appunto per posare il tallone sul suolo. Supponiamo che un uomo con scarpe e tacchi normali calpesti una buccia od altro di sdrucciolevole: il suo piede scivolerà, ma orizzontalmente, e le conseguenze non saranno gravi. Si supponga invece che la cosa capiti ad una signora elegante: il tacco scivolerà, ma girerà sul profilo posteriore, ed evitare una caduta sarà impossibile (fig. 3). Alla ragione poi dell’equilibrio sopra un solo punto del piede si devono pure gli storcimenti laterali del piede — anche qualora il tacco fosse diritto; al che le donne rimediano solo in parte serrando fortemente la scarpa, con grave danno per l’aerazione e la circolazione interna del piede (fig. 4).
Passiamo ora alla seconda categoria di effetti. Le signore hanno trovato il mezzo di evitare una eccessiva frequenza di disgrazie come le descritte, prevenendo il pericolo con un piegamento pronunciato delle ginocchia, ciò che permette sia di mantenere il piede un po’ all’indietro in rapporto allo sposta mento generale della persona, sia di appoggiare al suolo anche la punta con una certa efficacia. Ciò produce stanchezza: le dita così piegate sono poco resistenti, e la forza d’appoggio si trasmette alla gamba in senso obliquo e rettilineo attraverso il collo del piede, che è disposto per tutt’altre funzioni. Ne risulta una pressione delle dita contro la punta della scarpa, una fatica eccessiva dei tendini, favorita dalla compressione della tomaia, e producente dolori. È difficile trovare una ragazza elegante capace di camminare per tempo anche relativamente breve senza sentirsi stanca, e magari senza dover accusare dolori ai piedi: del che essa darà colpa, non agli stivaletti, ma alla debolezza naturale del proprio sesso.
Pure tutto ciò è il meno. Per assumere la posizione che si scorge nella fig. 2, le parti del piede devono compiere un vero acrobatismo, partendo dalla posizione naturale della fig. 1. Il tallone deve torcersi in alto; il resto deve appiattirsi in basso — dov’è curvo — ed accorciarsi in alto: e ciò avviene soltanto mediante un incurvamento del collo, con spostamento e compressione di ossa, torsione di legamenti, sforzo di tendini, piegamento anormale nelle giunture delle dita e deformazione generale che spesso diviene permanente. Infine, quando la donna camminerà, se il tallone non può funzionare perché la sua verticale cade fuori della base utile, se reggersi solo sulla punta è impossibile e doloroso, qual parte del piede sopporterà quasi tutto il peso della persona? È facile dirlo: proprio quella parte mediana destinata invece a rimanere sollevata per fungere come chiave dell’arco; negli uomini essa tocca appena la suola; nelle donne preme fortemente contro lo stivaletto, anche perché le due verticali estreme contenute nel tacco si trovano nel punto più delicato. Ora, l’infermità più notevole dei piedi — quella detta dei «piedi piatti» — consiste appunto nell’incapacità del detto giunto di far da ponte, trasmettendo il peso del corpo senza piegarsi e toccar terra; nel qual caso la base del corpo si restringe a due punti, e il sorreggersi diventa una pena. Ebbene, l’esercizio prolungato degli stivaletti eleganti sembra voluto proprio per far subire al giunto del collo uno sforzo di cui è incapace e che finirà per indebolirlo e rovinarlo.
Resterebbe la terza serie di effetti: quelli generali sull’organismo, meno controllabili appunto perché generali ma non meno gravi nelle loro conseguenze. Fra le tante funzioni del piede, nel trasmettere indirettamente il peso della gamba e del corpo, vi è pure quella di evitare una ripercussione diretta della scossa che inevitabilmente risente l’organismo allorché si posa in terra la parte destinata a sostenerlo. Appunto perciò il piede è elastico e flessibile, e ad ogni passo noi appoggiamo prima il tacco e poscia la punta, mentre scende a terra il tacco dell’altro piede. Il duplice movimento delle gambe resta così sdoppiato in quattro tempi, e le ripercussioni non sono sensibili. Il contrario avviene quando, per la rigidezza imposta dalle necessità dell’equilibrio, per la chiusura del piede nella scarpa che menoma la flessibilità, e per la diretta trasmissione del peso dalla gamba al terreno, le ripercussioni sono immediate. È una serie di urti continui sugli organi più vicini agli arti inferiori; e si è riscontrata una coincidenza fra la frequenza delle malattie uterine e la diffusione dei tacchi alti. Pure è consolante constatare come la stessa vita sociale, che ha creato, assieme alla vanità femminile, l’assurdità della moda ora criticata, abbia creato anche il rimedio. Cioè, nulla di più facile che vedere nei giorni festivi anche le più umili operaie scimmiottare, indomenicate, l’andazzo delle signore eleganti nella forma delle scarpe. Ma nei giorni di lavoro — almeno per le occupazioni non sedentarie — la moda trova la propria condanna nella stessa tortura che infligge; ed è tale che costringe ad eliminarla. Rimanere quattro o cinque ore in piedi, dinanzi ad un telaio, o presso un tornio, o in un campo, o sopra un tram, con tacchi alti cinque centimetri non è infatti assolutamente possibile. La vita sociale va verso una sempre maggiore utilizzazione della donna nei diversi rami della produzione umana. Non domandiamoci se sia un bene o un male: limitiamoci a constatare che se certi capricci della moda posso no trionfare per un po’ di tempo nel regno dell’eleganza sportiva e della vanità disoccupata, scompaiono poi inesorabilmente dinanzi alle necessità pratiche del lavoro.”