di L. Sinigalli.
Da Sapere, Anno III, Volume V, N. 60, 30 Giugno 1937.
“Sulla linea Orte-Terni-Ancona che segue la Valle del Nera, in un paesaggio a tratti pettinatissimo e poi di sorpresa boscoso e rupestre, c’è lo scalo di Narni-Amelia, una stazioncina così vivida del colore dei manifesti, così rumorosa per le assidue manovre dei carri merce che portano, a volta a volta, cisterne di olio di lino, balle di sughero, enormi bobine di iuta, barili di resina, e sacchi di colore. Sono le materie prime che entrano nei magazzini della Fabbrica del Linoleum e sono conservate in capaci serbatoi e sotto vaste tettoie.
L’olio di lino è la materia base nella fabbricazione del linoleum (quella che dà il nome al prodotto finito): entra nella proporzione del 25% circa in tutti i tipi. È un olio vegetale spremuto dal seme delle linum usitatissimum, essiccante al grado massimo, e per questo assai ricercato nell’industria delle vernici.
Il mercato europeo dell’olio di lino è Amsterdam e il migliore olio sembra quello dei paesi baltici. L’indice di qualità dell’olio rispecchia la proprietà di assorbire l’ossigeno dell’aria e disseccarsi, formando una pellicola elastica. (Dall’osservazione di questo fenomeno partì appunto Walton, l’inventore del linoleum.) Questo indice di qualità, espressione vaga se pure suggestiva, ha trovato una misura precisa nel cosiddetto “indice di iodio” che è un numero discriminante degli olii, direttamente proporzionale al grado di essiccatività e che misura la quantità di iodio espressa in milligrammi che può essere fissata da mille grammi di sostanza. Per l’olio di lino questo numero oscilla tra 195 e 171. Un calo di valore deve far supporre un eccesso di impurità o addirittura far sospettare una adulterazione. Per esaltare questo potere essiccante dell’olio, questa sua simpatia per l’ossigeno, l’olio viene cotto in caldaie da 2000 kg a una temperatura di 230° e sotto l’azione del litargirio fino a quando assume una certa consistenza viscosa.
Per effetto dell’ “ossidazione” l’olio di lino cotto subisce una modificazione profonda: secca in pelli sottili all’aria, dando una materia più o meno elastica, trasparente, la “linossina”.
Questa gelatinizzazione dell’olio cotto a causa dell’ossidazione, può essere chiarita in parte coi principii della chimica colloidale.
L’olio di lino cotto si solidifica per azione dell’ossigeno e del calore. Perché questa trasformazione dell’olio di lino in linossina sia completa, bisogna garantire una vasta superficie di contatto con l’ossigeno dell’aria. A questo riguardo Walton per primo pensò di irrorare con olio dei lunghi teli di cotone. L’ossidatoio classico si presenta quindi come una grande camera divisa in un certo numero di campate. In prossimità del soffitto alcune intelaiature meccaniche portano trasversalmente i sostegni di sospensione delle tende, distanti l’una dall’altra di alcuni centimetri e ancorate alla base per garantirne l’intercapedine. Un carrello mosso elettricamente lungo le guide di sospensione lascia scorrere per circa due ore una lama di olio che va a irrorare le tende. Questo accade ogni giorno per ogni campata. Alla temperatura di 40° l’olio trova le condizioni adatte per ossidarsi fino alla coagulazione. La carica di olio alle tende si ripete per parecchi mesi fino a quando lo spessore della linossina sul sostegno di cotone raggiunge i 3 centimetri circa. Ma per compensare l’immobilizzo del capitale per tanti mesi (un vecchio ossidatoio Walton carico può contenere 120-130 tonnellate di linossina) si ricorre a processi di ossidazione più rapidi che pur dànno un prodotto soddisfacente (nuovo Walton, Bedford).
Con la fusione delle linossine di varia provenienza nelle resine (a 130°-135°), in grandi caldaie dette di “cementazione” (vedi fig. 1), e riscaldate da una camicia di vapore, si perviene a una soluzione colloidale, a un gelo elastico il quale dopo 5 ore non fonde più per riscaldamento. Sembra che il punto di fusione dei solventi (le resine) abbia un’importanza risolutiva sulle qualità fisiche del cemento, la durezza, la resistenza, l’elasticità. Questa fusione di due colloidi, di due sostanze elastiche, le resine e la linossina, bisogna situarla tra le soluzioni propriamente chimiche e quelle cristalline (le leghe metalliche). Si lascia maturare il cemento in magazzino per parecchie settimane, Quando è fresco ancora, il cemento è molle e gommoso; dopo un certo tempo diventa “nervoso” e duro e presenta una grande elasticità alla pressione delle dita.
La colofonia, oggi largamente usata, è ottenuta per distillazione diretta a mezzo di vapore acqueo delle trementine colanti da pini di famiglie diverse; scaldando cioè continuamente tali trementine in speciali apparecchi a distillazione, finché tutto l’olio contenutovi sia passato. Il residuo fluido e caldo che rimane si versa in barili ove raffredda e solidifica. Il punto di fusione della colofonia è assai variabile, da 70° a 135° secondo il modo di preparazione e secondo il tipo. Tutte però rammolliscono intorno ai 70°.
Viene usata su vasta scala oltre che nell’industria delle vernici e del linoleum, nella fabbricazione dei saponi e nella fabbricazione della carta. I suonatori degli istrumenti ad arco la sfregano sul crine dell’archetto perché aderisca meglio alle corde e le faccia meglio vibrare, gli schermidori la spargono sulla pedana per dare al piede un appoggio più sicuro.
Le coppali si distinguono in dure e molli, si chiamano anche commercialmente gomme e le più richieste, quelle a maggior grado di durezza, vale a dire a più elevato punto di fusione, sono le resine fossili che si estraggono dai fusti di antiche foreste interrate. Citeremo fra le coppali, la “dammar” che cola spontaneamente in grande quantità da molte piante e che è molto adoperata nell’industria. Le coppali, insomma, sono le gomme prodotte dai fusti di piante speciali, conifere, ombrellifere, euforbie. Non bisogna quindi confondere le coppali che sono gomme naturali con la colofonia che è un prodotto di distillazione.
I primi cementi fabbricati da Walton contenevano troppe resine.
Oggi la percentuale delle resine è stata ridotta. Ecco la dose approssimativa di un tipo di cemento vecchio Walton: linossina 590 kg, colofonia 132 kg, coppale 68 chilogrammi.
Il sughero che serve all’industria del linoleum è il cosiddetto sughero maschio, vale a dire la corteccia esterna del quercus suber, una pianta che cresce nella Maremma Toscana, in Sardegna, in Sicilia e in certe zone del Lazio. Il sughero è ridotto, a mezzo di martelli che agiscono per urto, in parti della grossezza di una nocciola, poi viene aspirato nei silos per la macinazione che avviene attraverso mulini a palmenti. La separazione delle diverse farine si fa per passaggi successivi attraverso un buratto a scosse. Quando si vuol dare vivacità ai colori, si fa pure uso della farina di legno mista al sughero o in applicazione integrale. I colori che trovano impiego nella fabbricazione del linoleum e che ai fini del commercio possono tante volte far la fortuna di un tipo, di un disegno (tralasciamo di parlare del “valore decorativo” del linoleum come materiale di pavimentazione e di rivestimento) sono quasi tutti colori minerali naturali o artificiali da distinguere dai colori organici, detti anche derivati del catrame o colori d’anilina, che servono invece nell’industria della tintoria, dei tessuti, delle carte e alla preparazione di alcune lacche. Le ocre e i calcari trovano largo impiego perché, dovendo colorare una pasta e non un liquido, il colore deve possedere anche una certa massa per mescolarsi ad ogni particella dell’impasto. I colori bianchi sono usati soprattutto come ricoprenti: in certo senso essi fanno l’ufficio dell’intonaco sui muri che poi dovranno essere affrescati. Eliminati i bianchi a base di piombo e di zinco, era rimasto, fino a qualche anno, il litopone (miscela ottenuta in certe speciali condizioni per doppia precipitazione del solfato di bario e solfuro di zinco). Negli ultimi tempi invece è entrato nell’uso l’ossido di titanio, di produzione nazionale.
Preparati così i vari ingredienti: cemento di linoleum, farina di sughero, farina di legno, e colori, si passa nei reparti di mescolazione (vedi fig. 2).
Nella fabbrica di Narni esistono tre complessi meccanici per tre mescolazioni tipiche determinate dalla necessità di poter disporre di tre prodotti base che richiedono esigenze diverse di lavorazione.
Il processo di mescolazione, puramente fisico-meccanico, può essere continuo e intermittente. Quest’ultimo, benché più antico e meno veloce, ci dà maggiori garanzie sull’omogeneità della pasta.
Riguardo ai diagrammi di lavoro, e cioè ai passaggi dei diversi componenti la miscela nelle macchine successive (passaggi che si attuano per gravità), ricorderemo che gli sbriciolatori servono a disgregare la pasta, ridotta già in foglie sottili nei treni di laminazione, per degassificarla. I mescolatori cosiddetti “a trafila” (fig. 2) hanno la funzione più importante: agiscono con un meccanismo che ricorda molto da vicino, dal punto di vista cinematico, le macchine domestiche per tritare la carne. Cemento, farina di sughero, farina di legno, e colori, dopo una mescolazione quanto più è possibile integrale, sono sbriciolati e passati nella tramoggia che alimenta la calandra: questa provvede a spalmare la pasta sulla tela iuta.
La calandra (che in una fabbrica di linoleum fa un po’ la parte dell’elefante [vedine l’insieme e un particolare nelle figg. 5 e 6]) si compone di un supporto portante due paia di cilindri comandati da ingranaggi a chevron, per dare al contatto fra i denti elicoidali una progressione graduale ed evitare l’urto causato ad ogni passaggio da un dente all’altro nelle ruote a profilo diritto.
Sul largo nastro di linoleum si verrebbe a formare un solco per ogni urto, se pure appena percettibile. La distanza fra gli assi dei cilindri è regolabile e varia col variare dello spessore da dare al telo di linoleum. I cilindri sono cavi, fusi in conchiglia, del diametro di 900 mm, possono essere scaldati dal vapore o raffreddati dall’acqua. Lo stato termico dei cilindri ha una grande importanza nella lavorazione. Il cilindro intorno a cui si ‘avvolge la iuta è tenuto ad una temperatura di circa 80°, l’altro che lamina la pasta sul traliccio tessile arriva anche a 120°. La pasta premuta a 80 chilogrammi per cm2 è nello stesso tempo spalmata, ossia fissata contro e dentro la trama del tessuto di iuta. I cilindri lucidatori, invece, hanno un diametro più piccolo (600 mm) e sono raffreddati. Il cilindro ultimo, di rame, è più grande e serve per la dispersione del calore del nastro. Si sono fatte a Narni delle esperienze per sostituire la iuta con la ginestra: si può dire solo che i risultati sembrano promettentissimi.
Il filato è richiesto molto uniforme e confezionato sotto uniforme tensione dei fili dell’ordito, ché, se a ciò non si provvedesse, la trama soggetta alla calandratura formerebbe “borse” nelle zone dei fili meno tesi e “strappi” dove la tensione fosse più elevata.
Il telo dopo aver subito sul rovescio di iuta una verniciatura antiumida passa ai caratteristici essiccatoi verticali, mantenuti a circa 60°. Sono camere alte dove avviene la maturazione o stagionatura con notevole modificazione delle proprietà del prodotto. La durata varia a seconda dello spessore del telo, in media da 10 a 20 giorni. I teli sono appesi verticalmente all’armatura del soffitto sotto forma di nastro continuo svolto a festoni. Dopo passano alla finitura, subiscono una prima ceratura, sono ravvolti in rotoli di una trentina di metri di lunghezza e conservati nei magazzini, dove continua il processo di stagionatura.
Alla grande calandra si lavorano nel modo descritto i tipi uniti, (a un colore) e anche gli striati e i graniti. Per i tipi di linoleum che mi piace chiamare “di fantasia”: mosaici, lintarsi, stampati il processo di fabbricazione è lo stesso all’incirca fino alla fase di mescolazione. I lintarsi (fig. 3) si preparano in sfoglie di vario disegno e di colore cangiante che vanno composte sul nastro di iuta secondo il modello, e poi pressate. I mosaici, invece, si formano con un procedimento speciale: su delle lastre di zinco, tante quanti sono i colori base del disegno, si riporta il contorno di ogni colore e si scava il pieno della forma (fig. 4). Queste lastre si dispongono in fila sopra il banco e si regola la distanza in modo che l’intercapedine dia lo spessore voluto. Si fa scorrere al disotto la tela iuta sopra cui si lascia cadere lo strato di pasta. Gli “sciabloni” (cioè le lastre) si sollevano ritmicamente, la tela avanza di un “passo” (variabile a seconda del disegno), finché al passaggio dell’ultimo sciablone il disegno è tutto coperto (fig. 8). Viene quindi pressato a caldo sulla iuta prima a 60, poi a 340 atmosfere (fig. 7).
La lavorazione degli stampati si fa con un procedimento che ricorda molto da vicino quello della stampa a colori e quindi il disegno resta superficiale. Hanno comunque una durata soddisfacente in ambienti non soggetti a grande traffico. Per ciò che riguarda il linoleum adatto per rivestimento di muri e di mobili (copertina, lincrusta, vandolino, silusta), il quale anziché presentarsi col supporto di iuta ha il rovescio di cotone o di cartoncino, oppure è tagliato in semplici sfoglie come la silusta, o addirittura già pressato e incollato su lastre di compensato, o di metallo, esso non ha differenze sostanziali dall’altro usato per pavimentazione. Questi tipi che devono presentare una notevole flessibilità sono in genere di uno spessore che raramente supera il millimetro e la larghezza del telo varia dai 50 cm a 1 metro, fino a 1,5 m a differenza dei teli di linoleum che hanno una larghezza di 2 metri.”