di A. Consiglio.
Da Sapere, Anno I, Volume I, N. 1, 15 gennaio 1935.
“Se oggi le meraviglie del mondo si potessero noverare, certo bisognerebbe includervi gli scavi d’Ercolano. Si confondono e si accomunano, d’ordinario, con quelli di Pompei, e le organizzazioni turistiche, anzi, ponendo nei loro itinerari la città più vasta, presumono di aver offerta ai visitatori una esauriente misura, del patrimonio archeologico della Campania. Visitano, dunque, Ercolano solo i viaggiatori più calmi e meno frettolosi, e ne ritornano, spesso, letteralmente sconvolti dallo stupore.
Infatti, le case, le mura, le pareti, i dipinti, gli intonaci, i legni, i metalli, gli stucchi, le più varie suppellettili, sono talmente integri, e spesso così freschi e nuovi, che il visitatore non ignaro di archeologia rimane un istante perplesso: — È mai possibile che un fiume di lava abbia conservato e preservato una città per duemila anni difendendola persino dalle fatali offese del tempo? Che cosa, in realtà, hanno trovato gli escavatori, e in che stato? Fino a che punto le mani dei tecnici hanno ricostruito, restaurato, ripristinato, organizzato? — Spesso l’intenditore di cose antiche si sente propenso ad accusare gli archeologi napoletani di eccessivo arbitrio, e sceglie a scopo dimostrativo uno stucco, un intonaco troppo sfacciatamente fresco e nuovo. Ma ecco che ad un più attento esame, ad una severa analisi, il particolare criticato gli si rivela della più bella e genuina autenticità. Eppure la novità del colore ercolanese è tale, che una buona massaia, poco familiare con le cose vecchie e polverose, potrebbe domandare perché non si lucidino certi rami verdastri e patinosi: starebbe tanto bene un luccicar di casseruole, nel termopolio contiguo alla Casa del Mosaico, ove la sopravvivenza delle cose è tale, che persino la pentola è rimasta sul fornello, con le fave che aspettavano di bollire! L’acqua, almeno, si è svaporata. Il grosso dei visitatori va in visibilio. Paiono scavi, quelli di Ercolano, moderni in tutti i sensi. Si direbbe che cedano ad una certa intolleranza contemporanea per tutto ciò che sente o implica la cultura. Tanto son facili e domestici all’occhio. Le organizzazioni turistiche — un tantino retrive e tradizionali — non hanno ancora capito questo segreto prestigio degli scavi ercolanesi.
Per questi motivi, non gusta e non intuisce lo spirito particolare di questa città dissepolta, chi non faccia una sorta di preparazione e non cerchi di introdursi ai misteri ercolanesi. Tanto più necessaria è questa iniziazione, quando più familiare è il visitatore alle antichità. Dieci anni di vita giornalistica, di assidue visite alle due città, di cordiale amicizia col prof. Amedeo Majuri, non mi avevano liberato di tutte le perplessità che destava in me il restauro di Ercolano. Solo quando ho interrogato, per la nostra rivista, i competenti della tecnica degli scavi pompeiani ed ercolanesi, mi sono avveduto di essere entrato in un vero mondo di misteri.
È proprio, quella degli scavi napoletani, una delle strane e complicate tecniche, che meritano di essere studiate e divulgate. Non è la tecnica di una scienza, né una tecnica meccanica; non una materia arida, insomma, fissata in una serie di formule. La fantasia d’un giornalista moderno può, certo, animare e romanzare anche uno di questi aridi argomenti; ma la tecnica di Majuri, invece, è tanto romanzesca ed appassionante di per se stessa che, in luogo d’esser decorata e fiorita, ha bisogno piuttosto d’esser frenata in severi limiti razionali, specialmente quando dalle mani d’un dirigente passa in quelle degli operai e dei “capidopera”. Vedremo come facilmente essa ceda all’estro. Ché, a scavare una casa ercolanese, è necessario fare appello ad una virtù composta di piccole, comuni tecniche, di scienza archeologica e di gusto artistico. Colui che ha la responsabilità dello scavo non potrebbe risolvere certi problemi se, mentre chiede a se stesso la prudenza e la sicurezza d’un ingegnere, non potesse contare su un profondo discernimento critico e su una capacità di rivivere la poesia delle pietre dissepolte.
Come riescano, queste opposte attività, ad andare d’accordo in un medesimo uomo, è un mistero della poesia. Ché, naturalmente, se dico tecnica. sottintendo tecnica d’una poesia.
Anticipo delle conclusioni, solo per insinuare che questa risoluzione della genialità archeologica nella poesia, è una magnifica, inconfutabile spiegazione del miracolo di Schliemann. Infatti, sebbene non provenga da un’attività così distante dall’archeologia, anche Amedeo Majuri ha nella sua vita qualche brano di avventura appassionante. Egli ha iniziato la sua vita culturale come grecista. Versatissimo in questa lingua, fu spronato dall’illustre Nicola Festa, a darsi agli studi di epigrafia. Ed anni ed anni ha trascorso a decifrare epigrafi bizantine. Ricorda ancora, con un sorriso, di avere trascritto e tradotto oltre trentamila versi.
Come lontana, questa attività, dalla poesia! Eppure, dopo aver avuto un primo contatto con la Campania archeologica, e aver cominciato a nutrirsi l’anima di ampi paesaggi e di grandiose testimonianze dell’antichità, balzò a Rodi, durante gli anni della guerra, a gettar le basi delle ricerche e del generale riordinamento del patrimonio artistico dell’isola. Di là, armato del suo greco e di un po di turco, seguì, mezzo interprete e mezzo uomo di cultura, i battaglioni italiani che percorrevano l’Anatolia. Vide sorgere dall’arida pianura anatolica, le gigantesche rovine d’Efeso, e innanzi a quei paesaggi sterminati — romantico contrasto di imperi ruinati e di nomadi pastori — dovette scoprire la sua vera vocazione. Poi ha affondato la sua pala nei megalon egei di Cnosso e d’Ilio.
In nome di questa esperienza sentimentale e culturale Amedeo Majuri mi ha parlato della differenza profonda tra gli scavi ercolanesi e quelli dell’Ellade, di Roma, dell’Asia Minore. A parte la speciale, la meravigliosa conservazione delle due città, dovuta all’alto strato di detriti vulcanici, Ercolano e Pompei hanno il pregio d’esser due centri provinciali che non avevano ancora subito lo sviIuppo monumentale delle città imperiali. I resti delle città dell’Ellade e dell’Impero si riassumono in templi, teatri, anfiteatri, edifici pubblici, acquedotti, necropoli, opere militari. Nella maggior parte di esse, domina il marmo o le grandi pietre da taglio. Di edifici privati, intorno alle loro rovine, poche o trascurabili tracce. Le devastazioni del tempo e degli uomini hanno spazzato via, inesorabilmente, ogni casa. È ben fortunato chi ad Atene, a Delfi, ad Efeso, ha trovato qualche nudo, miserevole troncone di muro, prezioso per gli archeologi, ma assolutamente inespressivo pei viaggiatori romantici. Ora, chi oserebbe toccare, o smuovere d’una linea, o correggere, il minimo particolare d’un solenne tempio marmoreo dell’età imperiale caduto in rovina? Il pentelico, il pario, l’imetto, i preziosi marmi dell’oriente, hanno un pregio nuovo, inestimabile, nella loro frantumazione, nel colore nuovo che ha loro conferito la elaborazione di venti secoli. Si è osato, talvolta, raccogliere i rocchi abbattuti di qualche preziosa colonna; ma chi sopporta, senza una certa ripugnanza, i troppo appariscenti restauri?
Ma Pompei ed Ercolano son privi di marmi preziosi. La maggiore ricchezza delle due città dissepolte è l’intonaco dipinto, decorato con un incomparabile estro della fantasia. Un intonaco che aspirava con tutti gli artifici alla dignità e alla nobiltà del marmo.
Solo le più ricche case ercolanesi possedevano qualche pavimento di preziosi marmi orientali. La differenza dunque, tra le due città campane e quelle dell’Impero greco-romano nasce dal fatto che la bellezza delle prime è tutta coloristica, mentre quella delle seconde è monumentale, marmorea, statuaria. Diversità gravida di conseguenze, che è apparsa in tutta la sua profondità solo con gli scavi di Ercolano ordinati da Benito Mussolini nel 1927.
Infatti, Pompei fu sepolta fino all’altezza dei primi piani da una massa di scorie, di ceneri, di lapilli ancora ardenti. Se le strutture murarie furono salve, il calore, gli agenti chimici contenuti nelle scorie vulcaniche, il piccone dei primi, disordinati escavatori, rovinò la massima parte delle decorazioni murali. Delle superstiti, molte, e pregevolissime, eran già possedute dall’antico Museo Nazionale, cavate da Pompei e, più, da Ercolano, a mezzo di cunicoli. Ma si comprende facilmente che, private della loro funzione decorativa, queste pitture non esprimessero tutta la loro originaria bellezza. Inoltre, quasi due secoli di nuova vita, e di nuova esposizione all’atmosfera e alle intemperie, avevano rielaborato il colore di Pompei, a segno che, certi articolari poco significativi ai fini documentari ed archeologici, avevan poi un colorito romantico ineffabile. Ercolano, che giace sotto una prospera e industriosa cittadina, coperta da una coltre che, nei punti più alti, raggiunge cinquanta metri di spessore, ha dovuto attendere la volontà mussoliniana per rivedere la luce. Fu la prima, anzi, ad essere scoperta ma, poiché nel secolo decimottavo, le due città sepolte eran trattate come miniere di pitture e di sculture, non venne nemmeno in mente, ai viceré e ai primi Borboni, di abbattere case moderne per rimettere in luce i ruderi di quelle antiche. Tanto più che era fama di essere stata sepolta Ercolano, non da ceneri e lapilli, come Pompei, ma dalla lava. Si equivocava. In antico, ed anche in vernacolo contemporaneo, si dava il nome di lava ad una qualunque fiumana di detriti che scenda a valle. È lava, quindi, la congerie di pietre e di fango convogliata pei declivi dalle acque piovane, ed è lava il magma incandescente che sgorga dalle bocche del Vesuvio. Infatti, la fiumana che seppellì Ercolano risultò dalle piogge torrenziali, provocate dalle enormi masse di vapore eruttate dal vulcano, le quali, composte con le ceneri delle pendici vulcaniche, divennero un irresistibile torrente di fango. Fango che, in venti secoli, ha subito un completo processo di consolidamento, tramutandosi in tufo durissimo. Ed ha riempito, naturalmente, ogni più piccola cavità, preservando mura, intonaci, dipinti, oggetti, stoviglie, suppellettili, legni da ogni corrosione degli agenti atmosferici. Le parti lignee hanno subito un processo di carbonizzazione, senza minimamente disintegrarsi. Fremerebbero di sdegno, gli scheletri ercolanesi, se potessero sentir Majuri ringraziare il Vesuvio, nume benefico degli archeologi, per la sua incomparabile opera di conservazione. E non basta. Lo si ringrazia persino di avere scelto proprio quegli anni, per esplodere. Se la tragica esplosione fosse avvenuta qualche decennio dopo, anche Pompei ed Ercolano avrebbero subito la rivoluzione edilizia che, cominciata a Roma, andava diffondendosi in tutte le città dell’Impero: alla casa di gusto individuale, alla libera ed estrosa architettura, si sarebbe presto sostituita la casa di mattoni, a serie, uniforme, inespressiva, divisa ad appartamenti da darsi in fitto. Infatti, le abitazioni di Ostia o di Minturno non hanno niente da dire o da svelare.
Come il poeta, Majuri è costretto a farsi la sua tecnica caso per caso, secondo lo spirito e la poesia dei ruderi che scopre. Con un eccezionale istinto da rabdomanti, gli scavatori borbonici hanno minutamente percorso, attraverso i cunicoli, la città. Arrivati in un peristilio, rapivano le statue, strappavano dagli intonaci i quadretti decorativi, dai pavimenti i marmi preziosi. Discesi sul piano della città con un pozzo verticale, avanzavano in galleria, spingendo indietro i materiali di sterro, e dirigendosi verso un altro pozzo verticale, scavato ad una certa distanza.
Quindi, tutta la materia che si frantuma sotto la pala e il piccone è preziosa: gli scavatori borbonici non si curavano gran che degli intonaci; ma oggi, nella terra che riempie in parte i cunicoli, si trovano frammenti di preziosi dipinti parietali, che, dopo pazienti indagini, riprendono il loro posto sul medesimo muro, nel medesimo ambiente. Spesso si ritrova un marmo, un bronzo, in un posto impensabile: rovesciato dalla sua base, per l’impeto della fiumana di fango, è stato trascinato oltre il tablino, oltre il peristilio, a qualche decina di metri di distanza. Una giovane ispettrice, la dottoressa Elia, osservava che il migliore scavatore è colui che adopera le mani. In realtà, l’arte muraria dei pompeiani e degli ercolanesi era rurale e di grande semplicità. Essi adoperavano, quasi sempre, materiali vulcanici. Quando i picconi meccanici hanno liberato le antiche case dalla stretta morsa del durissimo tufo, non rimane che qualche frammento di muro e una poltiglia di intonaco. Ma questo intonaco ha, nella storia dell’arte antica, una importanza pari, se non maggiore, del marmo pario o pentelico dei grandi monumenti imperiali. Con una pazienza infinita, i frammenti vengono ricostruiti. Spesso ad essi non manca nemmeno una particella. I colori sono freschi e vivaci e mostrano mirabili esemplari di un’arte pittorica, il cui valore, la cui stessa esistenza, erano assolutamente insospettati. La pittura greca, infatti, non è che un mito. Non la conosciamo che attraverso i suoi riflessi nei pochi documenti di pittura romana rimastici. E questa ercolanese e pompeiana già si rivela come pittura italica, strettamente originale di ispirazione e di forme.
Che fare di questi dipinti murali? Incollarli su quadri di muratura ed esporli nelle fredde sale d’un museo? Ma la loro funzione parietale è insopprimibile. Essi sono nati come decorazioni, per esercitare una precisa funzione di rallegramento e di slargamento delle pareti. Essi ci offrono un documento eloquentissimo dello spirito ameno, naturalistico, familiare degli abitatori delle due città. Ed allora Amedeo Majuri ha fatto trionfare un suo luminoso criterio di restauro integrale: si è ricostruita, rifatta la parete, nelle sue parti mancanti, per ricollocarvi il dipinto. L’opera di muratura è stata rifatta con la medesima tecnica, coi medesimi materiali.
Rifatto il muro, sorge il problema della conservazione. Il tufo non è più lì a continuare la sua opera di preservazione. I dipinti parietali, esposti all’azione atmosferica, non avrebbero, forse, una durata di dieci anni. In molti casi, questa paziente tecnica è riuscita persino a ricomporre gli stucchi e i dipinti delle volte, miracolo che ha giustificato la rifazione dei tetti. Ma spesso un tetto rifatto, con travature lignee moderne, non ha altra funzione che di proteggere le opere d’arte ricollocate nel loro posto originario. Il criterio imposto dal Majuri esige che queste rifazioni, esclusivamente statiche O protettive, abbiano una evidenza palmare. Niente deve lasciar supporre il trucco.
Queste non sono, naturalmente, norme generali che si possano seguire e praticare liberamente. La loro audacia è dimostrata dal fatto che un precursore del Majuri, il ministro Baccelli, ottenne che i preziosi dipinti della Casa dei Vettii fossero protetti da una ricostruzione del tetto. Non si volle, però, ricostruire la tettoia del peristilio a protezione degli altri dipinti parietali, opponendosi che mancavano i punti d’attacco della travatura. Majuri, spregiudicatamente, ha ricostruito questa tettoia.
Però, spesso le esigenze dei ruderi sono diverse. Spesso anche i ruderi pompeiani ed ercolanesi hanno una loro particolare bellezza che nasce, appunto, dalla loro evidenza di cosa morta e combusta.
Spesso, proprio gli agenti atmosferici, proprio le intemperie, hanno conferito ad una parete cadente una patina maculata, preziosissima.
Anche i muri hanno, talvolta, il pregio delle monete antiche. Allora l’archeologo si guarda bene dal turbare quel particolare con la troppo stridente vicinanza della costruzione moderna. Ma spesso è lo strano calore d’intimità d’una piccola casa, col suo atrio tuscanico, coi suoi cortiletti, con le sue stanzucce, coi suoi balconcelli, che esige l’attento ricupero di ogni briciola, e persino il rifiorire delle aiuole. In quest’opera, quasi di magia, l’archeologo arriva tanto vicino alla vita degli antichi, che quasi ne sente l’alito. Nessun documento, né d’arte plastica, né di letteratura, era mai riuscito a ricondurlo così vicino alla vita di duemila anni fa. È giusto, dunque, che l’amore e l’osservazione della intimità casalinga dei pompeiani e degli ercolanesi, considerata in tutti i suoi molteplici aspetti, superi oggi l’interesse estetico per le opere d’arte. Eco, anche questo, del dissidio tra l’arte e la vita?
Ma son le mani di Majuri che frugano nel terreno campano?
Certo che no. Egli ha i suoi fedeli esecutori; e se a lui son necessarie, ad un tempo, la scienza, la tecnica e la poesia, non saprebbe che fare di un esecutore che non avesse un soffio d’amore e un
grano di poesia. Il più caratteristico e interessante dei suoi tecnici, è il cavaliere Francesco Ventimiglia, un osco puro, figliuolo d’un impiegato del Museo Nazionale, attuale assistente degli scavi d’Ercolano. Più che amore, in Ventimiglia è la mania dello scavo.
Digiuno di cultura classica, ha assimilato con intuito popolano tutto quel che gli era necessario per fiutare nelle materie e intuire, infallibilmente, il valore delle cose scoperte. Ferreamente imbrigliato dal prof. Majuri, che gli impedisce di sconfinare involontariamente nelle falsificazioni, questo valente “capodopera” è l’esecutore materiale dei restauri, delle rifazioni, delle riorganizzazioni che si vanno continuamente compiendo ad Ercolano.
Il cavaliere Ventimiglia mi ha pittorescamente esposto i criteri ai quali si ispira nella scelta degli operai: i peggiori, i più maldestri, sono i muratori, gli scalpellini, i marmorari, gli sterratori provetti nel loro mestiere; i migliori, son quelli che non hanno mai impugnato una pala o un piccone o uno scalpello. Il Ventimiglia ha bisogno di mani leggere, non indurite, mani che debbono educarsi ad una sensibilità speciale. Tra l’altro, non di rado l’opera di escavazione procede tra reali pericoli per gli operai; il percorso dei cunicoli borbonici è in gran parte ignoto; spesso si aprono in improvvise voragini e provocano vasti smottamenti di terra; è necessario, quindi, procedere con eccezionali cautele.
Ma la più straordinaria delle piccole tecniche ercolanesi escogitate dal buon Ventimiglia, è quella del ringiovanimento dei legni carbonizzati. Con un rivestimento di vetro e di metallo, sono state restituite alla loro funzione, due porte bivalve — ancora munite delle loro serrature, dei loro cardini, delle loro borchie di bronzo —, il pressoio d’una fullonica, una scala, qualche architrave e alcune di quelle strane intelaiature che rinforzano certi tipi di muratura, quasi a dar loro una consistenza antisismica. Ma, in effetti, questo legno carbonizzato ha la fragilità del carbone di legno. Era pur necessario trovare un qualche processo chimico di consolidamento per preservare i più minuti e preziosi oggetti.
Infatti, alcuni chimici hanno sperimentato l’efficacia di preparati rimasti segreti. Si riuscì a consolidare il carbone, ma fino ad una profondità superficiale di pochi millimetri. Il problema, invece, è stato radicalmente risolto dal buon Ventimiglia. Senza preoccuparsi gran che della chimica, egli fa disciogliere in un caldaione della paraffina e della cera greca. Vi immerge, poi, i frammenti di legno carbonizzato e li lascia nel liquido fino all’ebollizione. Poi li tira fuori, gocciolanti, con uno di quei mestoli bucati di latta, che usano i friggitori. Imbevuti di quella pesante materia grassa, il carbone riacquista una consistenza anche superiore a quella del legno.
Con questa trovata, un tantino umoristica, è stato possibile ricostruire, da un mucchietto di carboni che gli scavatori borbonici avevano sdegnato, un tempietto di faggio e d’ebano, un larario preziosissimo adorno di due graziose colonnine corinzie, che ricorda in modo impressionante gli scarabattoli che ingombrano le chiese popolari napoletane.
Proseguendo, poi, nella mia inchiesta, ho scoperto che i vecchi scultori, per dare maggior consistenza alle forme di gesso, usano farle bollire in una miscela di olii e di colofonia. E mi sovvenne che il cavalier Ventimiglia m’aveva rivelato d’aver messo le mani nella creta, da giovane. Anzi, deve aver bazzicato in qualche studio di scultura…