di Cesare Chiodi.
Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di agosto, 1915.
” L’apparizione dell’artiglieria volante da campo fra i mezzi bellici — avvenuta per la prima volta nel 1468 alla battaglia della Molinella — diede nuova importanza all’uso della polvere da sparo, che, se già noto in Europa fin dal primo ventennio del secolo XIV, era rimasto per un buon secolo e mezzo di scarsa efficacia per l’enorme peso e la difficile manovra delle prime bombarde e dei cannoni dai nomi terribili, ma dalle moli pigre ed ingombranti, fino allora usati, per la piccola portata e la lentezza dei loro tiri, per la consuetudine di usare per lo più proiettili di pietra, il che ridusse in origine l’ufficio di queste artiglierie ad un semplice surrogato dei vecchi mangani, delle bricolle e delle altre macchine della balistica antica, contro le quali potevano ancora ritenersi sufficienti i sistemi preesistenti di fortificazioni a fossati, alti muri verticali e torri destinati a costituire un semplice ostacolo fra assalitore e difensore, ad impedire per effetto di una lotta troppo prossima e di un finale corpo a corpo la penetrazione delle truppe nemiche assedianti nella città.
Ridotta la mole ed il peso dei cannoni, adattati i nuovi pezzi su ruote e veicoli, introdotti in modo definitivo i proiettili di metallo, le nuove artiglierie volanti passarono finalmente al seguito degli eserciti in marcia e dopo Molinella ebbero una più solenne affermazione nella campagna d’Italia del 1494, nella quale i centoquaranta pezzi di bronzo degli eserciti di Carlo VII ebbero facilmente ragione delle nostre vecchie fortezze.
Contro la nuova arma occorreva che l’architettura militare preparasse nuove difese, abbandonando i vecchi criteri di poliorcetica che si può dire regnassero fin dall’epoca ellenica. Infatti già ogni città greca — Sparta esclusa, alla cui difesa dovevano bastare i petti dei cittadini — aveva quella cerchi di alte e robuste mura merlate e turrite e precedute talora da una fossa, che vediamo poi ripetersi in ordine spesso doppio e triplo e con maggior sfoggio di torri rotonde e quadrate a più piani nella città munite romana (fig. 1), e che restaurate e rafforzate sopravvivono nel medio evo, accanto alla nuova costruzione caratteristica medioevale — il castello feudale — il quale pur tuttavia non è che, in altra forma e con speciali esigenze, una applicazione degli identici concetti difensivi nei suol gironi di alte e robuste torri merlate e turrite, dominate dal torrione o mastio, con bertesche sporgenti e piombatoie, fossi profondi superati da ponti volanti, con porte sbarrate da saracinesche e cancelli (fig. 2).
Per tutto questo lungo periodo della storia dell‘architettura militare l’ufficio principale delle difese fu affidato all’altezza delle mura, delle torri, delle cortine. Ma ciò divenne un difetto allorché in ragione appunto della loro altezza esse non fecero che offrire un maggiore e più debole bersaglio alle artiglierie nemiche, ed accrescere d’altra parte la larghezza della zona di terreno, che, per tutta la lunghezza del piede delle mura, si trovava inaccessibile ai colpi delle artiglierie dei difensori sovrastanti diretti sempre, più o meno obliquamente rispetto alla verticale, creando così per la difesa un angolo morto nel quale l’assalitore poteva con minor pericolo ricoverarsi a lavorare d’ariete, di mina o di scala a scalzare, o scalare la muraglia.
Si pensò allora di affondare le mura dentro i fossi ed in pari tempo di ispessirle, di dar larghezza ai terrapieni, maggior robustezza alle opere murarie ed infine dalle torri e dalle cortine si passò alle fortificazioni «a bastione». A partire da quest’epoca il «bastione» intercalato fra i tratti rettilinei di cortine, sostituisce la torre delle antiche muraglie ed a differenza di questa, non limita la sua potenzialità di difesa al solo lancio di proiettili in direzione perpendicolare all’andamento della cortina, ma può battere anche parallelamente a questa sugli assalitori pervenutine al piede (fig. 3).
Furono maestri nella nuova arte difensoria gli architetti italiani, che erano stati primi testimoni della rovina degli antichi mezzi, dall’enciclopedico Leonardo a Francesco di Giorgio Martini, il vero creatore, sembra, della difesa a baluardo, a Giuliano ed Antonio di San Gallo, i restauratori dei forti di Pisa, Livorno, Firenze, ai Pacciotti di Urbino. Ne scrissero il Macchiavello, Niccolò Tartaglia il matematico, G. B. della Valle, Francesco M. della Rovere, l’Alghisi, il Melloni, il Leonardi, il Castriotto, il Marchi, G. B. Zanchi, dal quale ultimo attingeva largamente il de La Treille, il primo scrittore francese di moderna architettura militare (1554), come già Alberto Dürer il pittore ed incisore, aveva attinto da Leonardo per la sua opera sulle fortificazioni datata dal 1527. Strana e sintomatica fioritura letteraria in quel primo scorcio del cinquecento nel quale vediamo coll’uomo d’armi e col tecnico gareggiare lo statista, il matematico, l’artista a trattare dei mezzi di offesa e di difesa.
Coi nuovi ordinamenti alle difese «piombanti» e cioè ai muraglioni rettilinei, verticali, elevati, si sostituirono quindi le strutture «fiancanti» ossia con perimenti fortificati, spezzati, disposti in modo che ogni loro parte di cortina potesse essere veduta e protetta da qualche altra opportunamente sporgente — il bastione — capace di battere col lancio dei propri proiettili parallelamente ai tratti rettilinei adiacenti sugli assalitori pervenuti fino al piede di questi e quindi ormai fuori del tiro diretto dei loro difensori, per essere penetrati entro il cosidetto angolo morto delle artiglierie della cortina. Si introdussero contemporaneamente i muri a forte scarpa contro i quali le artiglierie, dando obliquo, fanno minor colpo che se percuotessero a retto; si diede grande sviluppo ai lavori ed ai rinfianchi di terra affondando le mura così da poter strisciare colle artiglierie lo spalto declinante verso la campagna, il quale col suo pendio copre la cortina in modo che il nemico volendola battere è costretto a tagliar esso lo spalto e la controscarpa con gravi difficoltà ed a piazzare sul lembo del fossato le sue artiglierie di breccia con estremo pericolo.
Tali miglioramenti furono introdotti passo passo, ed ebbero severo esperimento per opera di Maurizio di Nassau nella lunga guerra delle Fiandre, trovarono nuovi validi studiosi in Francia nel Bar-le-Duc, nel de Ville, nel Conte di Pagan, riuscendo a sempre più ingegnose combinazioni di massicci di terra e di muratura atti a meglio proteggere i difensori ed a consentir loro la maggiore efficacia e facilità di tiro sugli assedianti, che caratterizzarono l’architettura militare dei secoli XVII e XVIII e culminarono nelle concezioni del Vauban (1653-1707), riformatore di quasi trecento piazze antiche, costruttore di trentatre nuove, capitano in cinquantatre assedi, combattente in centoquaranta fatti d’ armi (figure 4, 5, e 6).
È dovuta particolarmente a lui l’introduzione delle torri bastionate pentagonali munite di artiglierie per la difesa fiancante dei fossati di cortina, il perfezionamento delle strade coperte, l’adozione delle tanaglie.
Malgrado i miglioramenti successivamente introdotti, le fortificazioni bastionate non andarono, in progresso di tempo, esenti da critiche, delle quali furono autorevoli assertori il Marchese di Montalambert e più tardi Lazzaro Carnot il quale aveva fatto utile esperienza alla difesa di Anversa.
Frutto delle nuove correnti di idee fu la sostituzione del «tracciato poligonale» al tracciato bastionato. Di questo concetto difensivo si trova giù un cenno precursore nelle opere di Niccolò Tartaglia fin dal secolo XVI. Il principio del tracciato poligonale è quello di rendere il «fiancamento» dei fossati al piede della cortina indipendente dal tracciato della cresta del parapetto della cortina stessa. Per ottenere ciò, in luogo di spezzare il contorno della cortina coll’introduzione dei bastioni si disponeva a cavallo del fossato una difesa sporgente — la cosidetta «capponiera» — munita di bocche da fuoco con tiro parallelo ai fossati (fig. 7). È esempio tipico del tracciato poligonale il forte Alessandro a Coblenza costrutto nel 1820 (fig. 8).
Più tardi però l’aumentata efficacia delle artiglierie rese pure necessario di allontanare sempre più dal centro della città da difendere la cerchia delle fortificazioni non solo per sottrarre materialmente le abitazioni private, gli edifici pubblici, i cittadini non combattenti all’azione diretta del bombardamento da parte del nemico assediante, ma anche per attenuare colla distanza e se possibile per escludere gli effetti psicologici sempre disastrosi sul morale della popolazione inerme.
Non era, per ragioni intuitive, possibile allargare oltre un certo limite la cerchia chiusa delle mura; si provvide allora ad allontanare la linea delle fortificazioni dal centro della piazza forte colla introduzione di opere avanzate di forti isolati, i così detti forti di cintura i quali non sono in sostanza se non un, «baluardo» ingrandito ed isolato per modo che la linea formata da tali forti si può paragonare ad una derivazione del tracciato bastionato nel quale siano stati conservati i baluardi e soppresse le cortine. Si arrivò in tal modo al campo trincerato, il quale nacque quasi contemporaneamente in Italia e nel Belgio per merito dei generali Cavalli e Brialmoni.
Così nelle fortificazioni di Parigi nel 1840, di Lione nel 1845, di Anversa nel 1859 la nuova cinta fu contornata da un anello di forti distaccati destinati a mantenere il nemico ad una notevole distanza dalle città.
L’utilità del nuovo ordinamento fu sentita nell’assedio di Parigi del 1870 nel quale relativamente piccoli furono i danni delle artiglierie nemiche sulla capitale francese che fu presa per fame e non d’assalto.
L’efficacia delle artiglierie fu particolarmente accresciuta colle nuove armi rigate, applicate pel primo nel 1846 dal nostro Cavalli ma solo più tardi introdotte nell’uso comune, e di maggior portata, di migliore precisione, di enorme potenza distruttrice quando si ricorse anche all’uso di proiettili esplosivi. Anche i progressi realizzati nell’impiego del tiro arcuato come mezzo di offesa misero in condizione di vulnerabilità qualunque parte scoperta nell’interno di un forte rendendo impossibile il servizio dei pezzi, imponendo la necessità della costruzione di rifugi voltati, di traverse ai parapetti, di camere a casamatta per i corpi di truppa, i depositi di munizioni, di viveri, e finalmente del collocamento a riparo dei cannoni di difesa o entro casamatte interrate o sotto cupole corazzate.
La prima applicazione di cupole metalliche girevoli a difesa delle batterie dei forti, a somiglianza dei sistemi di protezione giù in uso pei pezzi da marina, fu fatta nel 1862 dal generale Brialmont al forte n. 3 della cintura di Anversa il cui ridotto ebbe appunto una cupola per due cannoni da 150 mm. ideata su piani del Capitano Coles della marina inglese.
Dieci anni più tardi i due forti di S. Filippo e S. Maria allo sbarramento della Schelda a valle di Anversa ebbero i primi gruppi di torri corazzate. Nel 1867 le cupole ebbero la loro introduzione in Germania, nel 1877 in Francia.
Particolare attenzione richiamò la resistenza delle cupole e delle volte all’azione delle granate che lanciate con velocità iniziali relativamente deboli da obici o da mortai e munite di miccie a ritardo non scoppiano che dopo essere penetrate di parecchi metri nel terreno che violentemente squarciano, giungendo a lesionare persino le volte sotterranee coperte da tre e quattro metri di rinterro.
Gli studi del comandante Mougin (1887) il quale, mettendo in rilievo l’impossibilità di garantire la resistenza alle scarpe e contrascarpe murarie, intravide la eventualità della soppressione dei fossati, le esperienze del 1886 sul forte della Malmaison, pure del 1886 a Spezia, del 1888 a Châlons, quelle del Generale Brialmont al poligono di Brasschaet (1889) ed a Cotroceni presso Bucarest — per citare solo quelle che ebbero maggiore notorietà — misero in evidenza i requisiti dalle moderne difese ed in particolar modo dalle cupole corazzate per quanto riguarda la resistenza (proprietà del metallo), la forma geometrica (in rapporto all’angolo di incidenza dei proiettili), i dispositivi del movimento.
Risultato di questi studi fu la generale adozione di questi mezzi difensivi presso tutti gli stati europei, talché nel 1910 circa quattromila erano le torri blindate di diverso modello in servizio, e per un buon terzo nella stretta zona di confini dell’Olanda, del Belgio, della frontiera franco-tedesca, della Svizzera, della frontiera franco-italiana.
Le cupole corazzate in uso sono sostanzialmente di due tipi, il più antico costituito da una calotta mobile intorno ad un asse di rotazione verticale, e l’altro, proposto dallo Schumann, così detto «ad eclisse» che avrebbe voluto rappresentare un perfezionamento del precedente nel senso di mettere la calotta stessa al riparo dei proiettili cadenti sotto piccolo angolo per mezzo di un movimento verticale che consenta alla cupola coi cannoni di eclissarsi sotto l’orizzonte dopo eseguiti i propri tiri.
Il primo tipo è il più semplice. Una calotta metallica sferica, oppure una torricella cilindrica scorrevoli su una guida circolare appena emergenti da terra quanto possa bastare per dar passo alla bocca del pezzo riparato, il quale è col proprio affusto pure girevole insieme alla calotta intorno a un asse verticale. Assai difficile è la scelta del materiale meglio atto alla costruzione della corazza, la quale ha comportamento essenzialmente diverso da quelle di marina ove la mobilità del bersaglio impedisce la ripetizione di colpi nel medesimo punto.
Il materiale di una torricella blindata da fortezza deve egualmente bene resistere alla penetrazione ed alla rottura, condizioni che disgraziatamente richiedono qualità opposte e difficilmente conciliabili: poiché un materiale abbastanza duttile da non essere spezzato sarà facilmente forato, mentre un metallo duro e resistente alla penetrazione male sopporterà gli urti. Accresciuto col tempo il potere di penetrazione dei proiettili si dovettero successivamente abbandonare le corazze di ghisa dura per il ferro laminato, quindi per l’acciaio, ed infine per l’acciaio al nichelio oggi generalmente impiegato.
Numerosissima è la serie dei dispositivi adottati nella costruzione delle torricelle dei due tipi. Si tratta soprattutto però di particolari di dettaglio, o di gelosi perfezionamenti apportati ai tipi classici fondamentali che possono essere sommariamente illustrati da pochi esempi. Le figure 9 e 10 danno lo schema tipico di una cupola a calotta sferica girevole senza eclisse. Sullo spigolo G sta la guida circolare sulla quale, coll’interposizione di rulli a molle V, ruota la cupola. L’incastellatura A solidale colla calotta serve di affusto al cannone ed al tempo stesso posa sul pernio P il quale comandato da un sistema di leve E nella fase di movimento imprime dapprima un leggerissimo innalzamento alla calotta e quindi la rotazione all’intero sistema. Dei contrappesi a sabbia e a dischi in B e in C stabiliscono l’equilibrio delle masse mentre la feritoia in F consente all’osservatore di controllare quanto avviene al di fuori.
Il tipo della figura 11 a torricella cilindrica è pure girevole senza eclisse. Il pernio idraulico P regge come nel caso precedente l’incastellatura A solidale coll’affusto e colla cupola la quale posa sul contorno coi suoi rulli sulla guida circolare G.
Si potrebbero citare altri esempi con dispositivi più o meno complessi, fra gli altri quelli a due bocche da fuoco in luogo di una sola come alla figura 10, ma ciò ci porterebbe troppo fuori dai limiti di questi brevi cenni descrittivi. Ricorderemo solo i nostri colossali tipi di torri blindate di Spezia e di Taranto, con corazze Gruson, le massime in servizio, del peso ciascuna di 2500 tonn. armate con due pezzi Krupp da 410, quel medesimo pezzo che esposto in un quinto esemplare all’esposizione di Chicago, venne dagli americani battezzato per antonomasia il Big Gun.
Fra le torri ad eclisse un tipo leggero per cannoni a tiro rapido — per esempio una coppia di cannoni da 75 millimetri — è quello della figura 12. Lo schizzo rappresenta la cupola in posizione di sparo:lo schema di funzionamento riesce evidente. La manovra dell’eclisse comandata dalla leva L attraverso il bilanciere BB imperniato in A e contrappesato dalla massa C dà il movimento di innalzamento e di abbassamento della camera di tiro, la quale negli altri particolari di manovra non differisce sostanzialmente dai tipi precedenti.
Fra le torri ad eclisse per grosse bocche da fuoco ricorderemo quella del tipo Galopin. La costruzione, come indica la figura 13, si divide in tre piani. Il piano superiore o torricella di tiro che si innalza e si abbassa può contenere ad esempio due pezzi da 155 sui loro affusti. La calotta di ferro laminato di 80 cm. di spessore riposa su un tamburo di acciaio di 40 cm. HU piano di mezzo, traversato al centro dal pernio P di sostegno della torricella, contiene i comandi, le leve, i volanti di puntamento. Al piano inferiore si hanno invece gli argani di manovra, i contrappesi C ai quali è affidato il movimento di eclisse per il tramite dei soliti bilancieri B che guidano la sede S di appoggio del pernio P della torricella. Malgrado il peso elevato, che raggiunge le 259 tonn. coi contrappesi di equilibrio, in cinque secondi sei uomini bastano per la messa in posizione di sparo dell’eclisse della torricella.
In Germania si usano soprattutto le torri del tipo Schumann con una calotta di 15 centimetri di acciaio dolce al nichelio il cui modello originario risale fino al 1886 (vedi figura 14) constava di una calotta sferica posata su un pernio equilibrato da leve. Il movimento di eclisse è automatico e non dura che due secondi.
La costituzione di cinture o di anelli di forti distaccati lontani quanto è possibile dal centro della piazza forte e la dotazione di questi forti con cupole corazzate rappresentano i due elementi caratteristici di un sistema di fortificazioni moderne, L’organismo attuale di una piazza-forte ha la sua linea principale di difesa in un insieme di opere apparecchiate nella zona di cui i forti permanenti occupano i punti più importanti. Queste opere, scaglionate su una certa profondità in modo da consentire alle differenti armi un reciproco aiuto in relazione ai propri limiti di azione, sono situate ad una distanza da tre a cinque chilometri dalla cintura della piazza e comprendono in primo luogo i forti posti generalmente ai vertici o salienti e le opere intermedie eventualmente costrutte nell’intervallo dei forti, quando la distanza fra questi è troppo forte, per consentire la loro difesa ai fianchi, in secondo luogo le batterie destinate all’artiglieria di grosso calibro, le piazzuole per le artiglierie da campagna e le posizioni di combattimento per la fanteria a reticolati, trincee, strade coperte, bocche da lupo, lunette, tutte situate negli intervalli fra i forti.
Un forte è di massima costituito da una cintura a parapetto e fossato ordinariamente a planimetria triangolare, trapezio o poligonale e da una o più parti interne costituite da enormi massicci murari nelle quali trovano posto le torri blindate, gli osservatori, gli alloggi.
Il profilo del parapetto e del fossato ha l’andamento approssimativo illustrato dalla figura 15. La scarpa in terra ha pendenze di 2 su 3, difesa da una griglia al piede, la controscarpa è sostenuta nella sua parte inferiore da un muro a parete verticale alto talora più di cinque metri. Infine lo spalto anteriore riceve la difesa sussidiaria dei reticolati di filo di ferro.
Le difese fiancanti dei fossati sono affidate a delle ridotte di muratura addossate alla controscarpa, al vertici del fossato munite di cannoni di calibro medio e di mitragliatrici, e comunicanti con passaggi sotterranei con l’interno pel forte. Il parapetto ha da otto a dieci metri di spessore di terra e può essere ancora munito di ripari di calcestruzzo o di scudi di lamiera, o di osservatori corazzati che ne oltrepassano la cresta.
Oltre ai forti costituenti la linea o anello di di difesa di una piazzaforte, si hanno pure i forti di sbarramento isolati capaci di una azione autonoma, situati generalmente in regioni montuose coll’ufficio di dominare un passaggio. L’organismo costruttivo non è essenzialmente diverso dai precedenti.
La figura 16 può dare un’idea schematica di un forte a pianta quadrilatera. La larga zona periferica segnata con H indica lo spalto ossia il primo anello di difesa esterna a reticolati di filo di ferro, la zona che segue verso l’interno punteggiata nel disegno e distinta con L sta a rappresentare il fossato, nella controscarpa del quale a tre dei vertici si hanno appunto le difese fiancanti G del fossato costituite da costruzioni murarie munite di cannoni di calibro medio e di mitragliatrici ed in comunicazione attraverso i passaggi sotterranei in coll’interno del forte. Entro la cinta del fossato e del parapetto di terra, che come si disse può anche essere munito da posti di combattimento in muratura (F), da linee di difese corazzate (E) e che in posizioni opportune è dominato da posti di osservatorio blindati (D) si hanno le vere opere offensive del forte che nel caso del disegno sono rappresentate da quattro torricelle d’angolo a eclisse (C) capaci per esempio di due mitragliatrici o di cannoni a tiro rapido e da una torre a eclisse B capace di due pezzi da 155. Finalmente al centro A del forte si hanno i locali per la guarnigione, le munizioni, i magazzini generalmente costrutti in cemento armato e ricoperti da alcuni metri di terra (fig. 17).
A pianta triangolare è il forte della fig. 18 nel quale come al solito in H si ha lo spalto esterno coperto dai reticolati, in L il fossato, in G le difese fiancanti, e nella parte interna in o si hanno i posti da osservatorio corazzati, in b le torricelle a eclisse pei cannoni a tiro rapido, ed in d quelle pei cannoni da 150 mm. In m opportunamente isolato si ha infine il magazzino delle polveri.
Come illustrazione sommaria del modo nel quale i singoli elementi staccati dai forti si raggruppano nella organizzazione difensiva di una piazza riporteremo da ultimo le piantine dei due campi trincerati, l’assedio dei quali e la rapida caduta, malgrado i potenti mezzi difensivi, costituirono due fra gli avvenimenti più notevoli della prima fase della odierna guerra europea. Intendo riferirmi a Liegi ed Anversa.
Il campo trincerato di Liegi ha quindici chilometri di diametro ed è attraversato dal corso della Mosa. Sulla riva destra, ove il terreno è assai movimentato, i forti occupano una serie di creste di altitudine variabile fra i 230 e i 270 metri; sulla riva sinistra la linea occupata dai forti è ad una quota di 180 m.
I dodici forti staccati che costituiscono l’anello difensivo sono disposti su un perimetro quasi circolare. Ricorderemo fra questi nel settore N-0. il forte Loncin — nel quale si trovava il Generale Leman, l’eroico difensore di Liegi — caduto il 15 agosto dopo dieci giorni di lotta sotto l’azione degli ormai favolosi pezzi da 420.
La forma dei forti è triangolare o trapezoidica: quella triangolare si presta particolarmente per ridurre al minimo il numero delle batterie destinate alla difesa fiancante dei fossati. Il profilo del fossato e del parapetto si avvicina al tipo della figura 17, l’armamento dei forti più importanti comprendeva due cannoni da 150, quattro da 120, un obice da 210, due mortai da 210, due obici da 120 e quattro cannoni a tiro rapido da 57. Si aggiungevano poi sempre i pezzi destinati alla difesa fiancante dei fossati, disposti nelle casematte di controscarpa in numero di quattro per ogni lato del fossato.
Il campo di Liegi avrebbe richiesto secondo i competenti una guarnigione di cinquantamila uomini per la sua efficace difesa, per di più la linea dei forti avrebbe dovuto completarsi con opere intermedie atte a precludere al nemico il varco nell’intervallo fra due forti. Gli avvenimenti del mese di agosto dello scorso anno sono troppo recenti perché vi sia bisogno di richiamare su queste obbiezioni l’attenzione del lettore. Appena furono paralizzati ed annientati i quattro forti del fronte est e sud-est, Barchou, Evegnée, Fléron, Chaudfontaine, le artiglierie da campagna tedesche fulminarono a gran furia le opere secondarie degli intervalli, poi lanciarono all’assalto le colonne di fanteria. Enormi furono le perdite, tuttavia essi passarono.
Alla città di Anversa per la sua posizione sulla Schelda e per l’importanza del suo porto era affidato il compito di estrema ridotta della difesa del paese. Chiusa già fra il 1859 e il 1864 da una prima cerchia di forti distaccati dal generale Brialmont — fra i quali ricordiamo il forte n. 3 dove ebbero prima applicazione nel 1862 le cupole blindate — questo anello difensivo completamente rinnovato costituisce ora la seconda linea di difesa, mentre la linea principale portata circa 10 chilometri più in fuori si appoggia al corso del Rupel e della Nethe al mezzodì e raggiunge la frontiera olandese a settentrione, costituendo un vastissimo campo trincerato del perimetro di centootto chilometri, delle dimensioni diametrali di trentotto chilometri da nord a sud e di trentun chilometri da est a ovest, cinto da un sistema difensivo di tredici forti, tre fortini e quattordici ridotte costrutto sui piani del Generale Liénart.
La difesa di Anversa si completava colla possibilità di rendere innondabile una larga zona ad occidente della città ed un’altra minore al mezzodì.
L’enorme sviluppo della linea di difesa avrebbe richiesto una formidabile guarnigione quale l’esercito belga ormai stremato non aveva più disponibile; pare inoltre che non tutte le opere di difesa fossero perfettamente ultimate, né che tutto il materiale di artiglieria abbia dato quei servizi che si potevano attendere.
Ricorderemo come la caduta di Anversa sia avvenuta la sera del 9 ottobre, dopo dodici giorni di assedio. Occupato Lanaeken presso la frontiera olandese, presi i forti, o meglio le rovine dei forti, di Lierre, Koningskoyckt, Wawre S. Caterina, e Waelhelm, e ridotti poco dopo al silenzio i forti di Kessel e di Broechem tutti del settore sud orientale della cinta esterna, i tedeschi furono in grado di passare la mattina del 7 ottobre la Nethe e di avvicinarsi alla cinta dei forti interni e di iniziare il bombardamento della città. Tra l’8 e il 9la parte meridionale di Anversa ardeva tutta e l’incendio era alimentato dai serbatoi delle installazioni petrolifere del porto sui quali uno Zeppelin aveva lanciato delle bombe. Alle 17.30 del 9 la città alzava bandiera bianca mentre pochi forti ancora opponevano le ultime resistenze.
Ricordammo gli episodi salienti delle due tragiche rese, perché la rapidità delle capitolazioni dei due importantissimi campi trincerati ritenuti dai tecnici imprendibili, sembrarono scrollare le basi della poliorcetica moderna.
Quantunque a questi primi mirabili successi della tecnica d’assedio tedesca non abbiano tenuto dietro pari risultati nelle operazioni contro le fortezze francesi dell’Est, pare a molti coll’esperienza anche della fase ora in isvolgimento sul fronte russo realizzata la profezia che il Generale Langlois faceva fin dal 1905 che di fronte alla precisione sempre più efficace dei tiri, favorita dalle segnalazioni esatte fornite dai mezzi aerei, ed alla possibilità di far convergere su un piccolo spazio ben determinato quale è un forte, una formidabile gragnuola di proiettili, essi stessi di alto potere distruttivo, nessuna difesa di muratura o di acciaio sia capace di opporre una resistenza di lunga durata.
«Non è lontana l’epoca, scriveva il Langlois, in cui sì capirà che ai grandi forti massicci con torrette corazzate bisognerà sostituire grandi opere a lunghe linee di trincee dal profilo leggero che reciprocamente si sostengano in profondità protette da grande superficie di difese necessarie, ben appoggiate a tergo da gran numero di bocche da fuoco mascherate».
Sarebbe imprudente anche per i tecnici provetti affrontare prematuri giudizi. Certo è che la guerra europea è tuttora in piena fase di sviluppo e molti terribili insegnamenti restano ancora da ricavarne. Confidiamo che una buona lezione possa dal canto suo gloriosamente pronunciare l’artiglieria italiana la quale su un fronte di cinquecento chilometri sta ora cimentandosi con uno dei più formidabili sbarramenti che, complice politica, natura ed arte abbiano saputo apprestare.”