Gli anni giubilari (1924)

di Dino Trocchi.
Da Emporium, Vol. LX, N. 360, dicembre 1924.

“La parola giubileo viene da una radice ebraica con due significati in apparenza diversi: remissione e perdono, e montone e corno di montone, perché con tale strumento si bandivano i grandi annunzi alle tribù d’Isdraelo. La parola fu adottata per prima da Sisto IV nel 1475, invece di quello più antica Anno Santo. Nel suo effetto morale il Giubileo ha lo stesso valore di qualsiasi indulgenza plenaria, ma colla sospensione delle altre indulgenze, vuole richiamare i fedeli alle tombe degli Apostoli e al centro della cristianità dove tutte le remissioni e i perdoni sono largiti. Fu prima intenzione Pontificia che il grande evento si rinnovasse ad ogni compimento di secolo: ma il tempo poi si abbreviò da 75 a 50 a 25 anni perché ogni cristiano potesse almeno una volta in vita sua consumarlo.

Banditore del primo Anno Santo fu uno dei Pontefici più grandi d’intenzioni e sventurato nei successi che la storia ricordi, Bonifacio VIII. Egli avrebbe voluto rinnovare l’età di Gregorio VII e d’Innocenzo III ma non ebbe che dolorosi insuccessi. Lotte acerbe colla feudalità specie con i Colonna che tennero agitato durante tutto il suo regno lo stato pontificio, insuccesso nella guerra del Vespero dove sostenne gli Angioini e vinsero invece gli Aragonesi, insuccessi a Firenze dove Carlo di Valois mandato come paciere non fece che attizzare odi, insuccessi finalmente con il Re di Francia Filippo il Bello le cui ostilità culminarono coll’oltraggio di Anagni, e quando il Pontefice che si era vagheggiato restauratore della autorità pontificia si spense, al Papato si apriva la triste via della schiavitù avignonese.

Il Giubileo stabilito, da lui bandito per la prima volta all’inizio del suo pontificato nel 1300 fu il più grande dei trionfi: i pellegrini giunsero numerosi da tutte le parti della cristianità e dice il Villani che stavano abitualmente in Roma: «dugento migliaia di pellegrini senza quelli che erano per cammino, andando e tornando, et tutti furono forniti et contenti di vettovaglie giustamente, così i cavalli come le persone con molta patienza, senza romore o zuffe». E vuole la tradizione che quattro chierici armati di rastello ammonticchiassero giorno e notte l’argento e l’oro che i pellegrini gettavano sulla tomba di San Pietro.

Ugualmente solenni furono i Giubilei di Nicolò V e di Alessandro VI il Papa contro cui hanno infierito più che mai gli odi politici, l’italianità decaduta la partigianeria e il turpiloquio dei cronisti specie meridionali. Egli invece celebrò quest’evento con straordinaria pietà e con grande splendore: alla sua presenza si ricercò in San Pietro la Porta Santa dell’antecedente Giubileo e non essendosi potuta ritrovare se ne aprì una nuova degnamente decorata. E fu durante quell’anno che un temporale abbatté la ciminiera di un gran camino e i rottami cresciuti nella caduta seppellirono il Pontefice che fu creduto ucciso.

Clemente VII allargò i benefici dell’indulgenza anche a quelli che messisi in via erano stati fermati o dalle malattie o dalla morte. Giulio III le concesse a tutti i soldati combattenti. Coll’aiuto infatti di Carlo V, ammiraglio Andrea Doria, si armeggiava per terra e per mare una specie di crociata contro i pirati barbareschi che capitanati da Draguto ogni sorta di ruberie e di vessazioni esercitavano sulle merci e sulle persone delle navi cristiane né volle il Pontefice che coloro i quali per sì santa causa esponevano la vita rimanessero privi dei benefici del Giubileo.

La concessione papale fu bandita col suono dei bellici istrumenti negli accampamenti e nella flotta e sulle coste d’Africa il gesuita Padre Hainer l’annunziò ai soldati alla vigilia del grande assalto contro la città più potente del nemico: che cadde clamorosamente tanto fervore la straordinaria indulgenza aveva infuso nei combattenti cristiani. Di altri Pontefici ci sono giunti aneddoti e fatterelli al grande avvenimento connessi. A Gregorio XIII si ruppe il martello in pezzi mentre colpiva la sacra porta e rimase ferito alla mano. Clemente VIII dovè ritardare l’avvenimento per malattia e aprì la sacra porta ancora convalescente. Invece rallegrò con una storiella amena la funzione Leone XII e nel rendere il martello al Penitenziere Maggiore gli ricordò come nel Giubileo precedente entrambi chierici si fossero bisticciati, prima a parole poi colle mani e coi candelieri. Vi fu un Giubileo che un pontefice aprì e un altro chiuse. E vi fu un pontefice che pel suo lunghissimo regno avrebbe potuto celebrarne due, Pio IX, se gli avvenimenti politici non glie lo avessero impedito.

Nel ripetersi dell’avvenimento, le condizioni della città di Roma si presentarono assai diverse. Nell’anno santo bandito durante la cattività avignonese serpeggiava la pestilenza: c’era stato il terremoto e gravi danni presentavano la basilica Lateranense e Liberiana. A S. Paolo cadeva una colonna e crollava una parte del tetto, a S. Pietro cadeva il campanile.

Il Petrarca in una sua nobilissima lettera ci dipinge il quadro della decaduta città ed egli stesso fu parte della seconda ambasciata mandata dai romani a Clemente VI dopo quella che aveva avuto per capo Stefano Colonna, l’esito però non fu migliore. Il Pontefice escluse per allora ogni ritorno, concesse però la celebrazione dell’anno Giubilare alla città di Roma colla bolla unigenitus — «considerando inoltre le domande del nostro Popolo Romano che umilmente ci supplica come a Mosè e ad Aronne per proprie e solenni ambasciate destinate specialmente a pregarci in nome di tutto il popolo cristiano… volendo noi che moltissimi abbiano a partecipare. di questa indulgenza… per consiglio dei nostri fratelli i Cardinali di S. Chiesa, abbiamo stimato che le dette concessioni d’indulgenze…» —. Le guerre e gli scismi che dividevano il Sacro Collegio tra Francia e Italia non resero migliori le condizioni del sesto Giubileo e del settimo.

Nell’undicesimo il Tevere straripò e ci furono danni di case e di persone: e il fatto si ripetette nel sedicesimo Anno Santo, tanto che i pellegrini furono dispensati per molti giorni di visitare la Basilica di San Paolo. Scrive il Prinzivalli: «Dopo varii giorni di pioggie dirotte, il venerdì 26 novembre sulla mezzanotte, il Tevere cominciò a gonfiare trascinando dal porto di Ripetta alcuni barconi che andarono a fracassarsi a ponte Quattro Capi a stento salvandosi i barcaiuoli. Al mattino il fiume aveva invaso le vie di Ripetta e dell’Orso e il Bargello in una barca andò a distribuire pane agli abitanti di quelle contrade. L’inondazione si distese per le campagne e per la vallata del Tevere sino alla Basilica Ostiense; cosichè il Papa commutò la visita a San Paolo con quella di Santa Maria in Trastevere, ma fino alla domenica prossima, tanto è vero che il 6 dicembre venne tolto l’indulto» (Archivio Capitolino Credenza 14).

Invece specialmente lieti per opera di uomini e favore di eventi, si presentarono altri giubilei: così il quarto, essendosi avuti di seguito tanti abbondanti raccolti da essere quel periodo chiamato l’età d’oro di Martino V; lo stesso avvenne sotto Alessandro VI che straordinari provvedimenti in ogni genere aveva preso. Due grandi principesse Olimpia Pamphili e Cristina di Svezia ebbero parte non piccola alla Roma del XIV giubileo e ci fu la venuta della Principessa Maria di Savoia. Per questa figlia di Carlo Emanuele Il si era trattato in gioventù un matrimonio col Principe di Galles; più tardi decaduta anche di salute era tutta dedita ad opere di pietà. Arrivò da Bologna e prese stanza nel monastero di Torre di Specchi col suo seguito di dieci o dodici signore che vestivano l’abito cappuccinesco e si erano proposta la più severa e quotidiana vita di umiltà. Donna Olimpia Pamphili che per sfarzo e potenza a niuna era in Roma seconda si recò a visitarla, fu ricevuta in uno squallido parlatorio su povere sedie impagliate senza ombra di signorile agiatezza o di Principesca potenza.

Ma l’orgogliosa romana non parve intendere la lezione e insistette perché la illustre Sabauda si recasse a visitare almeno la sua cappella e non potendo pompeggiare in altro vi fece trovare un gran corteggio di prelati che parve avervi radunata, mezza corte pontificia. Cristina di Svezia partecipò con zelo anche al giubileo seguente. Di questa donna che seppe essere così poco regina da preferire all’illustri cure del soglio la libertà, lo sperpero ed anche le stravaganze di una vita godereccia e disordinata, che non volle legami famigliari come non ne aveva voluti dinastici, sono piene le cronache di Roma con tutte le amplificazioni del pettegolezzo volgare, certo fu uno di quegli esempi di epicureismo, sebbene non immorale, con cui il rinascimento si disfaceva nel settecento decomponendo per prima le classi più alte della società. Banchetti, carnevalate, residenza instabile, nessuna continuità di occupazione, codazzo di artisti e di buongustai che facevano vibrare intorno tutte le forme dell’arte o che almeno dell’arte avessero le parvenze, frivolezza e finzione in tutto.

Oh quanto diversa dalla Principessa di due secoli prima! Il Pontefice Pamphili fu in buoni rapporti con questa sovrana che in fondo non era né corruttrice né corrotta anzi nel quindicesimo giubileo tenne non solo contegno edificante ma si mostrò perfino inchinata a censurare quelli del suo corteggio che in tale circostanza non credettero di deporre le abitudini di frivolezza. L’uso di grandi steccati per regolare la folla evitando dannosi agglomeramenti, fu usato per la prima volta nel sedicesimo giubileo. Molte e ben disciplinate carrozze nel diciottesimo, e in quello seguente, tra i festeggiamenti toccarono il massimo splendore le corse dei barberi.

D’altra parte la folla che interveniva in questa circostanza a Roma, varia di lingua di educazione di paese di costume, non poteva non dar luogo a diversi inconvenienti che i cronisti delle varie epoche raccolsero. Nel primo Giubileo con tale disordine i pellegrini si accavallarono sul ponte di Castel Sant’Angelo, che parecchi rimasero schiacciati. Fu dovuto dividere il ponte secondo lunghezza, e separare quelli che venivano da quelli che andavano.

Dante ricordò nel poema questo via vai.
Come i Roman per l’esercito molto
l’anno del Giubileo su per lo Ponte
hanno a passar la gente modo tolto,
che dall’un lato tutti hanno la fronte
verso il Castello e vanno a San Pietro
dall’altra sponda vanno verso il monte.

Tanto nelle tranquille cittadine del trecento era straordinario quest’ordine che oggi è regola nelle più civili metropoli. Il secondo Giubileo fu funestato da un inverno rigidissimo con piogge e nevi che resero faticoso il viaggio dei devoti e il loro pernottare nelle campagne.

Molti inoltre furono derubati dai briganti e un illustre personaggio ferito. Avvenne poi un clamoroso incidente causato da futile motivo.
Un cardinale francese di quelli che non tralasciavano circostanza per ostentare la loro potenza aveva tra le molte bestie destinate al trasporto dei suoi bagagli un camello che era stato acquartierato in un cortile del Vaticano. L’esotica bestia, a molti perfettamente sconosciuta, attrasse un giorno una gran calca finché nacque diverbio tra gli uomini del Cardinale e la folla. Il malanimo politico non dovette essere alieno a infervorare la mischia che si impegnò a sassate con disperazione del Cardinale che da una finestra del Vaticano vide di che fosse stato causa l’innocente suo camello.

Ci volle l’intervento di un alto personaggio di | Roma per acquietare gli animi e ricondurre la calma. Nel 1450 si ripeterono gl’inconvenienti al ponte di Castello e 200 persone rimasero parte schiacciate e parte affogate in un solo trambusto. Si soffrì inoltre per la carestia e vi fu qualche caso di peste. Il nono Giubileo e quello del 1575 furono scarsi di gente per gli scismi religiosi che attristavano l’Europa.

Un comico episodio, che parve provvidenziale, avvenne nel Giubileo del 1600; in uno degli ospizi aperti per i numerosi pellegrini vennero un giorno a mancare le provviste perché si era fatto assegnamento sulla pescheria dove invece non si trovò pesce affatto; mentre si andava pensando come rimediare giunse un facchino con tre grandi ceste di ottimo pesce che lasciò senza saper dar notizie troppo precise del mandatario tanto che si credette dono di Monsignore provveditore dell’Ospizio. Ringraziato il Cielo per la bella combinazione si passò subitoil pesce ai fuochi della cucina ed era già cotto e prossimo ad essere imbandito quando giunse trafelato un messo a dire che tutto quel ben d’Iddio era riserbato alla mensa di Sua Santità e che il facchino ubriaco aveva commesso lo sbaglio: ma troppo tardi che così cotto non poteva essere restituito e lo mangiarono allegramente i pellegrini attribuendolo quasi a miracolo.

Guerre e pesti travagliarono i devoti che venivano al Giubileo di Urbano VIII e finalmente nel sedicesimo Anno Santo (eravamo nel 1700) uno spagnolismo, di cui qualche traccia rimane ancora nella nostra vita pubblica, quello di due veicoli che incontrandosi nella stessa direzione si mettono in gara di velocità usanza praticata allora dai carrettieri non meno che dai cocchieri delle illustri famiglie, fece nascere parecchi inconvenienti nelle strade strette ed affollate, e molti pellegrini finirono sotto le ruote dei corridori.

Vicino ai mali della turba anonima, ci sono stati registrati i beni materiali che dalla carità ricevettero i devoti e i nomi dei personaggi più illustri che al Giubileo parteciparono. Fra quelli del primo Anno Santo il fratello del Re di Francia con la consorte e cinquecento Cavalieri, Carlo Martello Re di Ungheria, Boccaccio e Dante che ricordò il fatto nel poema.

Nel Giubileo seguente un cardinale di Boulogne, con tanto sfarzo mondano che per ordine del Pontefice gli fu rimproverato come disdicevole a chi si recava alla tomba degli Apostoli per il perdono dei suoi peccati. Il Giubileo di Clemente VII si rese celebre per i capi dell’ordine Cappuccinesco, in quell’anno fondato, e quello seguente per la clamorosa conversione di un Cavaliere di Carlo V, un Borgia. Aveva avuto dall’Imperatore l’incarico di accompagnare a Granata la salma della Imperatrice, ed avendo rivisto il suo volto prima della tumulazione lo trovò così orribilmente diverso da quello che essere soleva e ne ebbe tale impressione che lasciò la corte ed il mondo e in quell’anno Giubilare entrò nell’ordine dei Gesuiti.

Nel Giubileo seguente vi fu tra i più insigni pellegrini S. Carlo Borromeo. Egli partì da Milano a cavallo, percorse grandi tappe rimanendo in sella talvolta dall’alba fino a due o tre ore di notte, allungò la sua via per visitare devotamente tutti i più illustri santuari che gli era possibile di toccare. A Roma prese ospizio presso i Camaldolesi ed ivi con severissime preghiere si preparò alla celebrazione del Giubileo.

Visitò le basiliche a piedi nudi, saliva ogni giorno in ginocchio la Scala Santa, fece larghe elemosine ai poveri e arricchì con larga munificenza la chiesa di Santa Prassede di cui portava il titolo. Il Pontefice toccato dal suo zelo concesse al santo porporato di poter l’anno seguente celebrare il Giubileo nella diocesi di Milano. In questo Giubileo vi fu anche il Tasso che ricordò l’avvenimento nella Gerusalemme.

In quello del 1700 il Gran Duca e la Gran Duchessa di Toscana e la vedova di Sobietsky e nel seguente un gran numero di schiavi, fra cui personaggi illustri, riscattati dai padri Redentori nel dominio ottomano di Tripoli. Numerosi furono gli ospiti illustri nel 1825, nonostante la miscredenza e la democrazia.

Il numero dei pellegrini nei vari anni Santi fu naturalmente assai diverso, ma in genere molto elevato, tanto che spesso, anche nell’età più remota, superò il milione. Così pure ricche ed abbondanti furono le elemosine offerte alle tombe degli Apostoli. Con quelle del 1300 ci si acquistò fra l’altro una vasta tenuta, che porta anche oggi il nome di Castel Giubileo.
A ricordo poi dell’avvenimento furono quasi sempre coniate medaglie, di cui molte, belle e preziose, si conservano ancora.

Finalmente l’Anno Santo ebbe anch’esso i suoi storici che da Cronache, Diari e carte d’Archivio trassero le notizie e fra essi Audisio, Del Chiaro, Zaccaria, Corisiano, Platina, Tripepi, Ruggieri, Strocchi e finalmente fra i più recenti e pregevoli il Prinzivalli.”