“Mi chiamo Ingrid von Oelhafen. Non so nulla.” Queste furono le parole di Ingrid von Oelhafen, nata Erika Matko, autrice del libro “Hitler’s forgotten children“, prima di scoppiare in un pianto che sapeva di ineluttabile impotenza al primo incontro con altri adulti, che nella loro vita erano passati per la tragica liturgia del progetto Lebensborn.
La follia della germanizzazione di bambini rapiti perchè in possesso di tratti fisici entro ottimali parametri, la follia di generare bambini in centri che erano un allevamento di vite e al contempo un mattatoio delle personalità, frutto di un delirio che stuzzicava il mondo della prima metà del XX secolo.
Eugenetica, tratti razziali, pseudoscienze, magia, occultismo, retorica politica, contagiarono governi ed economie nella speranza di rendere l’umanità “migliore”, producendo delle “idee-mostro” le cui urla agghiaccianti avrebbero avuto un’eco che perdura, purtroppo, ancora oggi.
La storia umana è tristemente costellata da delirii scientifici, tecnologici o culturali che fanno riflettere sulla natura dell’umanità stessa. Da uno di questi nacque il progetto Lebensborn (Sorgente di Vita), un’organizzazione che secondo gli intenti del suo artefice, il reichsführer Heinrich Himmler, avrebbe dovuto creare una stirpe ariana superiore che potesse governare il millenario Reich della visione hitleriana.
Quante cose diamo per scontato nella nostra vita, nel nostro breve passaggio cosciente nell’universo. Siamo mescolati in mezzo a miliardi di nostri simili che per quanto vicini o lontani, sono, in profondità, uguali, biologicamente, incastonati in modo più o meno complesso in società di vario genere, e ormai per gran parte non ci rendiamo praticamente conto dell’unicità di ognuno di noi. Si, sappiamo quanto possiamo pensare diversamente, o agire diversamente, come ci vestiamo, che cibo ci piace, quali film preferiamo vedere, con chi ci piace stare… Ma tutti danno per scontato, per quanto conformisti o stravaganti ed eccentrici, di avere in comune qualcosa di imprescindibile, di possedere quella caratteristica chiamata “identità”.
E non ci rendiamo conto per quanti individui la ricerca di questo scontato tratto umano sia diventata una ragione di vita, una benedizione o una condanna.
Ma procediamo con ordine:
Nel 1931 Himmler creò l’Ufficio centrale della razza e del reinsediamento (Rasse-und-Siedlungshauptamt-SS, o RuSHA), il cui obiettivo era la salvaguardia della “purezza razziale” delle SS. Uno dei suoi compiti era quello di sovrintendere ai matrimoni dei membri delle SS: per ordine personale di Himmler, il RuSHA rilasciava i permessi di matrimonio soltanto dopo aver vagliato a fondo il pedigree razziale dei due coniugi, il cui puro sangue ariano doveva essere incontaminato dal 1800.
La salita al potere di Hitler nel 1933 in un Paese che sentiva il peso della diminuzione demografica da decenni, condusse all’istituzione del cultò della maternità, a diffusi incentivi economici e discutibili premi, alla proibizione di pubblicizzare ed esporre contraccettivi, alla chiusura delle cliniche per il controllo delle nascite, all’equiparazione dell’aborto ad un atto di sabotaggio passando per leggi come quella per la prevenzione delle nascite affette da malattie ereditarie.
Nel 1935 furono promulgate le leggi di Norimberga che formalizzarono classificazioni razziali che introducevano quattro categorie ufficiali di esseri umani, con l’introduzione dei “certificati di arianità”, in sinergia con i documenti dei registri parrocchiali e con gli alberi genealogici. Gli ebrei, relegati nell’ultima categoria, di “razzialmente inaccettabili”, furono privati di tutti i diritti di cittadinanza.
Nel 1941 il decreto Nacht und Nebel (Notte e nebbia) di Hitler, sostanzialmente l’ordine di eliminare chiunque si opponesse al regime nazista nei Paesi occupati, tolse quel minimo di protezione assicurata alla popolazione civile dalla convenzione di Ginevra e da altre norme internazionali. Il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, capo dell’alto comando supremo delle forze armate tedesche, esprimeva senza mezzi termini quanto la vita umana in quei Paesi potesse essere priva di valore, invocando rappresaglie e punizioni esemplari estreme con intento dissuasivo.
In questo contesto, i bambini, separati dalle proprie famiglie, solitamente durante rastrellamenti o nel corso di operazioni di rappresaglia, passavano una selezione preliminare, che dovevano soddisfare criteri rigidi stabiliti da Himmler. Tutti quelli ritenuti potenzialmente utili, privi di tracce “non ariane” e comunque di qualiasiasi traccia di “retaggio ebraico” passavano a una seconda selezione esperta durante la quale vennero controllati, catalogati e fotografati nasi, labbra, denti, fianchi e genitali. I soggetti ritenuti migliori e più giovani venivano inseriti nel progetto Lebensborn. Ai bambini abbastanza grandi veniva dapprima proibito di parlare la loro lingua e ai genitori adottivi vennero spacciati come orfani di tedeschi caduti in battaglia.
A questi bambini si univano quelli che i membri delle SS erano, per legge, incentivati ad avere, anche con relazioni fuori dal matrimonio. A tutti i membri delle SS e della polizia era imposto di procreare, richiedendo espressamente il sesso libero.
In un’ordinanza di Himmler del 1931 troviamo inoltre l’obbligo di richiedere l’autorizzazione al matrimonio per i membri delle SS (che già per far parte delle fila dell’organizzazione di Himmler avevano dovuto superare una selezione fisico-razziale strettissima), che sarebbe stata concessa solo sulla base della purezza razziale. Veniva richiesto alle coppie di compilare un dettagliato questionario sul proprio aspetto fisico, che andava corredato dalle foto in costume da bagno dei richiedenti.
I bambini “selezionati” sostanzialmente venivano immessi nel tessuto sociale della Germania, affidandoli a famiglie adottive.
Il dramma si sviluppò in direzioni diverse. Non si trattava solo del dramma di persone che una volta scoperta la propria identità, in piena libertà e coscienza cercarono insistentemente e con vari gradi di disperazione di scoprire le proprie vere origini ma anche di quello di altre persone che invece venivano considerate non gradite, come frutti indegni di rapporti preconfezionati, come risultanti di accoppiamenti col maligno, e venivano forzatamente rispediti nei presunti paesi d’origine, senza un minimo di assistenza psicologica.
Quindi non possiamo escludere da questa terribile equazione anche l’atmosfera asfissiante di discriminazione che avvolse per buona parte della vita i bambini nati nelle case Lebensborn dei Paesi occupati. Come in Norvegia, dove i centri Lebensborn furono una decina e dove la discriminazione verso quei bambini, e verso le donne che si erano prestate al programma di procreazione, si fece sentire in modo particolare.
Dopo la Seconda guerra mondiale non fu per nulla facile per questi uomini e queste donne l’accesso alle informazioni, a causa del muro durissimo che la vergogna, l’indifferenza e la volontà di dare un colpo di spugna dopo la seconda guerra mondiale avevano eretto.
L’esempio concreto di queste difficoltà fu il caso dell’International Tracing Service di Bad Arolsen.
Nato a Londra nel 1944 con il nome di Central Tracing Bureau, trasferito nel 1946 a Bad Arolsen (dopo esser passato per Versailles prima e Francoforte poi), era l’istituzione presso la quale i ricercatori intrapresero la costituzione di un archivio dei documenti nazisti. Nel 1947 l’ONU ne assunse la direzione ribattezandolo International Tracing Service, direzione cha passò nel 1951 all’Alta commissione alleata per la Germania (organismo di gestione interalleata dei settori franco-britannico-statunitensi). Nel 1954 l’ITS passò in gestione al Comitato internazionale della Croce rossa quando le truppe di occupazione lasciarono la Germania. Ma nel 1955 venne ratificata la nuova nazione della Germania Ovest con l’attuazione dell’accordo di Bonn, nel quale però era presente una clausola che vietava la pubblicazione di qualsiasi dato che potesse arrecare danno alle vittime del regime nazista, che però sostanzialmente chiuse l’accesso al pubblico dell’archivio. Solo molto tardi, nel 2007 l’International Tracing Service di Bad Arolsen aprì gli archivi.
Per concludere, “I figli segreti di Hitler” è una lettura che è una lezione pura, che fa riflettere su quanto poco scontata sia l’identità di una persona, e se pensiamo alle condizioni di vita di una grossa parte dell’umanità, quanto sia in realtà difficile per tanti arrivare a possederne una, di identità. È anche una lettura che ricorda cosa significhi veramente “memoria” di quel periodo buio. Memoria non è solo ricordare le vittime, i gesti belli, le tragedie grandi, ma è anche non dimenticare certe cancrenose parole, certi agghiaccianti dettagli, certe lezioni che la storia insegna e che l’umanità fatica tremendamente a imparare e soprattutto quale tragedia fu per moltissimi il dopoguerra tanto quanto la guerra stessa.
INGRID VON OELHAFEN – TIM TATE
Hitler’s forgotten children
© Ingrid von Oelhafen and Tim Tate, 2015
I figli segreti di Hitler. La vera storia del progetto Lebensborn, il più agghiacciante esperimento dei nazisti
Traduzione dall’inglese di Giulio Lupieri
I volti della storia, 324
Prima edizione: novembre 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.