di Angelo Ramajoli.
Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di agosto, 1913.
“Il conflitto diplomatico Nippo-Americano è entrato testé in una fase acuta. Quando, prima dell’assuzione al trono giapponese dell’imperatore Mutsu-hito, avanti l’era meiji, il Giappone dei Sogun e dei Tokugawa viveva di una vita medioevale, ancora in pieno secolo XIX, una squadra nord-americana, comandata dal commodoro Perry, imponeva al governo del sol levante l’apertura delle isole del mare orientale alla civiltà degli uomini bianchi.
Questo primo atto segnava l’involontario inizio dei nipponici ai misteri dei popoli occidentali. La Repubblica delle stelle certo non riteneva che, nel volgere di pochissimi lustri, sarebbe stato proprio quello stesso impero d’ Estremo Oriente, il suo più formidabile e pericoloso competitore nella lotta per l’egemonia economico-politica sull’Oceano Pacifico.
Il Giappone, paese di carattere eminentemente vulcanico e montagnoso, ricco di uomini e povero di capitali, per quanto vanti una superficie di 420.000 chilometri quadri, compresa l’isola di Formosa, ha una estensione arabile che non arriva neppure ai 70.000 chilometri, sulla quale attualmente vivono più di 59 milioni di individui, che si riproducono con una velocità che ha del prodigioso.
La media della eccedenza delle nascite sulle morti, negli ultimi anni, ha superato al Giappone i 600 mila individui.
Da questa situazione demografica è rampollata, quasi spontaneamente, la necessità di una espansione territoriale, per dar campo alla superpopolazione giapponese di esplicare liberamente la propria attività. E noi vediamo oggi il Giappone stabilito sul continente asiatico, intento a colonizzare la Manciuria meridionale e la Corea, mentre lancia cupidi sguardi oltre le linee di confine dei territori attualmente occupati, pervaso da una febbre ardentissima di imperialismo orientale.
Ma per quanto i territori del Liaotung, della Corea e della Manciuria meridionale siano sufficientemente vasti per dar ricetto ad una popolazione giapponese di gran lunga superiore all’attuale, pure per la mancanza del denaro necessario alla messa in valore del vecchio continente, là deve sventolano le insegne del sol levante, numerosi emigranti giapponesi, anziché svolgere la propria attività all’ombra della bandiera nazionale, seguendo una corrente migratoria da tempo iniziata, preferirono, ancora dopo la campagna vittoriosa di Manciuria, attraversare il Pacifico, per correre a popolare, come avevano fatto numerosi figli del cessato Impero Celeste, gli stati occidentali della Confederazione Nord-Americana.
Quando, verso il 1869, l’immigrazione estremo-orientale verso la costa Pacifica della Repubblica delle stelle, prevalentemente costituita da cinesi e da indigeni dell’Insulindia, correva allo sfruttamento dei giacimenti auriferi, da poco scoperti nei territori dell’Unione, gli statisti yankees, che a mezzo secolo di distanza non potevano divinare lo svolversi degli avvenimenti, ripetevano: «I Cinesi meritano fiducia e le generali simpatie. Abbiamo fondamento per sperare che il fenomeno migratorio continuerà e se ne intensificherà la portata».
Ma la grande massa operaria nord-americana, costituita da immigrati o da nazionali, fatta subito persuasa della indiscutibile superiorità dei codinati, iniziò tosto una ferocissima campagna contro l’elemento cinese.
Naturalmente, contro questo disgraziato elemento cinese, abbandonato, o quasi, dalla madre patria, tutelato solo da quella parodia grottesca di giustizia che è costituita dal diritto internazionale, potentissimo per gli impotenti, ma perfettamente inutile per i popoli forti, le Labour Unions di California ebbero subito ragione.
Il trattamento al quale i cinesi vennero sottoposti nell’ultimo quarto del secolo scorso, dai democraticissimi figli della Repubblica stellata, ha riabilitato quello che i re negri del centro africano avrebbero potuto fare, all’inizio del XIX secolo, a qualche bianco che, per avventura, si fosse permesso il lusso di penetrare i segreti del continente nero, In termini ben diversi, doveva invece essere posta la identica questione nel riguardo, non più dei cinesi, ma dei nipponici stabiliti lungo il versante occidentale delle montagne Rocciose.
Contro di essi non fu possibile l’attuazione dell’iniquo trattamento cui furono sottoposti i cinesi nel Nord–America dal 1881. Oltre che dai trattati internazionali, si sapeva anche negli Stati Uniti, che i giapponesi erano tutelati da un governo veramente degno di tal nome, al quale facevano corona un esercito ed una armata che, se non si ritenevano prima del 1904, capaci di annientare sulla terra e sul mare la potenza russa, pur tuttavia si sapevano, ancora prima dell’ultima campagna d’Estremo Oriente, capaci di virtù belliche senza paragone.
Senza tener calcolo dei veri interessi nord-americani, il Roosevelt, mentre i Yankees plaudivano alla ritirata russa da Port Arthur a Kwangchengz, non ancora persuasi che del trionfo nipponico i primi a pagarne il fio sarebbero stati proprio loro stessi: il Roosevelt, fattosi, non chiesto e non desiderato, paciere fra i due contendenti, gettava le basi del trattato di pace che doveva poi essere sottoscritto a Portsmouth, nel settembre del 1905.
Troppo tardi gli abitanti dell’Unione si accorsero dell’imperdonabile errore del loro presidente: troppo tardi il pessimismo li pervase.
Il Roosevelt stesso, fatto persuaso del terribile pregiudizio che col suo intervento aveva causato a tutti paesi di lingua inglese che si affacciano sul Pacifico, preoccupato dalla pietra degli avvenimenti, dichiarava che il solo rimedio al quale canadesi, nord americani ed australiani potevano oramai ricorrere era quello di un aumento artificioso delle correnti migratorie di uomini bianchi, dirette a popolare le regioni del Pacifico, minacciate dalla emigrazione giapponese.
Sintomatico a questo riguardo è il raffronto fra le parole pronunciate dallo stesso presidente in un suo discorso tenuto a S. Francisco nel maggio del 1903, prima delle vittorie giapponesi, quando il Roosevelt dichiarava che all’Unione era riservata la dominazione dell’Oceano Pacifico, ed il Messaggio del dicembre 1906, dopo la pace di Portsmouth, in cui trascurando oramai la dominazione si parla solo del «desiderio legittimo di intensificare i traffici nord-americani con l’Asia».
Nei Yankees, oramai battuti dai nipponici anche sul terreno economico, si andava intanto sempre più ingigantendo l’odio verso i Japs di California, delle Hawai e delle Filippine che si sospettavano agenti segreti del governo di Tokyo, intenti a preparare un prossimo intervento militare nipponico nel territorio dell’Unione o delle sue colonie. Fu fondata la Japanese and Korean exclusion League; gli Stati Uniti rifiutarono di partecipare alla esposizione di Osaka e non pochi industriali americani si impegnarono a non accettare nei loro stabilimenti operai giapponesi, mentre in tutti i sudditi nord-americani, si faceva strada l’assoluta persuasione che le molte decine di migliaia di giapponesi stabiliti alle Hawai non erano, in prevalenza, che dei soldati alle dipendenze del console centrale nipponico di Honululu che, all’occorrenza, avrebbe vestito la divisa di generale del sol levante.
In quell’epoca (1906), secondo una statistica comunicata della Nihonjin Rengo Kyogi Kwai, associazione generale dei giapponesi dimoranti negli Stati Uniti, alla «Rivista di Economia Politica di Tokyo» il numero totale dei residenti giapponesi nella Repubblica delle stelle era di 65.800.
Impossibilitato a prendere altri provvedimenti contro gli immigrati nipponici, il governo di California stabiliva l’esclusione dalle scuole americane degli scolari giapponesi, a partire dall’ottobre 1906, dalla quale epoca avrebbero dovuto frequentare, coi coreani e coi cinesi, la scuola orientale pubblica.
Naturalmente, il governo di Tokyo protestò a Washington; Roosevelt definì il provvedimento dello stato di California ridicolo ed odioso, ma l’esclusione degli scolari dalle scuole pubbliche americane ebbe il consenso di tutta l’Unione.
Si credette fosse quello dei piccoli studenti gialli di California, l’argomento di un prossimo conflitto armato e fu necessario un lungo lavorio diplomatico, durato fino al febbraio del 1907, per appianare la vertenza, ammettendo alle scuole pubbliche di California, gli studenti giapponesi che ancora non avevano compiuto il 16.° anno di età.
Il movimento anti-giapponese si estendeva intanto nei domini inglesi dell’America del Nord. Manifestazioni sanguinose si registravano contro i Japs di Vancouver, mentre a S. Francisco alcune case giapponesi venivano prese d’assalto dal popolo, ed alcuni altri avvenimenti ispirati alla più profonda nippofobia tornavano ancora una volta a turbare l’orizzonte internazionale.
Per calmare gli spiriti yankees esasperati, e per dare una certa soddisfazione al sentimento nazionale nord-americano, fu organizzata la famosa visita della flotta americana dell’Atlantico, al comando del contrammiraglio Evans, ai porti del Pacifico, compresi quelli Giapponesi. I nipponici però, fedeli alle loro consuetudini, non si sono per nulla sgominati.
Il ricevimento della squadra americana al Giappone non ha tradito nessuno dei sentimenti xenofobi o xenofili che altri popoli, meno impassibili del giapponese, avrebbero sicuramente manifestato.
Nel febbraio del 1911, un atto addizionale unito al tratto di commercio nippo-americano, allora concluso, contemplava la questione tanto vessata della emigrazione gialla in California, ma era però lasciata piena libertà al governo di Tokyo di esercitare il controllo e di regolare l’emigrazione degli operai negli Stati Uniti.
Per il resto, i sudditi delle due nazioni possono «entrare, viaggiare o risiedere nei territori reciproci, esercitarvi il commercio in tutte le sue forme, acquistare case e negozi».
Gli animi sembravano così apparentemente pacificati, quando nei primi mesi del 1913, nuove difficoltà sopravvennero a rendere meno cordiali i rapporti fra i due paesi che da circa due anni, pur covando sordi rancori, manifestavano una passabile tranquillità.
In seguito ad alcuni importanti acquisti di terreni sul versante ovest delle Montagne Rocciose, da parte di alcuni giapponesi, i califormani, che già mal soffrivano la presenza dei nipponici come operai, si dichiararono assolutamente contrari a che una parte, benché minima del territorio nazionale, cadesse nelle mani dei piccoli uomini gialli. Venne quindi proibito l’acquisto di proprietà fondiarie americane agli stranieri, cui non è concesso di naturalizzarsi cittadini dell’Unione. Tale provvedimento, approvato dallo stato di California, colpiva precisamente gli immigrati di colore e ledendo in modo specialissimo gli interessi dei residenti giapponesi, metteva i sudditi del Mikado in un manifesto stato di inferiorità, al quale, francamente, dopo le vittorie sulla Russia nessun Giapponese al mondo sa oramai rassegnarsi.
Le camere di commercio al Giappone furono le prime a levare il grido di protesta. Il Governo di Tokyo fu obbligato ad intervenire a Washington. Il presidente Wilson, in omaggio alla indipendenza assoluta degli Stati dell’Unione, non seppe far di meglio che pregare lo stato di California perché la legge di interdizione all’acquisto delle proprietà fondiarie, fosse generale per tutti gli stranieri e non si limitasse a colpire, quasi esclusivamente, la popolazione giapponese.
Una via netta per la definizione della vertenza infatti non esiste. I governi delle nazioni interessate per dirimere la contesa non possono, come è stato detto da alcuno, che cercare di addormentarla. Il segretario di stato Bryan si è recato appunto a Sacramento per persuadere il governo locale a soprassedere, per ora, su ogni deliberazione.
Ma dietro la semplice questione della possibilità, o meno per i nipponici di acquistare proprietà fondiarie nello stato di California, sta un importantissimo problema di nazionalità e di razza. È il negato diritto alla naturalizzazione americana che affligge, in questo momento, il governo di Tokyo ed i giapponesi tutti, i quali esigono di essere trattati alla stregua dei popoli bianchi.
In un consiglio di Ministri tenuto alla Casa Bianca è stata esaminata attentamente la questione e si è deliberato di proporre al governo di Tokyo di portare la contesa davanti la Corte suprema degli Stati Uniti, la quale dovrà decidere se i giapponesi possono diventare o no cittadini degli Stati dell’Unione.
La proposta del presidente Wilson non è stata però favorevolmente accolta dal governo giapponese il quale non si è mostrato per nulla soddisfatto dalla nota rimessa dal segretario di stato Bryan all’ambasciatore nipponico a Washington. Nella nota è detto come il governo federale non può intervenire a modificare le leggi che regolano i singoli stati dell’Unione, e che l’Unica via d’uscita nel difficile momento è precisamente quella di affidarsi alla suprema magistratura della Repubblica.
Il 4 giugno, in una nuova nota, il governo giapponese rispondeva a quello di Washington dichiarandosi insoddisfatto delle precedenti dichiarazioni del governo americano, tanto più che, siccome la legge dello stato di California vietante l’acquisto dei terreni agli stranieri, cui non è concessa la naturalizzazione, è in contrasto con l’atto addizionale del trattato di commercio del 1911, il governo federale ha obbligo di intervenire presso quello dello stato di California per dirimere la contesa.
La nota presentata dal Visconte Chinda al segretario Bryan non ha carattere perentorio di ultimatum ed i due governi, il giapponese e l’americano, si sono accordati perché, ad evitare discussioni e commenti pericolosi presso i due popoli, il testo preciso della nota non sia, per ora, reso di pubblico dominio. Allo stato delle cose è difficile fare previsioni. Il governo federale non può imporsi alto stato di California, non perché le leggi lo vietano, ma perché tutta l’opinione pubblica del Nord-America è contro i giapponesi.
Sulle due rive del Pacifico, quotidianamente sì succedono comizi a comizi intesi a dimostrare che i rispettivi governi nazionali non sono stati sufficientemente energici: il Governo di Tokyo ha inviato, dicesi in missione di pace, nell’America del Nord il Senatore Ebara, membro dell’alta camera, con incarico di raccomandare ai connazionali stabiliti nella Repubblica di essere «ossequienti alle leggi degli Stati Uniti e di cercare di affiatarsi col popolo americano».
Mentre scriviamo, si annuncia che la risposta del governo federale alla nota giapponese del 4 giugno è «praticamente redatta e sarà fra breve consegnata all’ambasciatore giapponese».
Non se ne conoscono però ancora le motivazioni.
Il Presidente Wilson è certo in una posizione imbarazzante. Sono note a tutti le aspirazioni territoriali giapponesi, alle Filippine, alle Hawai e sullo stesso continente americano.
Oramai tutti sappiamo che al Giappone la guerra è un po l’industria nazionale per eccellenza e che, contro i valorosissimi equipaggi giapponesi, in un eventuale conflitto, che dovrà risolversi necessariamente sul mare, gli Stati Uniti potranno inviare una flotta che pur vantando grandi unità di battaglia sarà però affidata a marinai sul cui valore e sul cui spirito di sacrificio non è possibile fare alcun assegnamento.”