Catenacci e serrature nei tempi passati (1923)

Da Le Vie d’Italia, Anno XXIX, N. 4, aprile 1923.
Di Nello Tarchiani.

■ Chiavi e serrature furono e sono preziosi alleati del turista. Sia che egli voglia garantirsi che nella camera d’albergo che occupa non si introducano indesiderabili ospiti, sia che intenda preservare la propria valigia da… svaligiamenti, è sempre una minuscola o grande, semplice o complessa serratura che gli viene in soccorso. E poiché così fu fin dalle epoche protostoriche, abbiamo pregato il nostro dott. Nello Tarchiani di voler accompagnare i lettori in una rapida corsa attraverso la storia davvero poco nota di questi umili ma preziosi meccanismi, riserbandoci con un successivo articolo di far conoscere quali gradi di perfezione e semplicità abbia raggiunto, anche in questo campo, la tecnica moderna.

“Fig. 1. – Urna cineraria a capanna. Dalla necropoli italica di Vetulonia. (R. Museo Archeologico di Firenze).”

■ Molti anni sono, Marcel Reymond, parlando della famosa collezione di ferri battuti regalata dal Le Secq des Tournelles al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, scriveva: «La felicità dei popoli è in ragione diretta della mancanza delle serrature». Da ciò deriverebbe esser noi del secolo XX i più infelici dei popoli, e i trogloditi di centomila anni fa, i più felici.
■ Penso però che gli abitatori delle caverne, quando il mio ed il tuo erano alla mercé del più forte o del più scaltro, avrebbero ben desiderato di poter chiudere i loro antri, ove custodivano i pochi strumenti di pietra ottenuti a prezzo di aspre e pazienti fatiche o il magro frutto di una caccia pericolosa, di poterli chiudere, dico, magari con un bravo lucchetto americano.
■ Né, qualche diecina di mill’anni più tardi, la capanna dovette essere più sicura. Poiché non è detto che certe complicate ed ingegnose serrature in uso presso i selvaggi d’oggi (i Mentavei, ad esempio) avessero corrispondenti presso i popoli primitivi; mentre modelli di capanna — oggetti votivi od urne cinerarie — ritrovate in Egitto, a Creta, in Italia ed altrove, offrono semplicissime chiusure, utili forse se assicurate dall’interno, ma valevoli solo ad impedir l’entrata agli animali, quando la capanna veniva abbandonata e chiusa dal di fuori.
■ Di questo può persuadere l’esempio offerto dall’urna a capanna, ritrovata, con altre simili, nella primitiva necropoli di Vetulonia (fig. 1). Qui abbiamo un semplicissimo catenaccio interno che si può aprire dall’esterno; ma da chiunque. In un modello trovato nel Lazio, anche la stanga è esterna; e così doveva essere in un modello di Festos (Creta). E se pure la sbarratura facilmente apribile dall’esterno è richiesta dalla peculiare funzione dei citati modelli, non è a credere che le capanne vere e proprie avessero chiusure molto più complesse.

“Fig. 2. – Serratura egizia a combinazione (ricostruz. del Denon).”

■ Catenacci sicuramente congegnati e serrature complicate offre l’Egitto fino dai tempi più antichi. Così la porta della tomba di Osiride raffigurata sulle pareti di un sepolcro della XII dinastia ad Han ha due catenacci combinati in senso inverso — né l’esempio è isolato — mentre chiavi, trovate anche in una tomba antichissima presso Tebe, ci dànno il prototipo della famosa «chiave laconica» coi lunghi denti ad angolo retto rispetto al manico.

“Fig. 3. – Porta di «Talamos» (da una idria del Museo di Berlino).”

■ Ma per l’Egitto abbiamo avuto la fortuna di veder adoperata dai fellah — almeno fino ad un secolo addietro — un tipo di serratura ingegnosissima, che il Denon riconobbe scolpita nel gran Tempio di Karnak, e che poco doveva differire da quelle di cui ci sono giunte soltanto le chiavi già ricordate.
■ È così, come le restituisce il Denon (figura 2), il più antico tipo di serratura a combinazione, e si fonda sul medesimo principio su cui si fondano le modernissime.

“Fig. 4. – La porta del talamo di Ulisse, dall’interno (ricostruz. del Diels).”

■ Cercherò di spiegarla quanto più chiaramente mi sarà possibile. La scatola (a) che porta la stanghetta (b) contiene nella parte superiore delle cavità prismatiche in cui scorrono dei cavicchi. Fori corrispondenti alla posizione ed alla grossezza di codesti cavicchi reca la stanghetta. Ne deriva che, infilando la stanghetta nella scatola o toppa, i cavicchi in un primo momento si sollevano per farla entrare; ma poi, trovati i fori corrispondenti, vi penetrano e la fissano.
■ Ma quando con una chiave (c) ci si possa far sotto o dentro alla stanghetta, in modo da adattare i denti della chiave ai fori corrispondenti ove son penetrati i cavicchi, è facile respingere questi cavicchi nelle loro cavità prismatiche superiori, liberando la stanghetta, che può esser tratta fuori dalla scatola o toppa.

“Fig. 5. – Serratura omerica (ricostruz. del catal. del British Museum).”

■ È chiaro che combinando all’infinito la disposizione e la grossezza dei cavicchi d’arresto, si possano costruire quante serrature si voglia, l’una diversa dall’altra: tutte, quindi, segrete. È chiaro anche, però, che serrature di questo genere si aprivano e chiudevano facilmente dall’interno. Per farle agire dall’esterno occorreva, o passare il braccio da una apertura praticata nella porta o nel muro — come si usò per tutta l’antichità — o far scorrere la stanghetta, liberata dai cavicchi di arresto con l’uso della chiave introdotta dal di fuori, per mezzo di una correggia o di una corda il cui capo passasse per un foro fatto nella porta stessa. Questo per aprire. Si intende come per chiudere occorresse una correggia od una corda da manovrare nel senso inverso, per spingere cioè la stanghetta nella scatola e farvi cadere i cavicchi d’arresto. Chiaro? Speriamo!

“Fig. 6. – Chiave romana ad àncora (British Museum).”

■ In confronto con la civiltà egiziana, la minoica — a malgrado ci abbia abituato alle più impensate meraviglie — non ci ha offerto, almeno finora, niente di simile in fatto di serrature. I palazzi cretesi di Cnossos e di Festos avevano porte che si chiudevano tanto con catenacci orizzontali che con paletti verticali, che puntavano entro la soglia.
■ Con un simile paletto si assicurava la famosa Porta dei leoni a Micene; mentre a Tirinto e a Troia le cavità praticate negli stipiti dànno una idea delle gigantesche stanghe orizzontali, che richiedevano lo sforzo di almeno tre uomini.
■ Ma la civiltà omerica, almeno quale ci appare nell’Iliade e nell’Odissea, in fatto di serrature è in arretrato sulla egiziana; né basta a persuaderci del contrario la chiave di «tipo laconico» — e quindi simile alle egiziane — trovata dallo Schliemann a Micene.

“Fig. 7. – Chiave laconica.”

■ Omero accenna alle porte del Tempio di Atena a Troia, che si chiudevano con una chiave; e dice che quelle del talamo di Era erano serrate da un catenaccio che neppure un dio avrebbe potuto aprire. Ma era opera di Efesto, e quindi da porsi tra i portenti miracolosi.
■ Invece ci dà una assai precisa descrizione della serratura che assicurava il talamo di Ulisse. Così, mentre vediamo nel primo dell’Odissea la fida Euriclea chiuder la porta della camera di Telemaco, tirando dal di fuori il catenaccio per mezzo di una correggia che pende all’esterno della porta stessa, nel canto ventunesimo seguiamo Penelope, che sale al talamo per prendervi l’arco per la terribile prova.
■ Giuntavi, scioglie il nodo segreto che assicurava la correggia alla maniglia, introduce in un’ apertura la chiave (che dia un passo del libro ottavo sappiamo di metallo col manico di avorio), e con la chiave spinge i due catenacci (probabilmente solidali), colpendo giusto al punto voluto; sì che la porta s’apre con grande stridore.

“Fig. 8. – Lucchetto romano a combinazione (dall’originale chiuso, e ricostruz. aperta del British Museum).”

■ Un’idria del Museo di Berlino (fig. 3), ove un’ancella apre la porta di un talamo, ci dà una chiara illustrazione del racconto omerico. Vediamo la correggia che pende dal battente di sinistra, e vediamo la chiave introdotta nell’apertura: chiave arcaica, a tre aste ad angolo retto, e rimasta in uso nel tempio come ci dimostrano numerosi monumenti figurati. Una del Santuario di Artemis a Lousoi si conserva nel Museo di Boston.

“Fig. 9. – Chiavi romane per serrature a combinazione (British Museum).”

■ Tra le varie ricostruzioni della serratura omerica veduta dall’interno, la più persuasiva è quella proposta dal Diels (fig. 4). Vi si nota la correggia che serve a tirare il chiavistello dal di fuori, e il dente solidale col chiavistello, su cui batte la estremità della chiave per far scorrere il chiavistello stesso. S’ intende come un maggior numero di denti possa agevolare l’operazione.
■ Tra le altre ricostruzioni, accennerò a quella proposta dalla Direzione del Museo Britannico (fig. 5), e suggerita da un tipo di chiave ad àncora in uso anche a Roma (figura 6).
■ Ma la Grecia arcaica conobbe altri modi di serrature. Quella di tipo omerico, ma senza corregge o corde, bastando a far scorrere in ogni senso il chiavistello una chiave lunga e sottile ripiegata ad angolo retto: una specie di grimaldello da far rotare a destra o a sinistra; quella a cavicchi d’arresto sul tipo delle egiziane; e un perfezionamento di questa, elaborato forse in Sparta, e che aveva divulgato l’uso della famosa «chiave laconica» attissima, con quei suoi denti, a ricercare i cavicchi dell’ingegno al di sotto del catenaccio o della stanghetta (fig. 7).
■ È questo piccolo ordigno quello che specialmente esaspera le donne di Atene, scatenate da Aristofane, nelle Tesmoforiazuse, contro a Euripide, che ha ammalizzito i mariti:

………. quello
però che prima si poteva, essendo
tesoriere ed econome, pigliarci
olio, farina e vino di nascosto,
non lo possiamo più: perché i mariti
portan con sé certe maledettissime
chiavettine a tre denti, col secreto.
di fabbrica spartana…..
(Trad. ROMAGNOLI)

■ L’Etruria, insieme col semplice chiavistello che abbiamo veduto nell’urna a capanna di Vetulonia, conobbe le serrature di tipo greco: e a Marzabotto si sono ritrovate tante chiavi a uncino, di rudimentale tipo laconico, che a semplice ripiegatura come quelle rammentate a grimaldello.
■ E così nel mondo Romano, ove però si giunse ad una perfezione maggiore.

“Fig. 10. – Porta di bronzo e serratura del Templum Divi Romuli del foro romano (esterno e sezioni).”

■ A Pompei — tra i molti tipi di serratura — ve ne dovevano essere anche a rotazione (come le nostre) a giudicare dalle chiavi rimaste; e da Pompei deriva probabilmente un lucchetto del Museo Britannico (figura 8) costruito con lo stesso principio delle serrature a combinazione egiziane (chiave simile alla figura 9). A Roma, nel Fôro, il Tempio del Divo Romolo, conserva ancora la serratura primitiva, che pur oggi, dopo sedici secoli, funziona perfettamente (fig. 10). (Questa serratura, mirabile per la sua ingegnosità quanto per la sua semplicità, si compone di una stanghetta orizzontale (a) e di un paletto verticale (b) ingranati ad una ruota dentata (c). La chiave (d) fa girare la ruota dentata, la quale solleva il paletto verticale e fa indietreggiare contemporaneamente la stanghetta orizzontale. La porta è aperta.
La chiusura è automatica: quando il paletto verticale passa, nel chiuder la porta, sul foro praticato nella soglia (e) vi penetra abbassandosi, e nello stesso tempo fa girare la ruota dentata che spinge la stanghetta orizzontale nella bocchetta. Per di più una borchia mobile (f), simile alle altre che decorano la fascia esterna della porta, nascondeva la serratura come nelle nostre casseforti).


“Fig. 11. – Saliscendi. Lavoro francese del Secolo XIV (da Viollet Le Duc).”

■ Nei bassi tempi anche l’arte del magnano decadde, per rifiorir poi — prima che altrove — in Francia nel secolo XII, specialmente per merito degli ordini monastici.
■ Allora l’operaio ricominciò a costruire serrature che alla ingegnosità del meccanismo univano la squisitezza della decorazione, a malgrado la tecnica rimanesse primitiva.
■ Anzi, l’essere ancora limitata l’opera all’uso abilissimo del martello sul pezzo di ferro riscaldato col carbone di legno — che rendeva il metallo di grande duttilità ma di fragilità non minore — costrinse l’artefice a fare della necessità dell’ordigno lo stile dell’ordigno stesso. Niente di superfluo, di inutile; ma tutto destinato ad uno scopo.
■ Così, per le grandi porte carraie si ebbero paletti verticali robusti, che scorrevano lungo uno scudo, a proteggere il legno; ed alzati, avevano un anello che s’appiccava ad un chiodo e impediva al paletto di strascicar sulla soglia o sul pavimento, quando si moveva la porta. Oppure si ebbero gigantesche «cremonesi» che afferravano la soglia col robusto capo del paletto, e che pur si facevano agire con un minimo sforzo per mezzo di una asta di manovra a portata di mano. Congegni perfetti di praticità e di bellezza.

“Fig. 12 – Serratura a mandata (toppa e collare, pianta, ingegno invertito). Lavoro francese della fine del Sec. XIII.”

■ Si veda, ad esempio, questo magnifico saliscendi (fig. 11) trovato alla porta di una casa trecentesca a Saint-Antonin. Mentre l’insieme offre una gustosissima totalità decorativa, ogni pezzo ha la sua precisa funzione: lo scudo (a) che si slarga a guisa di foglia per maggiore resistenza; la robusta spranghetta mobile (b) che gira su di una doppia rotella (c) e rimane obbligata entro la staffa (d); il nasello o monaco (e), come lo chiamavano i nostri antichi, col dente smussato perché la serratura si possa chiudere a colpo; la leva (f) che punta sotto la stanghetta mobile e la solleva alla minima pressione del dito pollice, mentre il suo supporto (g) offre una facile e comoda presa all’indice, per aprire la porta ormai libera dal serrame. E una leva esterna (h), che pure punta sotto la spranghetta, permette di togliere il saliscendi dall’esterno; ma non ha supporto ad anello, perché la porta può essere spinta semplicemente.
■ Anche in Italia fu molto in uso il saliscendi o saliscendo. Se scarsi ne sono gli esempi nei nostri Musei, numerosi ne sono gli accenni nelle novelle e nelle commedie, ove così viva, spesso, si riflette la vita.
■ Così un saliscendo a serratura aveva a casa sua Buccio Malpanno; ed è appunto al rumore della serratura aperta dal credulo marito, che frate Antonio fugge, lasciando le brache che a dir del Sacchetti sapevano «un poco di caprino», ma che il buon uomo venera per quelle di San Francesco.
■ E un saliscendi a corda — come usano ancora nella campagna toscana — è rammentato nella Spina del Salviati; ed uno a serratura nei Bernardi di Francesco d’Ambra.

“Fig. 13. – Catenaccio a chiave. Lavoro francese del Sec. XIII (da Viollet Le Duc).”

■ E mi passerò delle infinite fogge di paletti per usci, e di «targhette» — meglio si direbbe «nottole» o «nottolini» — per imposte e vetrate, delle fogge più varie, ma pur dove in ogni pezzo la decorazione non va al di là dello scopo. E così si dica delle cremonesi per finestre, in uso fino dal secolo XIV, e col XVIII sostituite, almeno in Francia, dalle spagnolette o torcetti, già diffuse in Italia e in Germania.
■ Ma dove o sola, o combinata con un catenaccio o con un chiavistello, compare la serratura, l’abilità e il gusto dell’artefice si rivelano al massimo grado. Col solo giuoco del martello, senza neppure la lima, un magnano del secolo XIII fissò alla porta di una casa di Angeos questa bellissima serratura a mandata (fig. 12); e la fissò robustamente coi chiodi, non conoscendo e non usando la vite, mentre la consuetudine di non incassare la toppa nel legno per non indebolire la resistenza della porta, lo costringeva necessariamente a dare ad ogni parte dell’opera bellezza di forme.
■ Ma tutto è pur pratico. Nella toppa ogni elemento decorativo ha funzione di forza, mentre le corna floreali del bove si aprono quasi a guidare la chiave. E poiché la toppa troppo vicina alla soglia renderebbe malagevole alla mano il girare la chiave, un collare, attraverso al quale passa la stanghetta prima di penetrare nella bocchetta, permette di discostar convenientemente la toppa dalla soglia a strombo.
■ Né l’ingegno interno offre, nella schietta semplicità, minor bellezza (la chiave, girando nelle fernette (a) abbassa la molla (b) e libera quindi la stanghetta (c) dal dente (d); contemporaneamente spinge la stanghetta,
battendo nei denti superiori di questa, mentre due molle la spingono alla loro volta allo sperone ed alla coda).
■ Ancora più complicato è un catenaccio a chiave della porta della sagrestia di Montreal (fig. 13). È del duegento ed offre all’esterno la robusta piastra della toppa rinforzata da costole, che s’inarcano a guidare la chiave; mentre il catenaccio, piatto, scorre in una guaina munita di maniglia.
■ Non di certo così magnifico era il catenaccio a chiave dell’orticello che Antonio Pucci, ben noto cantor popolare fiorentino, aveva presso alle fornaci di via Ghibellina: piccolo ma ricco «quasi d’ogni frutto», finché non ebber roso e guasto tutto un muletto e due asini messi dentro di notte da una brigata di amici burloni (SACCHETTI, Novella 175).

“Fig. 14. – Chiavistello a boncinello e serratura. Lavoro francese del Sec. XIII.”

■ Ma più usato era forse il chiavistello a boncinello e chiave di cui il Viollet le Duc offre un bellissimo esempio del duegento (figura 14). Qui il chiavistello è scantonato per esser girato entro gli occhi di sostegno e dar modo al boncinello (a) di entrare od uscire — con la maglietta — dalla serratura. Altrove è tondo. Qui ogni pezzo dà l’idea di forza, di solidità, di praticità, come il dente d’arresto (b) che impedisce al chiavistello di uscir tutto fuor dell’anello di sostegno, dopo lasciato quello che fa da bocchetta.
■ Era, questa a boncinello, una serratura assai robusta e sicura; ma non del tutto. Nella Cofanaria di Francesco d’Ambra, Panurghio, famiglio d’ Ippolito, macchinando di far penetrare il giovin padrone nella casa della amata chiuso in un cofano, lo rassicura di poter aprire la serratura,

…. facendo un buco piccolo
dinanzi al boncinello; onde spingendolo
con un ferruzzo, da poi che cavatasi
è la stanghetta, balza fuor di subito.


“Fig. 15. – Chiave di Casa Strozzi. Lavoro fiorentino del Sec. XVI (Coll. Rotschild, Parigi).

■ La Francia, che per i secoli XII, XIII e XIV tiene il primato nell’arte della serratura, sembra, col XV, cederlo all’Italia, ove però, specialmente col Cinquecento, la decorazione tende ad essere preponderante, oltre la funzione necessaria; mentre la Fiandra si modella sulla Francia e la Germania sembra preoccupata di grandiosità monumentale.
■ Nel Cinquecento, anzi, l’Italia, influisce notevolmente sulla decorazione delle serrature francesi, che complicano i loro ingegni a gareggiar quasi con le modernissime (vedi ad esempio il lucchetto a parole della fig. 16); mentre crea dei pezzi miracolosi come la famosa chiave di Casa Strozzi (fig. 15), già attribuita al Cellini, e che esposta dal barone Adolfo Rotschild al Trocadero, nel 1878, vi brillava come fosse uscita il giorno innanzi dalla fucina. E dall’ingegno di essa, dai denti sottili come quelli di un pettine, è facile immaginare di quale portentosa sottigliezza dovesse essere il meccanismo della serratura.

“Fig. 16. – Lucchetto a parole. Lavoro francese del Sec. XIV (Musée des artes décoratifs di Parigi).”

■ La bella tradizione continuò in Italia per tutto il secolo XVIII, mentre l’arte rifioriva in Francia e subiva, nella decorazione, le leggiadrìe dello stile. Ed è italiana una delle più monumentali serrature settecentesche del Museo delle Arti Decorative di Parigi. Magnifico pezzo, ove sembra quasi ritornare la schiettezza dei magnani medioevali, che subordinavano la decorazione alla funzione, anzi ne facevano una cosa sola.
■ Ed è questo il segreto per fare, anche dell’ordigno il più complesso, un’opera d’ arte.”