Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di luglio, 1918.
Di A. Koltonski.
“Nel 1859 il celebre fisico inglese Clerk Maxwell pubblicò un memoriale, nel quale si legge fra l’altro: «Combinando in certe relazioni i tre colori, convenientemente detti colori fondamentali, si può a volontà riprodurre tutti gli altri colori, ma non nel senso esatto della parola, si può però produrre almeno delle sfumature di cui l’effetto sull’occhio sia identico».
Questo principio, sebbene molto antecedente alla prima idea della riproduzione dei soggetti per mezzo della sovrapposizione di parecchie immagini fotografiche monocrome, ispirata a complicati processi della cromotipia e della cromolitografia, deve esser considerato come la vera base scientifica della tricromia, ossia dell’impressione fotografica a tre colori.
L’origine della comune impressione a tre colori è molto antica e coincide quasi colle origini dell’arte dell’incisione stessa. Infatti in Italia troviamo già verso la fine del secolo XV degli esempi in bleu, giallo e rosso. In Francia quest’arte fu abbastanza diffusa nel secolo XVII, cadde però in seguito poco a poco in oblio completo.
Nel 1865 l’inglese Collen propose un procedimento della fotografia tricolore, senza però risolverla praticamente. Lontano dal pensiero della cosiddetta, filtrazione della luce attraverso i filtri colorati, egli credeva possibile di trovare delle sostanze fotografiche sensibili esclusivamente ai tre colori fondamentali.
Contemporaneamente, per l’intraposizione dei vetri colorati, il barone austriaco Ransonnet ottenne la cosiddetta selezione cromatica della luce.Verso la fine del 1867 Charles Cros presentò all’Accademia delle Scienze di Parigi una busta chiusa, la quale, in seguito al suo desiderio, non fu aperta che nel giugno del 1876. Essa conteneva una nota dal titolo seguente: «Procédés d’enregistrement et de reproduction des couleurs, des formes et des mouvements». Secondo questa nota, interponendo fra l’oggetto e l’obbiettivo della macchina fotografica la prima volta un vetro rosso, la seconda un vetro giallo e la terza uno azzurro e projettando contemporaneamente tutti i tre negativi così ottenuti, sovraposti uno all’altro, sopra la tela bianca, vi si otteneva quell’oggetto colle sue tinte reali.
Identico fu il contenuto del brevetto, preso nel 1868 da Louis Ducos du Hauron: «Se si decompone — dice questo brevetto — in tre quadri distinti, l’uno rosso, l’altro giallo ed il terzo azzurro, il quadro, apparentemente unico, che ci offre la natura, e se di ciascuno di questi tre quadri si ottiene un’immagine fotografica separata, che ne riproduce il colore speciale, sarà sufficiente di mescolare in seguito insieme in un’immagine sola le tre immagini così ottenute per possedere la riproduzione esatta della natura, colore e forma insieme».
Ducos du Hauron ha riconosciuto pure la necessità della cosiddetta ortocromatizzazione delle lastre fotografiche ed ha indicato diverse formole per la preparazione del collodio sensibile al rosso. Il più importante è però che fu lui proprio il primo che riuscì ad ottenere praticamente la riproduzione fotografica dei colori della natura.
Egli trovò in seguito che le relative riproduzioni aumentavano nella loro realtà in misura che si modificava il colore dei relativi paralumi e riuscì finalmente a realizzare il processo, oggi ancora in pratica, della cosiddetta selezione per mezzo dei filtri colorati: violetto, verde e rosso-aranciato, coi quali si ottengono rispettivamente delle monocromie, gialle, rosse ed azzurre.
Nel 1868 Ducos du Hauron applicò per la prima volta alla tricromia il noto processo a carbone. Nel 1871 Dujardin tentò di compiere la sintesi del colorito per mezzo dell’elioincisione ed ottenne, applicando tre lastre, delle stampe veramente belle, ma troppo costose.
Nella stessa epoca Andre Quinsac cominciò a Tolosa le sue esperienze col processo fotocollografico, consistente nell’applicazione delle sostanze colloidali nella tricromia. Queste esperienze furono però troncate da un gran incendio che distrusse completamente il suo laboratorio. Le riprese in seguito Duocs du Hauron. Non tardò però a convincersi presto delle difficoltà inerenti a questo processo, esigente che ogni lastra, per poter fornire continuamente delle impressioni identiche, conservi un costante grado d’umidità, indispensabile al mantenimento di un certo equilibrio del colorito, non raggiunto completamente col detto processo neppure oggi. Visto ciò, Ducos du Hauron si decise di applicare qui i procedimenti della fotoincisione a rilievo. Nel1892 la casa Rougeron et Vignot intraprese i relativi saggi e da allora la via fu ben tracciata definitivamente. Per portare però l’impressione tricolore alla sua perfezione odierna, fu necessario di trasformare completamente tanto il materiale quanto i metodi applicati nella fotografia monocroma: gli obbiettivi, i selettori, le presse, gli inchiostri, le carte ecc., la cui perfetta coordinazione spiega sufficientemente il lungo periodo preparatorio.
Nella fotografia monocroma si ottiene abbastanza facilmente un certo acromatismo dell’obbiettivo colla semplice coincidenza del fuoco dei raggi gialli, più appariscenti alla vista e quello dei raggi violetti, che esercitano l’azione fotochimica più intensa, tanto più che l’infiuenza dei raggi rossi sulle emulsioni delle lastre comuni è quasi indifferente.
Nella fotografia tricolore è invece indispensabile di rendere la lastra sensibile anche ai raggi rossi, cioè di acromatizzare l’obiettivo a più di due dei colori, per poter evitare che l’immagine prodotta con questi raggi sia ottenuta ad una distanza fuocale maggiore ed abbia dunque delle dimensioni differenti da quelle ottenute coi raggi azzurri e gialli, in modo che le tre immagini monocrome non siano fra di loro esattamente sovraponibili. Questo problema fu però brillantemente risolto per tutti i raggi visibili coi cosiddetti obiettivi anastigmatici, sovranominati anche a spettro secondario ridotto, apecromatici o antispettroscopici.
La prima operazione del procedimento della tricromia consiste nella decomposizione del soggetto in tre negativi, ciascuno dei quali viene impresso dà un positivo in uno dei colori fondamentali, cioè la relativa impressione monocroma.
Per ottenere questi negativi parziali, si mettono successivamente durante la posa fra l’oggetto e l’obiettivo degli speciali paralumi di colore complementare. Uno aranciato per il negativo che servirà ad imprimere la monocromia azzurra, uno violetto per quella gialla ed uno verde per quella rossa. Occorre però qualche volta di completare l’effetto raggiunto con queste tre monocromie con una quarta, eseguita in nero. Il corrispondente negativo viene ottenuto allora coll’interposizione di un paralume giallo. Naturalmente le sfumature e l’intensità di colore delle relative impressioni dipendono anzitutto dalla sensibilità delle lastre applicate.
I sopraccennati paralumi vengono formati con dei vetri a superfici parallele, coperti unilateralmente di gelatina, immersi per alcuni minuti in una soluzione delle relative materie coloranti e poi collati insieme, gelatina contro gelatina, per mezzo del balsamo di Canadà.
Migliori effetti si ottengono eventualmente coi paralumi, composti di liquidi colorati con delle materie chimicamente molto pure, rinchiusi in recipienti di forma prismatica.
Per rimediare alla lentezza del procedimento, esigente come si vede, tre pose successive, Ducos du Hauron costruì nel 1874 una macchina fotografica a tre obiettivi. Ma le tre immagini prese da tre punti differenti non erano più uno all’altro sovrapponibili. Egli la sostituì allora con un apparecchio, da lui chiamato «camera oscura eliocromica», nel quale l’immagine, ottenuta con un solo obiettivo, si trovò projettata per mezzo di un giuochetto di specchi attraverso i relativi paralumi selettori contemporaneamente in tre direzioni su tre lastre differenti.
Lo stesso principio presenta oggi la base dei cosidetti cromografi, uno dei più conosciuti fra i quali è quello di Nachet-Geisler. Gli specchi vi si trovano però sostituiti da sottilissime pellicole di gelatina colorata, colle quali vengono evitate le immagini doppie prodotte dalla riflessione da ciascuna delle due superfici di quelli. primi. La messa a fuoco delle tre lastre s’effettua qui simultaneamente per mezzo di un pignone doppio ad angoli retti.
Delle impressioni, che non cedono in nulla a quelle ottenute coi cromografi, offre pure il processo, che si serve delle cosidette lastre autocrome, costituite, come si sa, da granelli di fecola colorata. Con esse si ottiene prima un dispositivo in colori, il quale a sua volta, coll’interposizione dei tre selettori, violetto, verde ed arancio, serve alla preparazione dei tre negativi analitici.
Questo procedimento di una certa comodità, specialmente per le pose all’aperto, richiedendo una tecnica speciale ed un numero relativamente grande di operazioni, non trovò però fin’ora che un’applicazione molto limitata.
I colori applicati nell’impressione fotografica debbono esser di una purezza e di una stabilità straordinaria. Dalle loro miscele deve risultare il colore nero puro. In caso contrario bisogna modificare le sfumature di una o due delle tinte, equilibrandole con dei relativi rinforzi o diluizioni. Grandi servizi rende qui la cosidetta bilancia dei colori di Rosensthiel, la quale, per mezzo di un congegno molto semplice di tre settori, dipinti con i relativi inchiostri e girati colla velocità voluta sopra una asse orizzontale in una cassetta, coperta internamente di velluto nero, dà direttamente la proporzione nella quale conviene rinforzare o diluire una o l’altra delle tinte.
Fra i diversi tipi di fotoimpressione a colori la maggiore diffusione trova forse la cosiddetta similiincisione, che permette la riproduzione delle immagini a mezze tinte.
Ciascuno dei tre negativi analitici serve qui all’esecuzione di una lastra di rame che, trattata posteriormente con un procedimento speciale viene incisa e ritoccata con grande accuratezza, per raggiungere un perfetto equilibrio del colori, e può esser adoperata senza altro pel tiraggio delle copie.
Pur rappresentando un meritevole progresso sopra i vecchi metodi dell’impressione a colori, la similiincisione non è priva però anche di certi difetti. Così i suoi colori lasciano ancora troppo spesso a desiderare ed il colorito appare non di rado troppo aspro se non completamente cambiato. Basta anche un minimo indebolimento o rinforzo di una delle lastre monocrome per rompere il loro equilibrio.
La fotolitografia a colori, nella quale il disegno viene riportato coi metodi fotografici sulla lastra della pietra litografica, trova specialmente una larga applicazione nella stampa del grandi affissi. In teoria con ogni lastra non si ottiene che il colore del relativo inchiostro al massimo della sua intensità e quello della carta sopra la quale la lastra viene stampata. Coll’applicazione però di certi procedimenti della simileincisione possono esser raggiunte anche qui delle mezze tinte e tanti altri effetti di quell’arte oggi così diffusa.
Le pietre di grandi dimensioni, troppo ingombranti nella pratica, vengono sostituite attualmente con delle lastre di zinco e di alluminio. In tutti due i casi è raro però che lo strato sensibile si stenda direttamente sopra la lastra di tiraggio. Si procede generalmente per riporto. Una carta speciale, coperta di gelatina bicromatizzata, viene esposta all’azione della luce sotto il negativo da copiare. L’immagine si copre allora coll’apposito inchiostro, s’immerge la foglia in acqua e, fregandola leggermente con un tampone di ovatta, si liberano dall’inchiostro grasso tutti i posti corrispondenti al bianco del modello. Finalmente la si applica sulla pietra o sulla lastra metallica e si procede seguendo i metodi usuali della litografia.
In questo modo si ottengono oggi quasi automaticamente con 8-4 tiraggi delle immagini non inferiori affatto a quelle antiche cromolitografie, che una volta esigevano almeno 10 o 12 lastre, eseguite colla massima meticolosità ed applicate in un procedimento lungo e molto delicato da artisti abilissimi.
Molto più difficile si rende invece la fotocollografia a tre colori, un processo di riproduzione ad inchiostri diversi, nel quale si fa uso delle sostanze colloidali (gelatina, bitume ecc.).
Nel fascicolo di febbraio del 1914 della rivista inglese «The photographic Journal» F. T. Hollyer comunica alcuni dati pratici che permettono una certa costanza nei risultati. Il suo metodo però, esigente dopo la stampa del monocromo giallo un asciugamento durante almeno 24 ore e dopo quella del monocromo rosso uno più lungo ancora di 36 ore, si rende per la pratica troppo lento e trovò perciò, malgrado tutta la finezza dei suoi effetti, un’applicazione relativamente ristretta.
Delle grandi difficoltà s’incontrarono sino agli ultimi tempi anche nel campo dell’elioincistone a colori, specialmente in quanto riguardava l’inchiostratura e l’asciugamento delle lastre incise, che rendevano la loro stampa troppo lenta e troppo dipendente dall’abilità del tiratore.
Colla recente introduzione dell’elioincisione rotativa, oppure della cosiddetta rotoincisione, la situazione cambiò però qui completamente. Per mezzo di una speciale macchina rotativa, che permette una automatica esecuzione dell’inchiostratura e dell’asciugamento, il colorito può esser equilibrato con questo nuovo metodo una volta per sempre e la stampa procede in modo da fornire rapidamente delle copie identiche e precise.”