Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di settembre, 1915. Di Francesco Cosentini.
“■ Quegli oggetti che sono indirizzati ad un territorio nemico e sono destinati per la loro stessa natura esclusivamente ad un uso guerresco, o che pur utilizzabili indifferentemente per la pace o per la guerra, possono essere dal nemico adoperati per la guerra, e che in entrambi i casi sono destinati ad uso guerresco, sono denominati contrabbando di guerra, e possono essere presi e confiscati da un belligerante. ■ Perché il contrabbando di guerra possa essere dichiarato, occorrono i seguenti requisiti: 1. il trasporto per via marittima di una merce suscettibile di uso bellico; 2. la destinazione al nemico; 3. la flagranza del fatto. ■ Si è fatta distinzione fra contrabbando assoluto e contrabbando relativo o condizionale: nella prima categoria si son comprese quelle merci, che servono esclusivamente alla guerra; nella seconda categoria quelle che possono servire del pari in guerra come in pace. ■ Tale distinzione, dovuta specialmente ai giuristi anglo-americani, ha dato luogo a controversie, poiché con essa si rende la nozione del contrabbando oltremodo incerta e variabile, e sì rendono possibili molti arbitrii da parte dei belligeranti verso i neutrali. ■ Deve ritenersi piuttosto preferibile il sistema seguito dalla Francia, dall’Italia e da altre nazioni, secondo il quale, all’aprirsi delle ostilità il belligerante dichiara quali oggetti in genere egli dichiara contrabbando di guerra, escludendo così il contrabbando relativo. ■ Tuttavia la distinzione tra contrabbando assoluto e relativo o condizionale fu mantenuta nella Dichiarazione di Londra del 26 febbraio 1909, che negli articoli 22-44 regola tutte le questioni riguardanti il contrabbando di guerra. ■ Secondo la Dichiarazione di Londra costituiscono contrabbando assoluto: 1. armi di ogni natura e pezzi staccati e caratterizzati; 2. proiettili, cartuccie e pezzi staccati e caratterizzati; 3. polveri ed esplosivi destinati alla guerra; 4. affusti, cassoni, avantreni, furgoni, forgie da campagna, e pezzi staccati e caratterizzati; 5. divise e forniture militari; 6. bardature militari; 7. animali utilizzabili per la guerra; 8. materiale da campo e pezzi staccati e caratterizzati; 9. piastre di corazzatura; 10. navi e imbarcazioni da guerra, e pezzi staccati e caratterizzati; 11. strumenti ed apparecchi per la fabbrica di munizioni da guerra e per riparazione di armi e di materiale militare, terrestre o navale. ■ A tutti questi oggetti possono aggiungersi anche quegli altri che il belligerante, all’aprirsi delle ostilità, notifica alle potenze per mezzo di una dichiarazione. ■ Costituiscono contrabbando relativo o condizionale: 1. viveri; 2. foraggi e grani per gli animali; 3. vesti e tessuti, calzature per uso militare; 4. oro e argento in moneta o in lingotti e carta monetata; 5. veicoli di ogni natura, utilizzabili per la guerra e pezzi staccati; 6. bastimenti e imbarcazioni di ogni genere e pezzi staccati; 7. materiale ferroviario, telegrafico, radiotelegrafico, telefonico; 8. apparecchi per l’aviazione; 9. combustibili e materie lubrificanti; 10. polvere ed esplosivi, non destinati specialmente alla guerra; 11. fili di ferro a punte e strumenti per fissarli e tagliarli; 12. ferri di cavallo e arnesi di mascalcia; 13. oggetti di equipaggiamento e di selleria; 14. binoccoli, telescopi, cronometri e strumenti nautici. ■ Anche questo elenco può essere esteso con una dichiarazione del belligerante notificata alle potenze. ■ Gli oggetti e i materiali non suscettibili di uso guerresco non possono essere dichiarati contrabbando di guerra e la Dichiarazione di Londra ne fa un lungo elenco. ■ Giova notare che l’Inghilterra, la quale non ha considerato sempre nello stesso modo il contrabbando di guerra, ha sempre ritenuto in genere come contrabbando anche gli oggetti che, pure servendo ad un uso pacifico, possono essere di utilità pei belligeranti ove sieno destinati a forze militari nemiche (viveri, carbon fossile, materiali per ferrovie, telegrafia ecc.), adottando misure più restrittive. Con lo stesso intendimento furono redatte le istruzioni degli Stati Uniti d’America del 20 giugno 1898, N. 19, allo scoppiare della guerra colla Spagna e il decreto giapponese dell’11 febbraio 1904 allo inizio della guerra colla Russia. ■ L’Inghilterra, fedele al suo punto di vista, essendosi il Parlamento rifiutato di ratificare la Convenzione di Londra, al principio della odierna guerra, ha emanato il proclama del 4 agosto 1914, in cui si determinano gli articoli di contrabbando. Una sola modificazione però esso apporta all’elenco stabilito dalla Conferenza di Londra. ■ La modificazione è questa; tutte le aeronavi e gli apparecchi aeronautici, anche in pezzi staccati, sono compresi fra gli articoli di contrabbando assoluto e non già tra quelli di contrabbando relativo, come erano stati considerati dalla Conferenza di Londra: modificazione del tutto giustificata, se si pensi alla grande importanza acquistata attualmente dall’aeronautica nelle operazioni militari. ■ Secondo la Dichiarazione di Londra (art. 30) gli articoli di contrabbando assoluto sono sequestrabili, se si prova la loro destinazione al territorio del nemico o ad un territorio occupato dal nemico, poco monta che il trasporto di tali oggetti si faccia direttamente o esiga un trasbordo o un trasporto per via di terra. Tale prova è raggiunta nei casi seguenti (art. 31): 1. quando si documenti che le merci debbano essere sbarcate in un porto del nemico o debbano essere consegnate alle forze armate nemiche; 2. quando il naviglio debba approdare solo a porti nemici, o quando debba toccare un porto nemico o raggiungere le forze armate dello stesso prima di raggiungere il porto neutrale a cui le merci sono destinate. ■ Gli articoli di contrabbando relativo (art. 33) sono sequestrabili, se è provato che essi sono destinati alle forze armate o alle amministrazioni del nemico, a meno che non si provi che di fatto tali articoli non possono essere utilizzati per la guerra, fatta eccezione dell’oro e argento monetato o no. ■ Si presume la destinazione al nemico (art. 84), se la merce è indirizzata alle autorità nemiche o ad un commerciante stabilito in paese nemico o fornente al nemico merci di tale natura. La stessa presunzione si ha quando la merce è destinata ad una fortezza nemica o ad una base militare delle forze armate; si applica però alla nave mercantile stessa che fa rotta verso uno di quei porti e di cui si intende stabilire il carattere di contrabbando. ■ Gli articoli di contrabbando condizionale sono sequestrabili solo sulla nave, che fa rotta verso il territorio del nemico o occupato dal nemico. Le carte di bordo fanno prova completa dell’itinerario della nave, del luogo di sbarco delle mercanzie, a meno che non si sia riscontrato che la nave abbia deviato dalla rotta, che doveva seguire secondo le sue carte di bordo, senza poter giustificare tale deviazione (art. 35). ■ Tuttavia anche gli oggetti di contrabbando relativo possono essere sequestrati su nave diretta a un porto neutrale, se il territorio nemico non ha frontiera marittima e risulta che tali oggetti sono destinati alle forze armate o alla amministrazioni dello Stato nemico. ■ La nave trasportante articoli di contrabbando assoluto o condizionale può essere sequestrata in alto mare o nelle acque dei belligeranti, durante tutto il corso del suo viaggio, anche se abbia l’intenzione di raggiungere un porto di scalo prima di raggiungere la destinazione nemica (art. 37). ■ È necessario altresì per la repressione del contrabbando la flagranza del fatto; è necessario cioè che le merci sieno trovate a bordo della nave che le trasporta verso il paese nemico, nel momento in cui questa, fuori di acque neutrali, è sottoposta a visita. Questa disposizione consacrata nell’art. 38 delle Dichiarazioni deroga alla giurisprudenza anglo-americana, che aveva adottata una soluzione ben diversa. ■ La sanzione contro gli atti di contrabbando di guerra si esplica col diritto di conquista. ■ Tale confisca si estende oltre che alle merci di contrabbando, anche alla nave, se il contrabbando costituisce, sia pel suo valore, sia pel suo peso, sia pel suo volume, sia pel suo nolo più della metà del carico (art. 40). ■ Se poi una nave è incontrata in alto mare nell’ignoranza delle ostilità o della dichiarazione di contrabbando applicabile al suo carico gli articoli di contrabbando possono essere confiscati solo mediante indennità. La nave e il sovrappiù del carico sono esenti dalla confisca e da ogni spesa. La stessa disposizione si applica se il capitano presa conoscenza della apertura delle ostilità o della dichiarazione di contrabbando non ha potuto ancora scaricare le merci di contrabbando. ■ Tale disposizione non si applica se la nave ha lasciato un porto neutro dopo la notificazione dell’apertura delle ostilità o ha lasciato un porto nemico dopo l’apertura delle ostilità (art. 43). ■ La nave fermata per causa di contrabbando e non suscettibile di confisca per la proporzione del contrabbando può essere autorizzata, secondo le circostanze, a proseguire la rotta, se il capitano è pronto a consegnare Il contrabbando alla nave belligerante. La consegna del contrabbando è menzionata nei libri di bordo ed il catturante ha facoltà di distruggere il contrabbando stesso (art. 44). ■ Il proclama inglese del 4 agosto 1914, pur informandosi in genere alle norme della Dichiarazione di Londra contiene disposizioni più rigorose: esso ammette la così detta teoria della continuità del viaggio, la quale riguarda l’ipotesi di una merce di contrabbando bellico caricata su di una nave diretta al un porto neutrale per farla pervenire di là al nemico. Non basta quindi che la destinazione della merce sia un porto neutrale, poiché anche questo può dar accesso al territorio del nemico e la merce può così esser destinata ad uso guerresco: perciò il proclama inglese del 5 agosto 1914 dispone che v’è facoltà di cattura anche durante il viaggio per mare ad un porto neutrale, se la merce risulta destinata al nemico. Di più, la confisca si estende anche alla nave, se il proprietario di essa sia nello stesso tempo proprietario della merce di contrabbando oppure sia consapevole del carattere di contrabbando della merce. ■ Tale disposizione, la quale è accolta anche dal nostro codice mercantile (art. 215), è avversata da molti giuristi, i quali sostengono che il diritto di repressione non si fonda su alcuna norma di diritto penale, e il belligerante salvaguarda a sufficienza i suoi interessi confiscando le merci di contrabbando. ■ In tutti gli altri casi la giurisprudenza inglese, in ciò concorde colla Dichiarazione di Londra, autorizza il proprietario della nave alla libera disposizione di essa, colla sola perdita del tempo, del nolo e delle spese. Per quanto riguarda le merci di contrabbando, se esse sono di contrabbando assoluto, sono confiscate; se sono di contrabbando condizionale, i beni sono o confiscati o acquistati col diritto di preenzione (Vedi Naval Prize Act, 1864, s. 38) dal Lord dell’Ammiragliato per una somma ragionevole, di solito equivalente al loro valore col 10% pel profitto. ■ Assimilati al contrabbando di guerra, per analogia, sono gli atti di assistenza ostile. Tra questi atti la Dichiarazione di Londra (art. 45) comprende: 1°. il fatto di una nave che viaggia per compiere il trasporto di passeggieri individualmente incorporati nelle forze armate del nemico o per trasmettere notizie nell’interesse del nemico; 2°, il fatto della nave che trasporta, con piena consapevolezza del proprietario, del capitano o del noleggiatore della nave, un distaccamento militare del nemico od una o più persone, che durante il viaggio prestano assistenza diretta alle operazioni del nemico. La confisca però non ha luogo, se il comandante della nave ignora lo stato di ostilità, o pur sapendolo non ha potuto ancora sbarcare le persone trasportate. ■ La Dichiarazione poi aggiunge (art. 46), che una nave neutrale è confiscata ed è generalmente passibile del trattamento che subirebbe una nave di commercio nemica: 1°, quando prende parte diretta alle ostilità; 2°. quando si trova sotto gli ordini o sotto il controllo di un agente posto a bordo dal governo nemico; 3°. quando è noleggiata per la totalità dal governo nemico; 4°. quando è attualmente ed esclusivamente noleggiata sia pel trasporto delle truppe nemiche sia per la trasmissione di notizie nell’interesse del nemico. ■ La Dichiarazione altresì stabilisce (art. 47) che ogni individuo incorporato nelle forze militari del nemico e trovato a bordo di una nave mercantile neutrale, può esser fatto prigioniero di guerra, quand’anche non sussistano le condizioni per poter procedere al sequestro della nave. ■ Tale facoltà di cattura si vorrebbe estendere anche agli agenti civili del nemico incaricati di missione attinente alle operazioni belliche o di agenti diplomatici ed in tal senso è proposto nel § 7 del progetto votato dall’Istituto di diritto internazionale nel 1896; ma molti giuristi sono contrari a tale proposta, poiché in tal caso non si apporta al nemico alcun diretto aiuto, e non sì viene affatto meno ai doveri della neutralità. ■ L’Italia ha recentemente con decreto luogotenenziale del 3 giugno u. s. dichiarato di adottare e mettere in vigore durante l’attuale stato di guerra le disposizioni delle dichiarazione di Londra del 1909, ad eccezione degli art. 22, 24, 28, i quali enumerano gli articoli di contrabbando assoluto e relativo e quelli esclusi dal contrabbando. ■ Lo stesso decreto dispone (art. 2) che una nave neutrale, che malgrado la sua destinazione neutrale, dichiarata dalle carte di bordo, si diriga a un porto nemico sarà soggetta a cattura e confisca e internata prima del viaggio di ritorno. La destinazione indicata nell’art. 33 della Dichiarazione di Londra sarà presunta come reale (oltre le presunzioni previste dall’art. 84) se le merci sono consegnate a un agente di Stato nemico (art. 8). Nonostante le disposizioni dell’art. 85 della Dichiarazione di Londra il contrabbando condizionale sarà soggetto a cattura a bordo di una nave diretta ad un porto neutrale, se i recapiti di bordo non mostrino chi sia il consegnatario delle merci, ovvero se essi mostrano che questi risiede in territorio appartenente al nemico o da lui occupato (art. 4). In tali casi resta a carico del proprietario delle merci di provare che la destinazione di queste era innocente (art. 5). ■ Infine il Decreto dispone (art. 6) che quando risulti che un governo nemico rifornisca le sue forze armate per mezzo o attraverso un paese neutrale, si potrà disporre che non sia applicato l’art. 95 della dichiarazione di Londra rispetto alle navi dirette ad un porto di tale paese. Finché tale disposizione avrà vigore, una nave che trasporti contrabbando di guerra condizionale ad un porto di quel paese sarà suscettibile di cattura. ■ Con altro Decreto di pari data il governo italiano fa l’elenco di tutti gli articoli di contrabbando assoluto e relativo, comprendendo tra gli articoli di contrabbando assoluto non solo articoli che dalla Dichiarazione di Londra erano stati compresi come articoli di contrabbando condizionale, come gli areostati e apparecchi di aviazione e gli accessori, i combustibili e le materie lubrificanti, ma anche molti altri articoli non indicati affatto o indicati solo genericamente alla Conferenza di Londra. Così le materie prime degli esplosivi, i prodotti resinosi, telemetri, leghe di ferro, e molti altri metalli e minerali utilizzabili a scopo di guerra, apparecchi acustici di segnalazione sottomarina, automobili, motocarri, pneumatici, velocipedi, gomma, piriti di ferro, oli minerali, lana greggia, pettinata e cardata, olio di ricino, cera di paraffina, pelli di ogni genere, ammoniaca: insomma tutto ciò che direttamente o indirettamente serve a scopo militare è considerato come contrabbando assoluto. ■ In tal modo cogli odierni decreti italiani si offrono i mezzi per una più energica e severa repressione del contrabbando di guerra, la cui nozione acquista un’estensione, che mai aveva avuta sinora tra le altre nazioni, estensione dovuta semplicemente al fatto che l’arte guerresca, pel suo perfezionarsi, fa ricorso a sempre nuovi elementi per aumentare la capacità di offesa e di difesa.”
Da Emporium, Vol. LXXII, N. 430, ottobre, 1930. Di Diego Angeli.
“Nestore Leoni: pagina destra di frontispizio dei «Commentari della Guerra e della Vittoria», Vol. I.”
“Nel 1890 viveva a Firenze un giovane abruzzese che le necessità della vita avevano costretto ad accettare un impiego nell’Istituto Geografico Militare. Lo stipendio come si può immaginare non era cospicuo e il giovinotto era ammogliato. Per necessità di economia domestica aveva affittato un appartamentino fuori di una delle porte cittadine e tutto il giorno lo passava in città non potendo spendere — co’ rudimentali mezzi di trasporto di quelli anni — per tornare a casa all’ora di colazione e non avendo il tempo per farlo a piedi. Così nel periodo di riposo che gli consentiva l’orario spezzato del suo ufficio, visitava la città e passava tutte le sue ore libere nei musei, nelle gallerie e nelle biblioteche fiorentine. Di natura entusiasta, con quel profondo amore per l’arte che sembra essere uno dei caratteri più precisi della natura abruzzese, il giovane fu a poco a poco preso da una grande passione: vedere soltanto non gli bastava più, bisognava approfondire con altri mezzi i misteri e i segreti di quell’arte che a poco a poco andava rivelandosi al suo spirito giovanile. Una cosa sopratutto, lo teneva inchiodato per delle ore in una muta ammirazione: la bellezza non superata dei codici miniati, che dai vecchi plutei della Laurenziana «ridevano» veramente agli occhi dei visitatori. E come egli, per lo stesso ufficio del suo impiego, era abile disegnatore, fu preso come da un irresistibile desiderio di ricopiare taluna di quelle lettere, taluno di quei fregi, taluna di quelle scenette che animavano di una vita immortale le pagine membranacee dei vecchi volumi. Fu così che incoraggiato dal barone Podestà — allora conservatore della Biblioteca Magliabecchiana — e dal Prefetto della Mediceo-Laurenziana, abate Anziani, che a una erudizione profonda univa una bizzarria di carattere che i vecchi fiorentini non hanno del tutto dimenticato, fu così che un nuovo artista nacque all’Italia. Un nuovo grande artista, aggiungerò, e forse l’ultimo a illustrare quell’arte dell’«alluminare» che con l’Attavante, con Oderisi da Gubbio, con tutta una serie di magnifici artisti non obliati, raggiunse la perfezione, fino al giorno in cui nuove invenzioni e nuove industrie non ne segnarono se non la morte, almeno l’ assopimento. Questo artista che con tanto amore e diciamo pure con tanto sacrificio, era riuscito a penetrare i segreti dei suoi predecessori illustri si chiamava Nestore Leoni ed era nato ad Aquila, negli Abruzzi, nel febbraio del 1862. La prima opera alla quale egli dedicò la sua attività nuova, fu la Canzone che Cino da Pistoia scrisse a Dante per la morte di Beatrice. Correva in quelli anni il supposto centenario di questo avvenimento e il prof. De Gubernatis — allora insegnante di Sanscrito nell’Istituto Superiore di Firenze — con più passione di poeta che con rigidezza di critico, aveva organizzato quelle feste fiorentine che furono per lui causa di tante ingiuste amarezze. L’illustrazione del Canto del Pistoiese era dunque, come si direbbe, d’attualità. Non solo, ma a pena il Leoni ebbe espressa l’idea di questa opera né facile né di piccola mole, il sindaco di Firenze, marchese Piero Torrigiani, plaudendo alla magnifica iniziativa volle costituire un Comitato fra le più elette gentildonne fiorentine, affinché il Canto di Cino, trascritto e alluminato, fosse offerto alla Maestà della Regina Margherita. La quale fu così lieta del dono, che non esitò a scrivere all’autore queste nobili parole che sono per lui il suo titolo di nobiltà artistica:
«Guardando ed ammirando l’opera d’arte squisita mi ricordo di Dante dipingente sopra una tavola un angiolo con le sembianze di Beatrice. Sembra che il divino poeta abbia ispirato a Leoni il sentimento che egli stesso doveva provare in quel giorno, nel quale ritraeva la sua donna idealizzata in forme angeliche».
“Nestore Leoni. (Fot. Rossi).”
Del resto i critici di allora — e ve ne erano taluni che per i loro studi profondi potevano dirsi maestri nella materia — non furono scarsi di lodi. Guido Biagi, colui che qualche anno dopo sarebbe chiamato a sopraintendere la magnifica biblioteca fiorentina, scriveva nell’Illustrazione Italiana: «Nessuno come il Leoni ha saputo rinnovare le vecchie eleganze decorative, di che ridono le carte dei codici miniati del Boccardino e da Monte del Fora. S. M. la Regina a cui fu presentato recentemente l’Albo che conteneva la Canzone di Cino da Pistoia in morte di Beatrice ebbe a meravigliare dello squisito lavoro e il padre Piscicelli, che è un’autorità in questo campo, riconobbe nel Leoni un artista degno di stargli al fianco». E Giulio Piccini nella Nazione esclamava : «È opera meritevole di essere accolta fra i tesori d’arte onde ama a circondarsi S. M. la Regina: lavoro che esprime col linguaggio della poesia, con la vivezza e la delicatezza dei colori, con il pensiero gentile che tutto lo informa, uno squisito sentimento». Mentre il critico del Fieramosca osservava argutamente: «Io penso che Cino da Pistoia certo gioirebbe se gli fosse dato di vedere di quanta sapienza e ricchezza ridon le carte, in cui il Leoni, novello Oderisi da Gubbio, trascrisse la Canzone, pennelleggiando intorno alle strofe di questa ornamenti condotti con estrema finezza da far veramente invidia non solo a Franco Bolognese, ma allo stesso Oderisi,
….Onor di quell’arte che alluminare è chiamata in Parisi.
“Nestore Leoni: miniatura dei «Trionfi» del Petrarca.”
E gioirebbe ancor di più, vedendo a qual nuovo significato di civile poesia è assunta la canzone sua, messaggera di gentilezza e di affetto per una eletta schiera di dame alla prima Gentildonna d’Italia». Né il rumore di questo nuovo prodigio d’arte rimase chiuso in Italia, ché oltrepassò la frontiera, tanto che l’Indépendance Belge (6 giugno 1890) ebbe a dichiarare che Nestore Leoni «est parvenu à retrouver les anciens procédés pour l’enluminure des livres».
“Nestore Leoni: miniatura dei «Trionfi» del Petrarca.”
Fu dunque un trionfo per il giovane abruzzese, che non si addormentò sugli allori. Quattro anni dopo — nel 1895 — ricorrendo il venticinquesimo anniversario dell’Indipendenza Italiana, egli raccoglie in un codice i discorsi di Vittorio Emanuele II, codice che viene presentato a S. M. Umberto da Marco Tabarrini «in nome della Nazione». Lo stesso De Gubernatis dando notizia dell’avvenimento nella Vita Italiana (settembre 1895) annotava: «Chi conosce le splendide pergamene della Biblioteca della Laurenziana di Firenze, ha di che far confronto con il superbo frontespizio: ed anche essendoci noto per fama il Leoni restiamo vivamente sorpresi nel constatare che in questo suo nuovo lavoro la tecnica antica e l’arte gloriosa dei nostri alluminatori sono, se non superate, certo eguagliate. I suoi ultimi lavori segnano senza esagerazione la resurrezione dell’arte della miniatura, già che il Leoni ha saputo non solo con arte geniale riprodurre le più fini ornamentazioni del Rinascimento, inquadrare ritratti e medaglieri superbi tra cornici di squisita fattura, ma ha anche con diligente pazienza ed amore profondo ricercato ed applicato gli antichi processi tecnici che erano finora un mistero per gli amatori di bei libri miniati». E sempre sullo stesso soggetto il Fanfulla scriveva: «Nestore Leoni s’è dimostrato, per replicate prove, degno continuatore di questi grandi Maestri — il Beato Angelico e Bartolomeo della Gatta — ai cui saggi preziosi e mirabili s’ispira pure sapendo imprimere nell’opera propria una nota personale, onde le deriva un carattere spiccato di originalità e di modernità». Nè questo trionfo si ferma qui, perché proprio in quel tempo — si era nell’agosto del 1896 — la Regina Margherita invitò il Leoni a recarsi a Monza dove Ella era in villeggiatura, e quivi ricevutolo, dopo molti elogi e molte parole di ammirazione lo invitò ad eseguire un libricino di preghiere dove potessero trovarsi tutte le orazioni — debitamente tradotte in lingua italiana — relative alla funzione religiosa delle nozze. Era intenzione della Illustre Signora di donarlo alla Principessa Elena di Montenegro in occasione delle sue nozze col Principe Ereditario. Il libricino fu eseguito in brevissimo tempo con molta soddisfazione della Regina e grandissima ammirazione di tutta la corte. Ma finora la tenace attività del Leoni si era esercitata in lavori di mole relativamente ristretta. Fu nel 1901 che egli compì la prima di quelle sue opere che vorrei dire cicliche e di un interesse internazionale. E fu con la trascrizione e l’illustrazione di quella Magna Charta americana che è per i cittadini della Repubblica stellata l’origine stessa della loro vita nazionale e il palladio delle loro libertà civili. È interessante seguire a passo a passo l’opera del Leoni, che segna un continuo progresso. Vi è, dalla Canzone di Cino a questa Carta costituzionale degli Stati Uniti, una grande diversità di sentimento e una continua perfezione di tecnica. In seguito, queste doti si accentueranno fino a raggiungere le perfette armonie dei Sonetti Shakespeariani e le visioni celesti della Vita Nuova, fino ad ottenere nel Libro d’oro della grande guerra una così compiuta corrispondenza simbolica fra il testo e l’illustrazione, da formare un insieme da cui non si potrebbe toglier nulla e nulla aggiungere di nuovo. La comparsa della Magna Charta americana fu salutata veramente come la rivelazione di un’arte nuova. Quell’antichissima espressione artistica, quale è la miniatura, acquistava veramente un senso di novità sotto l’abile e geniale pennello del Leoni. Per lui Fiorenza e Harvard si davano la mano e Giotto e Washington si trovavano sopra una stessa linea resi vivi da una stessa arte. I fogli miniati di questo prezioso documento, esposti in una sala dell’Associazione della Stampa, suscitarono il plauso universale. Presentati da Luigi Luzzatti, commentati da Adolfo Venturi, furono un avvenimento d’arte e di politica. «Auguro che l’opera d’arte di Leoni abbia nell’America, della quale così luminosamente illustra la storia, fortuna pari al suo grande valore artistico», aveva telegrafato la Regina Margherita. Luigi Luzzatti, nelle parole di presentazione si rivolgeva al pubblico dicendo: «Qui noi assistiamo questa sera al risorgimento di una nobile arte nostra che pareva perduta». E dopo di lui Adolfo Venturi, in una superba conferenza che è una profonda lezione di storia artistica, non esitava a concludere dopo aver analizzato con la sua parola entusiasta l’arte fiorita del Maestro abruzzese: «Mi rallegro che Nestore Leoni richiami a Roma un’arte che pareva defunta: alle stridenti cromolitografie uscite dalle officine torni a sostituirsi l’arte individuale, libera, cosciente! Per Nestore Leoni e per l’arte sua e per l’arte nostra ne traggo lieti auguri. Onore al Maestro!» Nè allorquando l’opera del Leoni passò in America, il clamore suscitato fu minore. Primissimo a congratularsi col Maestro fu il Presidente Roosevelt, che avendolo ricevuto in udienza privata volle scrivere sul suo album queste parole significative: «Sono molto grato di avermi offerta l’opportunità di esaminare ed ammirare quest’opera magnifica che richiama alla mia mente i bellissimi messali del Medioevo». Durante un’ora, nel suo gabinetto della Casa Bianca il Presidente ammirò ad una ad una le tredici tavole che componevano la preziosa raccolta, e nel momento in cui l’artista abruzzese si congedò da lui volle offrirgli il suo ritratto con una dedica ammirativa, omaggio del grande Presidente d’ America, al grande «alluminatore» d’Italia.
“Nestore Leoni: miniatura dei «Trionfi» del Petrarca.”
Il successo ottenuto dal Leoni con l’Esposizione che fece della sua Magna Charta al Museo Metropolitan di Nuova York prima e più tardi a quello delle Belle Arti di Boston, fu senza precedenti. «L’arte del Leoni — scriveva Charles Elliot Norton, l’illustre professore di Storia dell’Arte in quella Università di Harward che è la più antica e la più famosa delle Università americane — non teme confronti, per la sua perfezione tecnica e per la sua squisita composizione, con quella dei miniatori del Rinascimento Italiano; essa ci rivela una ricca fantasia decorativa così nella varietà dei disegni che dei motivi, una vivida immaginazione nello svolgimento del tema e una suprema eccellenza nella delicata esecuzione degli ornamenti e nelle figure miniate. Una più maestrevole opera non sarà facile vedersi nella nostra epoca». E qualche giorno dopo in una lettera diretta al Leoni aggiungeva: «Coi più sinceri auguri che la sua mirabile opera trovi chi sappia realmente apprezzarla per il suo vero valore artistico». Le parole così sicuramente elogiative del Norton ebbero d’altronde un’eco larghissima in tutti gli Stati Uniti. «Non esiste in nessun paese del mondo — scriveva il Boston Herald — chi possa appena emulare il Leoni in questa bellissima tra le arti, non solo per la perfetta tecnica dell’esecuzione e per il magnifico senso delle proporzioni, ma sopra tutto per la rimarchevole varietà degli stili e della forma e per la bellezza e ricchezza dei colori e degli ori». «Quel profondo conoscitore dell’arte del minio che è Mr. Tearle, l’artista inglese che ha da tempo fissato la sua dimora fra noi — scriveva il Boston Evening Transcript — autentica e assoluta competenza in materia, giudica l’opera del Leoni il più straordinario lavoro del genere che egli abbia mai veduto». E quasi a concludere il New York Herald affermava: «Con questa opera che è senza dubbio la più importante di quelle finora eseguite per mole e grandiosità di concetto, il giovane artista italiano ha indubbiamente riconfermata quella reputazione mondiale che i suoi precedenti trionfi gli hanno oramai assicurata». Dal giorno in cui il Leoni espose così trionfalmente l’opera sua nella capitale morale degli Stati Uniti, sono trascorsi ventisette anni e l’ammirazione per quel grande lavoro non si è affievolita. Altre generazioni sono cresciute, altri ideali d’arte — e così diversi! — sono comparsi tra gli uomini e la Magna Charta americana del 1901 continua ad avere devoti ferventi. Così fin dal 1916 va ricordata l’iniziativa dell’editore Sproul di Nuova York il quale fece eseguire una riproduzione a colori, di rara bellezza tecnica, e — cosa ancora più notevole — il Segretario per l’Istruzione Pubblica l’ha raccomandata a tutte le scuole dell’Unione, come una di quelle «cose di bellezza» che sono per i popoli anglosassoni «a joy for ever», una eterna gioia, e tale da educare al bello l’anima e la mente delle nuove generazioni. Dopo quasi un ventennio la maggior rassegna d’arte degli Stati Uniti International Studio non esitò a dichiarare a traverso un articolo di Helen Wight: «È impossibile descrivere l’ arte meravigliosa e l’inusitata tecnica di questo lavoro. Le riquadrature piene di delicate spirali, di aurei reticolati, di viticci attanagliati, di steli ornati di fiori; i colori che nelle loro sfumature azzurre e rosee fanno ripensare a quelli veduti negli antichi messali, e la varietà dei disegni, cose tutte che rivaleggiano con la tecnica perfetta del Rinascimento italiano».
“Nestore Leoni: pagina miniata per la «Costituzione Argentina».
II
L’arte della miniatura è un’arte di amore. Purtroppo, oggi, quando ognuno può improvvisarsi pittore senza conoscere l’arte del disegno o la tecnica del colore, questa dote precipua dell’artista è quasi una condanna. Per i giovani improvvisatori — privi di studi e spesso anche d’ingegno — una miniatura non è arte, come non è arte un gioiello di Benvenuto Cellini, che seppe creare tutto un mondo nel breve spazio di un pettine o di un anello. Ma l’arte dell’alluminare esclude l’improvvisazione facilona e costringe l’artefice a tornar sull’opera sua durante lunghi mesi ed anni, creando giorno per giorno una cosa nuova sopra una trama già stabilita. L’opera di un alluminatore non può dunque essere troppo numerosa ed è già portentoso quello che il Leoni ha potuto compiere in un numero d’anni relativamente ristretto e con intervalli relativamente brevi. Così, per esempio, dopo il grande trionfo americano del 1901, dovevano trascorrere altri tre anni prima che egli si presentasse al pubblico con una nuova opera. E questa fu di gentilezza tutta latina. Perché dovendo venire nel 1904 il Signor Loubet, allora Presidente della Repubblica Francese, a Roma a restituire la visita ai Sovrani d’Italia, il Leoni pensò che il Governo italiano potesse fargli omaggio di una opera che fosse al tempo stesso espressione di tecnica antica e mirabile manifestazione di vita moderna. Consigliatosi con Adolfo Venturi, questi con geniale trovata propose di miniare un Codice dei Trionfi Petrarcheschi. Nessun poeta era più adatto del Petrarca a questo omaggio italiano, il Petrarca da cui era sbocciato il mirabile rinascimento letterario della Pleiade francese; il Petrarca che aveva immortalato l’immagine di una grande Signora di Francia; il Petrarca, infine, che da Nolhac a Denys Cochin, da Remy de Gourmont a Havette aveva sempre esercitato la più nobile critica di Francia a cui si debbono pure saggi definitivi. A questi si aggiungeva un altro fatto: che proprio in quell’anno coincideva il Centenario Petrarchesco, alla cui solennità concorreva anche la Francia con speciali celebrazioni accademiche e popolari. Presentato da Luigi Luzzatti, l’On. Giolitti, allora Presidente del Consiglio, accolse il Leoni e lo incoraggiò subito nel suo disegno. Rispondendo al presentatore, in una lettera del dicembre 1903, diceva: «Il prof. Nestore Leoni che tu hai mandato a me, ti porta la mia piena ed entusiastica approvazione della sua idea di offrire, a nome della Nazione italiana e come speciale omaggio del Regio Governo, al Presidente Loubet, quando verrà in Italia, i Trionfi del Petrarca, suggeriti dal Venturi e alluminati dal Leoni la cui fama di continuatore dell’arte di Oderisi è nota universalmente». Per l’artista questa volta si trattò di un vero e proprio tour de force, ché l’intiero Codice fu compiuto in 75 giorni soltanto. Rilegato a somiglianza di quello detto Ginori – Capponi d’Orvieto, fu mostrato a soli pochi «buoni intenditori» e ottenne il plauso universale. «Il lavoro del Leoni — scriveva il critico della Tribuna — tutto intonato sull’arte quattrocentesca è riuscito di una mirabile finezza e costituisce un’opera pregevolissima». E il Bacchiani nel Giornale d’ Italia faceva osservare: «In fine del volume si legge: Cominciato il 15 gennaio, finito il 6 aprile ricorrendo l’anniversario dell’innamoramento del Poeta. Dimostrino queste date, l’ultima delle quali è così cara ad ogni italiano, l’incredibile rapidità con cui fu compiuta tanta opera, frutto della dottrina e dell’amore di un esteta, del vivo ingegno e della raffinata perizia di un valentissimo artista». Ma il giudizio più lusinghiero è quello che sul Fanfulla della Domenica ebbe a dare Valentino Leonardi che fra gli scolari del Venturi è uno dei più noti e dei più apprezzati. Dopo aver brevemente descritto il nuovo lavoro del Leoni dichiarando che «le Carte dei Trionfi Petrarcheschi dalle miniature di Nestore Leoni uscirono leggiadre di tante grazie, di tanti sorrisi e di tanti colori quanti non ebbero mai» finisce con l’affermare: «Quello che a me piace rilevare è la grazia della glossa marginale, lungo il corso dei canti ove l’artista ha dato più libero corso alla sua fantasia. Il disegno è sulla trama di quelli intrecci a nodi, così caratteristici nella storia dell’arte decorativa nostra, che dalle miniature caroline e dai codici cassinesi si perpetua a traverso tutto il Rinascimento sino a connaturarsi nell’arte di Leonardo, e a passare per opera di Raffaello sul ricamo della mensa d’ altare della Disputa del Sacramento. Ridon le carte…. e l’esegeta ha dettato il più chiaro dei commenti. È il più bel Codice moderno, armonia vaghissima di forme e di colori
Se mai candide rose con vermiglie In vasel d’oro vider gli occhi miei».
Così la critica d’arte e il giudizio dei giornali. Ma una più alta voce doveva consacrare il trionfo dell’artista. Nel 1905 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva fatto riprodurre il Codice dei Trionfi in una edizione fototipica di soli cento esemplari, uno dei quali mandò in omaggio a Giosuè Carducci. E questi, lietissimo del bel dono, ebbe a scrivere la seguente lettera che è come un brevetto di nobiltà, per ogni cuore che abbia l’animo d’intenderla :
« Eccellenza, Lo splendore dei Trionfi Petrarcheschi inviatimi dall E. V. a nome di Nestore Leoni, la bellezza delle miniature che l’adornano e che rispecchiano il lungo studio e il grande amore degli antichi maestri, riempiono l’animo mio di gratitudine verso l’artista offerente e il Ministro porgitore. Voglia l’E. V. compiacersi di esprimere a mio nome le grazie più vive e sentite all’illustre artista esecutore di sì belle cose, al valente e coscienzioso artefice che ha reso in un tutto armonico i miracoli dell’arte antica e le divine fantasie del Poeta. Suo affmo e devmo GIOSUE CARDUCCI. Bologna, 25 gennaio 1905.
“Nestore Leoni: una delle 170 pagine miniate dei «Sonetti di Shakespeare».”
Del resto, anche di quest’opera, abbiamo un recente esempio di vitalità. Le vicende di quel Codice sono abbastanza note. Il signor Loubet non credette di ritenere quel dono come fatto al Presidente della Repubblica, ma come un omaggio personale a lui stesso. Fu così che invece di depositarlo nella Biblioteca Nazionale, volle tenerlo presso di sé nella sua villa a Montélimar. La qual cosa si riduceva a un danno morale per l’artista che vedeva così l’opera sua sottratta all’ammirazione del pubblico. Altri avrebbe protestato o qualmente brontolato contro un simile fatto. Con la tenacia abruzzese che è tutta sua, il Leoni pensò di rifare per conto suo il Codice petrarchesco e si accinse coraggiosamente al non lieve lavoro. Era un’offerta che l’artista faceva alla sua passione e di questa fu compensato. Ché il nuovo Codice, riuscito certo superiore al primo per l’estrema raffinatezza della tecnica e per più ricchi accessori nell’ornamentazione, e per il quale l’artista spese tre lunghi anni di non interrotto lavoro, è oggi in possesso di S. E. il Capo del Governo. Sarebbe lungo e forse più che lungo inopportuno, narrare come un così prezioso Volume passò nelle mani dell’On. Mussolini. Fu una fortuna, questa, che permise al prezioso volume di rimanere in Italia, dove ora fa parte della Biblioteca privata del Capo del Governo. Il quale ammirò molto l’opera d’arte e volle dimostrare questa sua ammirazione all’artista offrendogli la propria fotografia con questa dedica: «A Nestore Leoni con ammirazione». Altri cinque anni trascorsero prima che il Leoni portasse a compimento un suo nuovo lavoro e questo fu la Costituzione Argentina in cinque grandi fogli. «Lavoro — ebbe a dire il Giornale d’ Italia annunziando la visita che il Presidente di quella Repubblica, Saenz Peña, aveva fatto allo studio dell’artista — che per le sue proporzioni e per la sua poderosa concezione artistica, supera quanto si è fatto finora nell’arte dell’alluminare». «È un secolo di storia racchiuso in cinque tavole» — scriveva la Vita del 5 maggio 1910 soggiungendo che — «i quadri miniati da Nestore Leoni saranno il decoro della Mostra Italiana di Buenos Aires e meglio delle fragili architetture improvvisate e più durevolmente degli eloquenti discorsi occasionali, ricorderanno agli argentini il glorioso centenario celebrato anche in Italia con simpatia di consanguinei». Nè la profezia fu vana, perchè il Senatore Soldati, nel Senato argentino, concludeva una sua relazione, con la quale era fatta proposta di acquistare l’opera del Leoni per lo Stato, dicendo: «II Leoni è noto non solo in Italia ma nel mondo intiero ed io credo che siano sufficienti queste mie parole per giustificare la proposta della Vostra Commissione la quale esprime il voto che il Governo acquisti questa magnifica opera d’arte che sarà certamente il più bel ornamento del Palazzo del Congresso». E la proposta fu approvata all’unanimità. Mentre Nestore Leoni otteneva tutti questi trionfi in America, si preparava in Europa a presentarsi al pubblico in due grandi esposizioni di Belle Arti. In quelli anni — si era nel 1914, alla vigilia della guerra — gli organizzatori delle Mostre d’Arte non credevano ancora di dover dare l’ostracismo alla miniatura, come ad una manifestazione inferiore. Avendo fatto nel frattempo un lavoro di più piccola mole ma disquisita fattura — i Sonnets from Portuguese della Barret Browning, che fu poi acquistato da un amatore americano — egli poteva tutto dedicarsi alle due esposizioni cui voleva partecipare: quella di Venezia e quella di Lipsia. Dell’opera sua alla Biennale Veneziana parlò a lungo e bene quel Carlo Siviero che è fra i nostri ritrattisti contemporanei uno dei più nobili e dei più pensosi. «La Presidenza della Mostra Veneziana» — scriveva egli a conclusione di un suo articolo nella rassegna napoletana Regina, e che è un saggio su tutta l’opera del Leoni — «lo chiamò all’onore dell’XIa che si è testè inaugurata. Vogliamo augurare al pubblico e agli artisti che, fra tanta e variata messe di quadri e di statue, non passi frettoloso d’innanzi alle vetrine che chiudono le opere di questo poderoso conoscitore dei più grandi segreti di tecnica di tempi così lontani. Tale augurio noi lo facciamo perché è un riposo grande dello spirito, quasi una nuova parola educatrice che arriva alla coscienza quando con calma serena ci fermiamo d’innanzi alle profonde opere del Leoni e le interroghiamo». In quanto all’Esposizione Industriale del Libro a Lipsia, una corrispondenza all’Emporium ci avverte del successo ottenuto nella capitale della bibliografia europea, concludendo col dire: «Le pagine mostrate a Lipsia, poiché altre sono esposte a Venezia, sono frutto di un senso d’arte squisito e d’una decorosa serietà di propositi non meno che d’una amorosa, abile, perfettissima esecuzione. Esse ottengono uno dei intensi successi di curiosità e di ammirazione, cosicché moltissimi chiedono schiarimenti ogni giorno, alla segreteria della Sezione».
“Nestore Leoni: una delle 170 pagine miniate dei «Sonetti di Shakespeare».”
III
Il quinquennio che va dal 1916 al 1921, segna il periodo che si potrebbe chiamare della maturità gloriosa nell’arte di Nestore Leoni. Maturità e gloria che egli raggiunge con due autentici capolavori: i Sonetti di Guglielmo Shakespeare e La Vita Nuova di Dante. Forse non è il semplice caso che ha riunito in un’eguale perfezione d’arte grafica i due poeti che segnano, nella storia del genere umano, due vette non raggiunte prima e non sorpassate dopo da nessun altro popolo al mondo. La storia del Codice Shakespeariano è molto semplice ed ahimè, malinconica, ed io stesso annunciandola nel Giornale d’Italia, l’ho brevemente narrata. «Il terzo centenario della morte di Guglielmo Shakespeare non ebbe fortuna. Capitato in piena guerra — nell’aprile del 1916 — in un momento in cui le sorti delle armi alleate erano gravi, passò inosservato. L’Inghilterra che aveva raccolto una somma abbastanza importante per la sua celebrazione pensò che quelli non erano giorni per discorsi commemorativi, i pageants e le rappresentazioni teatrali: la vita nazionale richiedeva una maggiore austerità e i denari che dovevano servire per manifestazioni verbali potevano esser spesi più utilmente e quindi di tutto il grandioso programma stabilito non rimase più nulla…. Ora fra le molte cose che dovevano esser fatte e che si erano preparate anche all’estero una interessava l’Italia e Roma. Perché appunto a Roma uno spirito solitario d’artista aveva immaginato un omaggio unico alla memoria del Poeta: uno di quei volumi preziosi che solo il genio italiano sa ancora dare di tanto in tanto, come una isolata manifestazione delle sue grandi tradizioni e della sua vitalità persistente. Il volume conteneva i Sonetti di Guglielmo Shakespeare, miniati e alluminati in una bella risurrezione del secolo elisabettiano: l’artista era Nestore Leoni, l’abruzzese tenace e appassionato che nella solitudine del suo luminoso studio di Via San Nicola da Tolentino aveva fatto rivivere come per un miracolo l’arte antica di Oderisi e dell’Attavante. Nestore Leoni è di quei rari artisti che lavorano per creare opere di bellezza senza far rumore intorno al proprio nome, senza far valere il merito grande dell’opera sua. Ultimo di una lunga serie di artisti che hanno riempito il mondo con la gloria delle loro alluminazioni, portando il nome d’Italia nei paesi più lontani egli ha dato all’America le superbe carte miniate della sua Costituzione, alla Francia i Trionfi del Petrarca che il Governo Italiano offerse al Signor Loubet quando venne fra noi, così come i Rettori Fiorentini li avevano offerti a Carlo VIII nella sua non fortunata spedizione; così come avrebbe dato questa opera suprema all’Inghilterra se più grandi avvenimenti e di più grave momento non lo avessero impedito».
“Nestore Leoni: una pagina dei «Codici della Guerra». (Vol. I, parte Ia, pag. 47.)”
Un altro studioso di letteratura e d’arte inglese, Guido Biagi, ebbe anche lui ad occuparsi di quest’opera Shakespeariana, con uno studio che fu pubblicato nel Bollettino d’ Arte della Pubblica Istruzione del maggio 1921. «Il Leoni — scrive il critico fiorentino — così per la tecnica pittorica come nel metter l’oro nei fondi e nel cesellato sta oramai a paro con i suoi antichi Maestri. L’artista abruzzese con il talento che è proprio di quella terra feconda d’ingegni, li vince tutti — gli antichi ed i moderni — per questa sua mirabile facoltà di saper adattare lo stile all’epoca e al soggetto, di saper creare figurazioni diverse, come avrebbe appunto fatto — non altri ma lui solo — se fosse nato supponiamo trecento anni prima nell’arte Elisabettiana. Il miniatore della Costituzione Americana, dei Trionfi, dei Sonetti dal Portoghese, sa trasformarsi e rivivere l’epoca ed il sentimento dei vari soggetti che vuole non illustrare ma raffigurare. Si riconosce la «griffe du maître» più che altro in quel senso di armonia che regna in ogni sua composizione, nella fusione perfetta dei colori, nella finezza delle figurazioni. Ma da un’opera all’altra tutto è diverso, si respira l’aria di un’altra epoca di una differente ispirazione. In questo volume unico, di cui non si sono fatte riproduzioni, dei Sonetti di Shakespeare, del libro in cui l’espressione passionale ha raggiunto una tale altezza quale non fu né sarà mai più sorpassata, l’artista ha veramente sorpassato sè stesso compiendo un’opera che è degna della più sconfinata ammirazione. Noi abbiamo lo snobismo delle antichità e abbiamo il torto di non pregiare abbastanza le opere del nostro tempo quando anche abbiano pregi d’arte inestimabili. Gli antichi, i nostri predecessori, che ci hanno lasciato i mirabili libri che ridono nelle vetrine delle più invidiate collezioni, non avevano tale stolto pregiudizio e col premiare e incoraggiare gli artisti del loro tempo preparavano ad essi la gloria futura e a sè la rinomanza di mecenati intelligenti e previdenti». Fortunatamente quest’opera insigne che in origine era destinata all’Inghilterra è rimasta in Italia. Il Senatore Borletti, acquistandola, ha voluto arricchire le sue collezioni di una gemma d’incomparabile bellezza.
“Nestore Leoni: il frontispizio della «Vita Nuova».”
Eguale trionfo d’elogi, e forse — dato anche,il soggetto e la sua mirabile riproduzione a colori — una più vasta ammirazione di pubblico, ottenne la Vita Nuova. Fin dal 1907, Nestore Leoni, aveva concepito questa opera di grande mole ed anche ne aveva fermate le linee architettoniche e l’ordinamento generale. Poi altre cure erano sopravvenute e il lavoro aveva dovuto essere interrotto. Ma nel 1919 l’idea fu ripresa per espresso desiderio di Pompeo Molmenti allora Sottosegretario di Stato per le Belle Arti e l’esecuzione fu resa possibile mercé l’illuminata liberalità di Angelo Pogliani che mise a disposizione del Leoni la somma necessaria per la riproduzione del Codice in una edizione in fac-simile che fosse una vera rarità bibliografica. Questo Codice, oltre alle alluminature del Leoni, doveva anche contenere alcune figure illustrative di Vittorio Grassi. Impresa non lieve per il giovane artista, che doveva lottare contro una duplice difficoltà: quella di armonizzare la sua arte con quella del Leoni e quella di mantenersi originale, in un soggetto nel quale aveva tanti e tanto grandi predecessori. Si trattava, infatti, di non essere un semplice imitatore di un qualunque giottesco, né un seguace del Botticelli e tanto meno un continuatore del prerafaelismo rossettiano. E per ottener questo risultato egli s’impose questa direttiva: d’illustrare la Vita Nuova con immagini quali avrebbe potuto «vedere» un lettore contemporaneo. Con un misto, cioè, di verità e di idealizzazione, nel quale potevano fondersi i vari elementi citati senza pur ricordare le fonti onde erano derivati. E bisogna riconoscere che Vittorio Grassi è perfettamente riuscito in questa sua non lieve impresa. E l’esito sorpassò ogni aspettativa: dalla carta pergamenata e appositamente fatta alla rilegatura, dai fregi d’oro — così difficili a riprodursi con mezzi fotomeccanici — alle magnifiche riproduzioni miniate che l’Istituto d’Arti Grafiche di Bergamo eseguì con assoluta perfezione d’arte, dai caratteri del testo ai tessuti delle custodie, il volume riusci degno del soggetto altissimo e — si può dirlo senza tema d’errore — quale non solo in Italia ma in nessuna altra Nazione al mondo era stato fatto simile.
“Nestore Leoni: pagine di un libro d’ore protestante (Chiesa americana).”
Alessandro Bacchiani, annunciandolo nel Giornale d’Italia del 19 Novembre 1921 scriveva: «Nel passato un volume così fatto rendeva felice un magnifico signore che ne adornava la casa a documento del suo fasto e del suo buon gusto. Nel bel mezzo del Quattrocento il Duca Federico Feltrio chiamò nella sua reggia urbinate i migliori alluminatori del tempo e ne ottenne il Codice della Commedia che è oggi uno dei cimeli più ammirati della Biblioteca Vaticana, così come cinque secoli più tardi, il Codice del Leoni, per espresso desiderio del S. Padre sarà collocato nella stessa Biblioteca a perenne testimonianza che l’arte dell’alluminare per merito di questo eccezionale temperamento di artista continua in Italia la sua gloriosa tradizione». E quasi nel tempo stesso Luigi Siciliani — che poco dopo doveva succedere al Molmenti nel Sotto Segretariato alle Belle Arti, scriveva sull’Idea Nazionale: «Quale banchiere fiorentino della stirpe dei Medici, o quale buon intenditore senese della famiglia dei Chigi, mi ha posto sotto gli occhi questa mirabile edizione della Vita Nuova di Dante? Nel secolo degli arricchiti facili ed ottusi è proprio possibile tanto buon gusto ? Guardo. Riguardo le pagine. Chi ha disegnato o colorito queste miniature che sembrano strisce d’amore primaverile ? Nestore Leoni, un abruzzese d’Aquila, un conterraneo di Benedetto Croce. Come mai questo ammiratore di Dante Gabriele Rossetti è rimasto così ostinatamente italiano nel gusto e nello stile ? Questi suoi giuochi ed intrecci di colori di tutte le gradazioni e di tutte le sfumature seguono pagina per pagina il ritmo interno e segreto del libro come una melodia. Mi pare che Nestore Leoni abbia tradotto con i suoi sottili pennelli quello che il suo dotto conterraneo Benedetto Croce non ha per me tradotto nel suo opimo volume. Dove ha studiato sinfonia questo straordinario epigono di Franco Bolognese ? Ha egli ascoltato Casella sulla sterile spiaggia del Purgatorio ? O non più tosto qualche spirito misterioso lo ha condotto attraverso tutte le cattedrali di Bisanzio in fiore a notarvi le armonie e le virtù delle gemme come un lapidario medioevale ?»
“Nestore Leoni: pagine di un libro d’ore protestante (Chiesa americana).”
E Luigi Serra, con meno impeto lirico, ma con più compiuta visione critica, annotava nel Tempo del 2 gennaio 1922: «E un’opera d’arte creata per esaltarne un’altra. Nè è a credere che essa sia stata pensata come la ripetizione di vecchi codici miniati o come la ricostruzione archeologica, sapientemente elaborata traverso la tradizione artistica coeva all’Alighieri. È un omaggio moderno reso con modernità di spiriti a Dante e al Trecento. Tutto l’organismo illustrativo risente si delle opere d’arte fiorite intorno agli amori di Dante, ma esse sono guardate con gli occhi del nostro tempo, si da recarne una immagine rinnovata che spesso ha dell’antico soltanto il sapore o un vago andamento per animarsi nei riflessi del nostro sentimento». Ma a questi vari giudizi di critici, altri se ne aggiunsero spontanei di personaggi illustri che d’innanzi alla perfetta opera d’arte sentirono il bisogno di esprimere la loro ammirazione all’autore. Così Adolfo Apolloni scultore di eleganza classica, Senatore del Regno e allora Sindaco di Roia, scriveva al Leoni: «Le parole non possono essere sufficienti per esprimere la mia ammirazione per la magnifica opera. Tutto è corrispondente ed in relazione all’omaggio che l’Italia rende alla memoria del più grande dei suoi figli». E Luca Beltrami, l’artista illustre ed il critico sagace e profondo: «Scorrendo le pagine dell’esemplare della Vita Nuova ebbi non solo confermato ma superato il giudizio autorevole che già avevo sentito pronunciare. L’opera che armonizza così genialmente le più belle tradizioni — dell’arte del minio con le illustrazioni di Vittorio Grassi affermanti lo spirito moderno della pittura rimarrà documento significativo della vitalità del genio e della operosità italiana». E Isidoro del Lungo, dantista insigne e Consolo dell’Accademia della Crusca: «La Vita Nuova dantesca alluminata da Nestore Leoni ed illustrata da Vittorio Grassi è uno, certamente, dei più solenni contributi dell’arte italiana al secentenario dantesco». E Pompeo Molmenti: «La parola è ineguale ad esprimere la mia ammirazione per il preziosissimo libro che mostra ciò che possono gli artisti nostri. E veramente il miniatore e l’illustratore sono degni del Poeta divino. Miglior lode non si potrebbe far loro». E Corrado Ricci, che alla genialità dello storico d’arte unisce il profondo culto per l’opera dantesca: «È una mirabile opera d’arte pervasa da altissima poesia. L’opera del Leoni non è solo opera da alluminatore, ma di risuscitatore di un’arte gloriosa».
“Nestore Leoni: pagine miniate di un libro d’ore cattolico.”
E Vittorio Rossi, il geniale professore di Letteratura Italiana all’Università di Roma: «Le geniali concezioni e il sapiente magistero di linee con cui il Leoni ha ornato di fregi il Codice originale di quel soave libro che è la Vita Nuova e la perfezione tecnica con cui fu curata in ogni particolare la riproduzione, fanno del volume una squisita e singolarissima opera d’arte, degno omaggio del Divino Poeta, della Nazione, dell’Umanità». E Michele Scherillo altro dantista insigne: «Magnifico e principesco volume veramente degno del nome dell’altissimo poeta». E Adolfo Venturi: «Non imitazione ma ripristino dell’antica arte gloriosa della miniatura è questa Vita Nuova che Nestore Leoni ha curato con ogni attenzione in tutti i particolari, nella ricchezza e, potrebbe dirsi, purezza della stampa, così che il codice principe sembra racchiudere, nelle pagine fiorite dell’opera giovanile del Divino Poeta, un alito di primavera». E finalmente il colto prelato Monsignor Gastone Vanneufville, in una corrispondenza del 13 febbraio 1924, al giornale La Croix, dopo aver fatto la storia del bel volume e descritto l’opera d’arte, concludeva riportando le parole di Don Achille Ratti, allora bibliotecario dell’Ambrosiana e oggi Sommo Pontefice sul Soglio di Pietro col nome di Pio XI: «L’illustre scienziato — il Ratti — e bibliofilo, ebbe ad esprimere il parere che «il codice della Vita Nuova alluminato da Nestore Leoni dovesse e potesse degnamente figurare accanto agli antichi gloriosi esemplari dell’arte del minio a dimostrare che — dopo secoli di abbandono — è stato possibile il rifiorire di un’arte che fu nel passato, tenuta in sommo pregio». Plebiscito generale di ammirazione, come si vede, che consacrava definitivamente la gloria dell’illustre artista abruzzese, per un’opera che a suo dire avrebbe dovuto essere l’ultima della sua laboriosa esistenza. Ma fortunatamente non fu così. Chè già egli aveva pensato ad un codice supremo, una specie di «Corpus» della virtù militare, esaltante e tramandante ai posteri più lontani la gloria della Nazione e dell’individuo nell’impresa della grande guerra. Questo egli aveva pensato mentre ancora fra le petraie sanguinose del Carso e le balze lacerate del Trentino pendevano incerte le sorti delle battaglie. Ma non un istante il suo spirito aveva disperato dell’esito finale tanto che poteva scrivere, proponendo questo suo lavoro: «Dal meraviglioso telegramma di Quarto in cui la parola del Re fu pari all’altezza dei Fanti d’Italia, al discorso pronunciato in Campidoglio da Antonio Salandra, dalle solenni affermazioni del Parlamento, ai discorsi degli uomini di governo, dal proclama dettato dal Re nell’ora in cui prendeva il Comando Supremo dell’ Esercito e dell’Armata, ai comunicati tacitiani del Generale Cadorna, fino all’«immancabile» vittoria delle nostre armi, le colonne miliari della Via della Vittoria saranno fermate per i secoli nel Codice Sacro della Patria».
“Nestore Leoni: pagine miniate di un libro d’ore cattolico.”
Perché questo infatti, era il lavoro a cui si accingeva il Leoni: trascrivere in pagine imperiture nelle quali l’arte del minio desse il suo rinnovato magistero, i fatti, gli episodi e i documenti più importanti della guerra e della vittoria, unitamente a tutte le ricompense agli atti di valore, così a quelli delle unità combattenti, come a quelli d’ogni singolo individuo. Nel 1918, Ferdinando Martini, che aveva accettato di presiedere il piccolo comitato creatore per condurre a fine una così grande impresa, raccomandandolo caldamente al Popolo Italiano, non esitava a scrivere: «E perché la valentia universalmente nota di un artista ci dia sicurtà di bellezza, vogliamo affidata l’opera a Nestore Leoni che la ideò e ne tracciò le linee ed a cui si deve se l’arte della miniatura, che fu gloria essenzialmente italiana, è ritornata in onore dopo più che quattro secoli di abbandono». Questo nuovo codice leoniano è tuttora in via di esecuzione, ma dalle pagine già compiute si può conoscere e capire quello che sarà ad opera finita. «Un gran fatto consacrato da una grande opera d’arte» lo ha definito il Bacchiani in una sua nota sul Giornale d’Italia. E Carlo Siviero sulla Tribuna aggiungeva: «Io voglio annunciare ad alta voce a quelli che, come me, attendono ancora dalle misteriose forme dell’arte l’opera «viva» della nostra guerra di redenzione, voglio annunciare, ripeto, che tale opera può considerarsi oramai un fatto compiuto. Quando tutti i palpiti che hanno alimentato l’azione o che l’hanno riscaldata con le fiamme più vivide della passione rivivranno senza fronzoli letterari e senza lenocini di gesti arbitrari, plastici o pittorici, nelle chiare e semplici parole dei fatti certi della storia; quando l’ardore e l’ardire saranno accompagnati dalla musicalità sobria, solenne e severa dell’arte del Leoni, e i tre colori della nostra bandiera e l’azzurro e gli ori e il verde dei lauri rinnovati di gemme più vive, parleranno ai nostri cuori il loro muto linguaggio, l’epopea della nostra guerra, consacrata dalle tradizioni secolari di un’arte essenzialmente italiana avrà avuto, a mio modo di vedere, quella consacrazione civile definitiva in virtù della quale essa potrà anche aspirare a vivere la vita immortale dell’arte». Ma due parole, fra tante, mi sembrano definitive. Quelle di S. E. Pietro Fedele, già Ministro della Pubblica Istruzione, e l’altra di S. E. Luigi Federzoni, scrittore di razza e attualmente Presidenza del Senato del Regno. Scrive Pietro Fedele: «Nestore Leoni è non soltanto il continuatore ma anche il risuscitatore dell’arte nobilissima dell’alluminare, nella quale non vi è certo chi lo superi. Le carte al suo tocco magistrale ridon di divina bellezza, sia che con luminosa fantasia e con paziente diligenza vi disegni le più fini ornamentazioni, sia che in essa ponga ed inquadri ritratti e medaglioni tracciati con impareggiabile maestria. Antica e nuova l’arte del Leoni è vera gloria del nostro paese».
“Nestore Leoni: una pagina dei «Codici della Guerra». (Vol. II, «Le Ricompense», pag. 15.)”
E scrive Luigi Federzoni, che per l’occasione ha ritrovato la penna del critico indimenticabile Giulio de Frenzi: «L’arte di Nestore Leoni eccelle nell’esprimere cose grandi entro brevissimo spazio. Per questo aspetto e, forse, non per questo soltanto, essa somiglia al sonetto, succinta veste, tradizionale veste di gloriosa poesia italiana. Ma Nestore Leoni rifugge dagli spunti convenzionali come dalle ricordanze decorative. Ogni sua invenzione svela un senso pieno e complesso, rispondente all’argomento in chiara intuitiva armonia, ove il disegno concorre con lo sviluppo ingegnoso di appropriati concetti, e i colori creano un’atmosfera ineffabile di vita fantastica. Arte che sembra riecheggiare il passato, ma risuscitandolo in un palpito lirico di sogno, come quando illustra la Vita Nuova e i Trionfi petrarcheschi. Arte invero viva e schietta, che saprà dire del tempo nostro una parola degna alle generazioni future, allorché queste potranno trovare nelle pagine indistruttibili del meraviglioso Codice della Guerra Mondiale insieme coi documenti massimi dell’eroismo e del sacrificio del popolo italiano, l’interpretazione suggestiva e profonda della fase decisiva della nostra storia». In quest’opera monumentale, come per la Vita Nuova, tutta la poderosa fatica per la materiale esecuzione è sopportata unicamente dal Leoni, con la collaborazione del suo fedele scolaro Enrico Brignoli che lo aiuta — oltre che nel tracciare le bellissime scritture — anche nell’esecuzione accuratissima delle alluminature della cui tecnica — sotto la quotidiana e più che trentenne guida del Maestro — è già reso espertissimo. E solo in questi ultimi tempi il Brignoli si è valso dell’aiuto di un suo giovane nipote: Renato Garrasi, il quale ha mostrato di avere ottime disposizioni a seguire le orme dello Zio nella difficile tecnica pittorica dell’arte del minio. Intanto mentre si sta compiendo questa nobile opera patriottica che nell’arte del Leoni vorrei dire definitiva, egli ha — come per un riposo del suo spirito ed è riposo veramente fecondo e degno dell’artista — intrapreso due lavori di minor mole se non di minor bellezza. Uno è un «prayer book», trattato con squisitissima arte d’ispirazione puramente italiana piena d’originalità e di quella personalità che mettono il nome del Leoni e la sua tecnica preziosa accanto a quelli — e non sono molti — dei più illustri alluminatori antichi, quasi ne riallacciasse la tradizione, mantenendo puro il carattere italiano d’un’arte che in Italia aveva trovato le sue forme più definitivamente rappresentative. E l’altro è un libro di preghiere per nozze: libro che esce per la sua concezione e per la sua composizione da quanto il Leoni aveva fatto finora. Si tratta di un audace innesto — un umanista direbbe «contaminazione» — dello stile tradizionale dell’arte dell’alluminare, sopra una visione verista. Ogni pagina di questo breve «libro delle ore» è tutta adorna di fiori. Ma questi fiori sono trattati con un senso di profonda verità. Essi rivivono veramente sotto l’appassionato pennello del Leoni. Si direbbe quasi che una mano gentile ne abbia sparso con amorosa negligenza le varie pagine lasciandoli cadere mollemente fra le lettere d’oro del testo. Sono centinaia di viole, di biancospini, di peschi, di mandorli, di giacinti, di gelsomini, d’anemoni, di margherite, che l’arte ha fissato sul vello rendendoli immortali. E così grande la loro freschezza che si direbbero ancora stillanti di rugiada e fragranti di profumo. E così viva è la loro rappresentazione che sembrerebbero caduti pur ora dalle mani di qualche Flora bellissima che per un suo giuoco avesse dato loro l’immortalità della giovinezza. Questi due libri sono veramente opera di religione e di fede in cui la preghiera, adorna di una bellezza nuova, par veramente innalzarsi al cielo tra le più nobili manifestazioni dell’arte.
“Nestore Leoni: miniatura per la pagina sinistra di frontispizio dei «Commentari della Guerra e della Vittoria», Vol. I.”
IV
Pochi artisti forse hanno avuto come Nestore Leoni una critica favorevole fin dal suo primo lavoro. Ma questa unanimità di elogi, a parte il merito dell’artista, significa qualcosa di più: è come il riconoscimento del valore che egli ha nella sua opera rintegratrice di un’arte che fu — e aggiungerò che può ancora essere — fra le più gloriose d’Italia. Oggi è vezzo dare l’ostracismo alla miniatura, si che molte esposizioni la escludono come una forma d’arte superata. Già prima di tutto bisognerebbe intendersi su questo termine: arte superata. Nessuna arte, quando arte è veramente, può dirsi superata. Fidia è contemporaneo di Michelangelo e la Santa Teresa del Bernini può stare sulla stessa linea della Madre di Costantin Meunier. Se si dovesse veramente ammettere questa «superazione» ogni arte morrebbe dopo appena un cinquantennio di vita. È una strana pretesa, questa nostra — e pur troppo è anche la constatazione d’un bizantinismo che tiene più alle disquisizioni che alle opere — è una strana pretesa d’essere noi i soli iniziatori di un’arte nuova. Quando Giotto dipingeva le sue Madonne — e Dio sa se all’epoca sua quella fu veramente una rivoluzione innovatrice — non pensava certamente di rinnovare il mondo, ma solo di continuare quello che aveva fatto Cimabue e prima di lui i maestri greci. Né il Canova scolpendo il monumento a Clemente XIV pensava certamente di fare una rivoluzione. Non esiste un’arte superata, come non esiste un’arte socialista, un’arte reazionaria, un’arte cattolica: esiste l’arte e quando questa raggiunge la perfezione è di tutti i tempi e di tutti i popoli.
“Nestore Leoni: una pagina dei «Codici della Guerra». (Vol. I, parte Ia, pag. 13.)”
Ora per l’arte dell’alluminare può farsi questa osservazione: se domani si volesse con quella ritornare all’industria dei codici e sopprimere la tipografia per rimettere solo in onore le belle pagine miniate, si farebbe opera da pazzi o da illusi Ma nessuno ha di queste intenzioni, le quali sarebbero eguali a quelle che potrebbero sorgere in un ardito speculatore che volesse rimettere in onore le diligenze per abolire l’automobile. Vi è però qualcosa di più e di meglio che quest’arte può fare: tramandare, cioè, all’età più lontane i fatti e le glorie di un’epoca sotto una veste che nessuna tipografia al mondo saprebbe darle. Ma vi è di più: nessuna delle arti rappresentative può — come un codice alluminato — dare una visione intiera e compiuta di un avvenimento storico. L’affresco, la statua, il quadro e per fino l’architettura, non potranno riprodurre che frammenti episodici, momenti di una battaglia, aneddoti di una vita eroica. Il codice, per conto suo, ci presenta l’intiero svolgimento di tutto un periodo, lo segue non solo nella sua visione grafica, ma lo commenta, lo illustra, lo sviluppa col suo testo. Se si pensa che fra qualche secolo, la maggior parte dei nostri libri e dei nostri giornali saranno irrimediabilmente distrutti e se a questa distruzione si mette di fronte la conservazione quasi eterna dei codici antichi, si vedrà quale vantaggio può trarsi da una simile espressione d’arte. Oggi quello che noi sappiamo di antica storia e di cultura antica, lo sappiamo unicamente attraverso le pergamene secolari. Il Codice Vaticano dell’Eneide — così prezioso, oltre tutto, anche per le sue illustrazioni che ci permettono di rievocare nei suoi particolari più umili la vita romana — è del IV secolo di Cristo, e dell’VIII sec. è il così detto «codice purpureo» di Rossano. Noi abbiamo col Boewulf il più antico poema vernacolare d’ Europa solo perchè uno studioso scandinavo lo ritrovò in mezzo ad antiche pergamene. E tutte le donazioni e tutti i brevetti e tutti gli statuti che formano la Magna Charta della nostra nobiltà civile e della nostra grandezza di popolo, sono giunti fino a noi solo perché fissati sul vellum della pecora.
“Nestore Leoni: una pagina dei «Codici della Guerra». (Vol. I, parte Ia, pag. 11.)”
Ora, fra i grandi fasti della storia d’Italia quello della Guerra Mondiale è certo il più importante. Per la prima volta dopo la caduta dell’Impero Romano, l’Italia nazione e l’Italia popolo scendeva armata in guerra per la conquista dei suoi ultimi confini. E dirò di più: per la prima volta forse nella sua storia, questo fatto avveniva, perché in fondo anche l’Impero romano era un’agglomerazione di popoli e nelle sue legioni combattevano i rappresentanti di tutte le razze del mondo d’’allora. Riunire in un «corpus» unico i documenti di questo grande fatto, e riunirli sotto veste degna e in forma di bellezza, è dunque impresa di grande espressione patriottica e di nobile aspirazione ideale. Dalle pagine già compiute — e sono pagine meditate in cui l’armonia del colore accompagna mirabilmente l’invenzione del disegno — si può dire che mai l’arte di Nestore Leoni aveva raggiunto una più alta vetta. Arte di semplicità e di bellezza, che apparisce come purificata dalla fiamma onde è pervaso il soggetto altissimo impreso a trattare.
“Nestore Leoni: una pagina dei «Codici della Guerra». (Vol. I, parte Ia, pag. 27.)”
Ma a queste considerazioni d’ordine che io direi utilitario, un’altra ne voglio aggiungere che ha la sua importanza ed è questa: che opere come i Trionfi Petrarcheschi, i Sonetti Shakespeariani o come la Vita Nuova Dantesca, sono opere di bellezza, fatte per rallegrare lo spirito di chi sa comprenderle e per carezzare lo sguardo di chi sa amarle. Opere di bellezza! Non avessero altro pregio io vorrei solo per questo additarle alla riconoscenza dei contemporanei. In un’epoca in cui sembra che gli artisti si compiacciano solo nella ricerca del deforme e del caricaturale; in un’ epoca in cui col pretesto di ricercare il carattere si vede solo quanto di più malato e di più morboso ha il genere umano; in un’epoca in cui con l’illusione di un rinnovamento semplicista si disprezza il disegno perché superfluo, la prospettiva perché è una «complicazione cerebrale» o si tralascia volontariamente il colore perché è un «lenocinio di decadenza»; in un’epoca come questa, dico, è bene che ci sia ancora qualche artista isolato che persegue un suo sogno estetico fatto di semplicità, d’armonia e di nobiltà, che sono doti schiettamente ed essenzialmente italiane. Perché fra le altre cose, in tanta esasperazione — puramente verbale purtroppo — di nazionalismi, noi non ci accorgiamo di metterci al passo dietro una brutta estetica germanica, la quale sempre, a traverso i secoli, ha cercato nel grottesco e nel malsano, quell’eccellenza che non poteva raggiungere in altri campi.
“Nestore Leoni: Breviarium Gloriae – Pagina del Volume II dei «Codici della Guerra». (Vol. II – «Le Ricompense», pag. 8.)”
Nestore Leoni, nato e cresciuto in quella dura terra d’ Abruzzi che sembra debba essere la riserva delle pure forze della stirpe, segue ancora il suo sogno, e tenacemente, pazientemente, lottando contro mille difficoltà e mille malvoleri, proclama ancora una volta in faccia al mondo che l’arte italiana è ancora un’arte di Bellezza e di Fede. Illusione la sua ? Ostinatezza di un «superato» ? Io non so, ma benedico l’una e l’altra, e lo addito ai giovani come esempio di quello che sì può ancora fare per la più grande gloria della Patria e dell’Arte.”
di C. Chiodi. Da Rivista Enciclopedica Contemporanea, dispensa di maggio, 1916.
“Alla rapidità dei movimenti, elemento essenziale di successo in guerra, i corsi di acqua costituiscono uno degli ostacoli più importanti e difficili che in ogni tempo i belligeranti si sono trovati a dover superare con quei mezzi che la genialità dei capitani e le risorse degli eserciti e dei tempi potevano suggerire. Alessandro Magno passa arditamente l’Osso su un ponte improvvisato galleggiante sorretto da sacchi di pelle imbottiti di paglia o d’otri rigonfi d’aria. In modo analogo Annibale supera il Rodano. Cesare, vero innovatore nei servizi tecnici di guerra, organizza con metodo le sezioni da ponte al seguito delle sue truppe ed arriva al capolavoro classico del ponte sul Reno fra Bonn e Colonia per il suo passaggio in Germania, gettato in dieci giorni attraverso uno specchio d’acqua di quasi cinquecento metri in cinquanta travate su supporti a stilate di legno a quattro gambe collegate superiormente da una banchina, rinforzati a valle da un contraffisso e riparati a monte, contro la violenza delle acque e l’urto dei galleggianti, da un avambecco (fig. 1).
“Fig. 1. – Il ponte di Giulio Cesare sul Reno.”
Le armate di Cesare conoscevano del resto anche l’uso dei ponti galleggianti valendosi di pontoni a carcassa di vimini ben contesti e ricoperti di pelli. Più tardi colla decadenza dell’impero romano la tecnica dei ponti militari cade in disuso; si può dire anzi che a partire dall’VIII secolo attraverso tutto il medioevo scompaia ogni traccia di sezioni da ponte al seguito degli eserciti, per non risorgere che colla guerra dei trent’anni quando le pesanti artiglierie ed i forti carriaggi misero in evidenza la necessità di dotare gli eserciti in campagna di mezzi speciali atti al rapido passaggio dei corsi d’acqua, sia coll’impiego di materiale di dotazione combinato preventivamente costituente i cosiddetti equipaggi regolamentari da ponte a disposizione delle singole unità belliche e sempre pronto alla posa in opera, sia coll’addestrare speciali truppe tecniche ad utilizzare le risorse ed i materiali che si trovano sul posto per l’improvvisazione dei cosiddetti ponti di circostanza in tutte quelle occasioni in cui si lamenti la mancanza o l’insufficienza degli equipaggi da ponte, forzatamente limitati nella loro efficienza dalla condizione di mobilità e leggerezza che è loro necessaria per seguire da presso costantemente i reparti manovranti. Il difetto di mobilità è particolarmente caratteristico nei primi esempi di equipaggi da ponti degli eserciti del Turenna, del Montecuccoli, del Condé (secolo XVII), che disponevano di robusti ma pesantissimi barconi di quercia come sopporti galleggianti di un piano stradale formato da lungherine di otto o dieci metri di lunghezza e da un tavolato di panconi già preventivamente costituito a pannelli di due o tre panconi collegati; mentre invece gli eserciti di Gustavo Adolfo usavano per la prima volta i sopporti a cavalletto. La necessità di provvedere ad un materiale di dotazione più leggero fece pensare sul principio del secolo XVIII alla costruzione di battelli di rame lunghi solo m. 5.70, larghi m. 1.70 e pesanti circa 830 kg., pure conservandosi contemporaneamente i vecchi e pesanti equipaggi da ponte di legno per le opere di retroguardia, di maggior respiro e studiandone il loro perfezionamento. Così in Francia verso il 1770 il generale Gribeauval applicava un tipo di battello di quercia lungo m. 11.00, largo m. 2.00, alto m. 1.60 e del peso di 1850 kg. che rimase in uso qualche tempo servendo ai primi eserciti della Repubblica e dell’Impero. Oltre le strutture galleggianti non si trascurano anche per il passato altri mezzi per la formazione dei sopporti da ponte, fra questi, prima della Rivoluzione specialmente, si usarono alcuni tipi di ponti su carri, utili solo in corso d’acqua poco profondi (fig. 2).
“Fig. 2. – Ponte su carri.”
Più comune fu l’impiego di gabbioni di conveniente altezza riempiti di terra e impostati ben solidamente sul fondo, ritti o coricati in file di due o di quattro a sostegno delle travate del piano stradale. Dall’altro canto nelle costruzioni di circostanza gli zappatori ed i pontonieri di tutte le armate venivano sempre meglio addestrati alla improvvisazione di complete strutture di legno a travate semplici od armate, su palafitte o su cavalletti, create coi materiali del luogo, e potremmo citare come ammirevole esempio i due ponti gettati dagli eserciti di Napoleone sulla Beresina (novembre 1812), dove con abnegazione ed eroismo i soldati del genio dei generali Eblé e Chasseloup Laubat, ormai sprovvisti nella infausta ritirata di ogni equipaggio da ponte, lavorando per tre giorni nell’acqua e fra i ghiacci ininterrottamente fino all’esaurimento salvarono gli ultimi resti delle armate di Russia. Dopo Napoleone nel secolo scorso quasi tutti gli eserciti europei si accinsero a dare un assetto più moderno ai reparti tecnici di pontieri provvedendosi di equipaggi da ponte per armata, coi quali si attraversano ostacoli superiori ai quaranta metri — e si può arrivare da noi fino ai 229.80 m. — e di sezioni da ponte addette alle divisioni colle quali sì può gettare normalmente — per esempio nel nostro esercito — un ponte lungo m. 34.60, ed eccezionalmente con qualche ripiego si possono raggiungere i m. 41.40. Entrambe le categorie sono formate comunemente da materiali di legno i cui sostegni principali galleggianti sono le barche e quelli fissi sono i cavalletti. In ambo i casi la struttura si completa con travicelli e tavole per la formazione del tavolato stradale. Il nostro materiale fu ideato con concetti del tutto originali nel 1832 dal tenente Cavalli e subito adottato, e fu il materiale costante del nostro esercito e lo è tuttora colle debite varianti suggerite dall’esperienza di quasi un secolo. La barca dell’equipaggio da ponte italiano ha la caratteristica originale — comune solo coll’esercito austriaco — di essere divisibile; si compone cioè di mezze barche uguali che sì accoppiano poppa a poppa per mezzo di perni di unione e di anelli a bandella. Esistono due tipi di barche di legno presso di noi: quella assegnata alle sezioni da ponte delle compagnie di zappatori del genio al seguito delle divisioni, e quella assegnata agli equipaggi da ponte dei pontieri al seguito di un’armata (fig. 3).
La prima è di dimensioni più piccole — la mezza barca è lunga solo m. 4.88, ha la portata di 4300 kg. e raramente viene usata isolata; — la seconda è più robusta misurando m. 7.50 di lunghezza con una portata di 9400 kg. e viene ordinariamente usata da sé, solo più raramente ricorrendosi all’accoppiamento poppa a poppa che in questo caso è chiamato «a barcone». Esiste infine un terzo tipo di barca divisibile di lamiera di acciaio, di recentissima creazione, che è data in dotazione direttamente alle divisioni di fanteria ed i cui dati — per la mezza barca — sono: lunghezza m. 6.00, peso Kg. 536, portata Kg. 7464. Il cavalletto italiano da equipaggio del vecchio modello è costituito da una banchina da due gambe e da due piedi. (fig. 4).
“Fig. 4. – Il cavalletto da equipaggio italiano a due gambe mobili.”
La banchina è un travetto di legno riquadrato, alle estremità del quale si trova una mortisa destinata al passaggio delle gambe. Queste sono travetti riquadrati di lunghezze variabili da m. 2.50 a 6.00, terminate all’estremo superiore da una testa cilindrica, all’inferiore da una puntazza. I piedi sono pezzi di tavola provvisti di due mortise per il passaggio delle punte delle gambe. Una catena di sospensione finalmente serve a collegare la banchina colla testa delle gambe. Nei tipi più moderni di cavalletto venne modificata la forma della banchina ed il suo modo di sospensione, l’attacco del piede alla gamba, venne introdotta la cosiddetta traversa tubolare, che collega al basso trasversalmente le gambe e ne impedisce l’inflessione laterale, ma sostanzialmente sì conservarono le stesse strutture del vecchio modello. Le barche e i cavalletti costituiscono gli appoggi — galleggianti gli uni, fissi gli altri, — al disopra dei quali si getta il tavolato che forma il piano stradale, costituito da travicelle di legno che si fanno convenientemente posare sui piattibordi di due barche successive o sulle banchine di due cavalletti, e da un piano trasversale di tavole posate sopra le travicelle e tenute in sesto mediante opportuni legamenti detti «randellature» da due travicelle sussidiarie sovrastanti dette di «ghindamento».
“Ponte sull’Isonzo distratto agli austriaci e rifatto dai nostri pontieri del genio.”
Il materiale usato presso gli altri eserciti differisce dal nostro per alcune particolarità specifiche per ogni singola nazione, dipendenti da diversi criteri di ordinamento o da indirizzi tecnici diversi. La più notevole differenza dal nostro materiale è l’adozione quasi esclusiva di barche metalliche presso quasi tutte le nazioni, il che consente una maggior portata utile con un minor peso morto, ovviandosi anche agli inconvenienti di una difettosa tenuta (come si verifica per le barche di legno, allorché siano lasciate in secco per un certo periodo di tempo, nei magazzini o siano in marcia esposte al sole), ed agli oneri di una manutenzione costosa e di un più rapido deperimento; pure non dimenticando però come per le barche di lamiera occorra premunirsi con opportune vernici dall’azione corrodente della ruggine, e riescano assai più difficili le eventuali riparazioni in campagna.
“Fig. 5. – Un ponte girevole.”
Nemmeno per le barche divisibili vi è all’estero una tendenza favorevole: esse sono ritenute più complicate e pesanti malgrado siano meno ingombranti sul carreggio e consentano una maggiore localizzazione del danno in caso di falle e quindi l’esempio nostro e dell’Austria (che ha dei pontoni metallici divisibili dissimmetrici) non trova imitatori tranne che in Russia. Le altre nazioni hanno dei battelli in un sol pezzo lunghi perciò da sette a dieci metri. Maggiore uniformità vi è nel tipo del cavalletto dove domina il tipo di cavalletto Birago di modello quasi simile al nostro e pure contemporaneo al nostro come epoca di creazione. Ne differisce solo il cavalletto belga a tre piedi.
“Fig. 6. – Un ponte scorrevole col suo pontile di accosto.”
Qualche differenza si ha pure nella struttura delle travicelle del tavolato e nel loro modo di impostazione in quanto nei tipi esteri queste non sono per lo più, come le nostre, forate agli estremi in modo da imbracarsi ai piuoli della banchina del cavalletto e del traverso da barca, ma sono di preferenza munite di doppi tacchi coi quali si afferrano senz’altro a cavallo della banchina od al piattobordo della barca. Malgrado i perfezionamenti così apportati alle dotazioni dei singoli eserciti, resta pur sempre evidente come gli equipaggi da ponte non possano da soli supplire a tutte le esigenze di un esercito manovrante oggi giorno specialmente in rapporto anche agli enormi effettivi mobilitati. Ne risulta quindi la necessità di addestrare sempre più le truppe tecniche alla costruzione dei cosiddetti ponti di circostanza coi quali, disponendo del materiale d’occasione che più rapidamente si può aver sottomano — barche del commercio, zattere, palafitte, travate, ecc. — supplire alla mancanza degli equipaggi. Tale necessità si fa particolarmente sentita oggigiorno nelle imprese coloniali che tanta mole di opere pubbliche impongono già durante la prima fase di occupazione militare ed è messa pure in evidenza dagli svariati compiti che anche in tempo di pace sono talvolta affidati all’esercito, allorché specialmente l’opera disciplinata ed abile degli zappatori, dei pontieri, dei ferrovieri del genio è chiamata in occasione di luttuose catastrofi a predisporre provvedimenti di sicurezza, a riattare strade, a rifare ponti travolti dall’irrompere delle piene e dalla violenza dei terremoti. Passiamo ora in rapida rassegna i principali modi coi quali ricorrendo, secondo i casi, a materiali da equipaggio od a materiali di circostanza, si può improvvisare un ponte in guerra.
Ponti a sopporti galleggianti. — Ponti volanti. — In mancanza di ponti continui (su appoggi galleggianti o fissi) il mezzo più semplice per improvvisare un passaggio attraverso un corso d’acqua è costituito da un galleggiante mobile al quale l’impulso per la traversata del fiume alternativamente dall’una all’altra sponda è dato dalla velocità della stessa corrente: si ha così un ponte volante quando il sistema galleggiante è amarrato con un lungo canapo ad un punto fisso (un’ancora od un gabbione) situato a monte, intorno al quale come centro può descrivere un arco di cerchio che va da una riva all’altra, grazie alla componente della corrente perpendicolare al canapo, si ha invece una chiatta quando il galleggiante è vincolato a spostarsi lungo un cavo fisso teso attraverso la corrente al quale è collegato da un canapo scorrevole in un sistema di puleggie. Nell’un caso come nell’altro il galleggiante può essere una semplice barca d’equipaggio o del commercio; si dà però la preferenza ai battelli lunghi, stretti e profondi coi bordi verticali in modo da offrire più facile presa alla corrente. Per aumentare la capacità del mezzo di trasporto il galleggiante si può anche costituire con due barche collegate fra loro a «pontiera» ossia disposte parallelamente l’una all’altra, legate nell’intervallo da due crociere di funi e sorreggenti un tavolato costituito dalle solite travicelle disposte perpendicolarmente ai bordi delle barche e da un ordine di tavole tenute in sito da altre due travicelle dette di ghindamento poste al disopra e legate alle sottostanti mediante randellature. La capacità di trasporto può essere ancora aumentata, o ricorrendo a vere zattere create con materiali di circostanza, per esempio con più ordini di tronchi d’albero, o con opportune combinazioni di materiali da equipaggio.
Ponti di barche. — Un ponte di barche consta di un piano stradale posato sopra dei sopporti galleggianti o barche. Ad esso particolarmente si ricorre quando il fiume largo e profondo non consenta o renda difficile l’adozione di sopporti di altra natura fissi. È evidente come la parte più difficile e delicata del gittamento o del ripiegamento di un simile ponte sia la manovra delle strutture galleggianti particolarmente quando debba compiersi in difficili o pericolose contingenze, con prontezza di decisione e rapidità di esecuzione come richiedono le operazioni militari. Alcuni sistemi classici di manovra sono generalmente usati per la costruzione di un ponte di barche. Il modo più semplice consiste nel guidare ad una ad una le barche sull’asse del ponte attaccandole successivamente alla parte già costrutta, Ciascuna barca viene spinta al largo dalla riva di partenza fino a portarsi in un punto conveniente a monte della sua futura posizione nel ponte, quindi lasciata scendere colla corrente getta a tempo debito l’ancora e segue alla deriva filandone la corda fino a raggiungere il posto assegnatole nel ponte. Allora si gettano sui bordi le travicelle e quindi trasversalmente le tavole che costituiscono il piano stradale (fig. 7).
“Fig. 7. – Gittamento d’un ponte di barche per «barche successive».”
Delle funi traversiere fissate alle prore collegano fra loro le barche mentre la prima e l’ultima sono fissate con amarri alle rive. La stessa manovra può essere impiegata quando l’elemento galleggiante di cui si compone il ponte invece di essere la barca è una «pontiera» ossia, come abbiamo visto, un elemento da ponte preventivamente predisposto mediante la riunione opportunamente combinata di due, ma più spesso ancora di tre barche (fig. 8).
“Fig. 8. – Un ponte di barche eseguito per pontiera.”
Il ponte si compone allora in definitiva di un certo numero di pontiere guidate in posto da monte — come avveniva nel caso precedente delle barche — messa l’una in prosecuzione dell’altra. Il metodo più ardito di composizione del ponte è quello per «conversione», che richiede due periodi distinti di lavoro anche indipendenti. Nel primo si provvede alla preparazione dell’intero ponte lungo la riva di partenza, talora anche lontano dal punto nel quale si intende passare il fiume o su un suo braccio morto. In seguito, fatto scendere il ponte parallelamente alla riva di partenza fino ad avere il suo estremo a valle a circa una quindicina di metri dal punto fissato per la spalla e quivi amarrato opportunamente questo estremo, si fa eseguire all’intero ponte una conversione intorno a questo punto fino a che con la rotazione di un quadrante l’estremità che si trovava a monte venga a toccare la riva opposta. La manovra di conversione si facilita aiutandosi coi remi nelle barche più lontane dal centro di rotazione. Durante la manovra a tempo opportuno si gettano le ancore le quali permettono coll’appoggio delle loro funi di regolare la manovra e di arrestarla a conversione ultimata. L’adozione dell’uno piuttosto che dell’altro dei metodi accennati di gettamento dipende piuttosto da ragioni tattiche che tecniche. Le pontiere sono meglio indicate quando si prevede la necessità di scomporre facilmente il ponte e ricomporlo per dar passo per esempio a numerose galleggianti, barche o per meglio sfogare acque di piena. Riescono sempre utili in un’avanzata offensiva perché le pontiere possono essere preventivamente preparate al coperto in un braccio morto del fiume. Più spedito di tutti (quando non si tenga conto del tempo occorrente alla preliminare preparazione del ponte lungo la riva di partenza) è il metodo per conversione, ma è sempre operazione assai difficile, e costituisce una delle più belle ed impressionanti manovre militari che si possano immaginare. Ricorderemo a questo proposito il famoso ponte di 162 m. sul Danubio gettato alla vigilia di Wagram dagli eserciti napoleonici, la cui manovra non richiese che quattro minuti. Il materiale galleggiante al quale si può ricorrere per la costruzione di un ponte di barche può essere in primo luogo fornito dalle dotazioni delle sezioni da ponte al seguito degli eserciti operanti e quindi barche di legno o di metallo intere o scomponibili di cui già avemmo occasione di occuparci. Colla dotazione di una sezione da ponte delle compagnie di zappatori addette ad una divisione del nostro esercito si può gettare un ponte di barche di 21.00 m. ed impiegando poi come corpi di sostegno le mezze barche si possono eventualmente e con poca corrente costruire passerelle per soli uomini a piedi di lunghezza doppia. Gli equipaggi da ponte per armata provvedono invece all’attraversamento di specchi d’acqua superiori ai 35.00 e 40.00 m. arrivando a m. 296.80. Quando in luogo di ricorrere alle barche di equipaggio si voglia provvedere con materiale di circostanza, i battelli del commercio, di cui sono normalmente forniti tutti i corsi d’acqua importanti, requisiti possono rappresentare una buona risorsa. Un sopporto galleggiante di circostanza può essere ottenuto anche con zattere di tronchi d’albero, di botti, di cassoni stagni, le quali si prestano sopratutto per fiumi a corrente debole, hanno il vantaggio di essere difficilmente colate a picco anche sotto i colpi dell’artiglieria, ma per contro manovrano male alla navigazione e sopratutto costringono il piano stradale ad un livello troppo basso. Per ponticelli di minore importanza fra gli altri sistemi galleggianti può essere ricordata la zattera Habert ora regolamentare nell’esercito francese, costituita da una specie di sacco impermeabile riempito di circa 80 kg. di paglia. Ogni sacco può costituire da solo un sopporto per ponti leggerissimi. Meglio se se ne possano associar due. A tener fermi i galleggianti contro l’urto della corrente occorrono corpi di ritegno convenientemente disposti per attraccarvi le barche per mezzo di funi, come ancore, gabbioni, palafitte. In qualche caso l’ancoraggio invece di essere fatto sul fondo può essere fatto alle rive oppure ad una gomena stessa attraverso il corso d’acqua.
Ponti a travate semplici su sopporti fissi. — Ponti su cavalletti. Cavalletto a duegambe. — Tutte le sezioni da ponte degli eserciti sono dotate, come vedemmo, di cavalletti scomponibili, costituiti essenzialmente di due piedi, di due gambe e di una banchina coi quali si può costituire la più semplice e rapida struttura di appoggio fisso. Il cavalletto non possiede stabilità in senso parallelo alla direzione del ponte, ma a questo si rimedia colla posa in opera dei travicelli dall’impalcato i quali sono: o muniti di tacche per affrancarsi alla banchina, o — come nel nostro armamento — provvisti di opportuni fori da infilarsi sui piuoli di bracatura della banchina. Il cavalletto si pone in opera o facendo entrare gli uomini nell’acqua quando questa è bassa, o calandolo da una barca o da una pontiera. In alcuni casi i cavalletti di equipaggio possono usarsi in unione alle barche per costituire dei ponti misti nei quali le porzioni presso le rive sono su appoggi fissi, le mediane su appoggi galleggianti. Così le nostre sezioni divisionali da ponte possono gettare dei ponti su tre cavalletti e due barche della lunghezza di m. 41.40. Più singolare è l’uso di cavalletti montati entro le barche stesse, coi piedi impostati o sul fondo o su trasverse passate sui piattobordi, ciò che sì fa eccezionalmente allorché convenga sopralzare parzialmente il piano stradale sopra il livello delle acque di più di quanto non lo consenta l’altezza dei fianchi delle barche.
Cavalletto a quattro gambe. — Nei ponti di circostanza raramente si usano cavalletti a due piedi a gambe mobili, ma di preferenza si improvvisano cavalletti rigidi a quattro gambe, quantunque riescano di considerevole peso, poco solidi, di difficile collocamento e con grande presa alla corrente (fig. 9).
“Fig. 9 – Cavalletto a quattro gambe fisse.”
Il loro impiego è limitato a fondali massimi ai m. 2.50 con corrente di velocità inferiore di m. 1.50. Il cavalletto consta essenzialmente di una banchina, quattro gambe, due traverse e quattro saette. Il cavalletto può essere messo in opera a braccia entrando nell’acqua quando la velocità, la profondità e la temperatura lo consentano. Può invece essere avanzato e calato in posto dalla porzione di impalcato già eseguita, oppure mediante una barca o zattera. In ogni caso il ponte viene poi completato colla costruzione del tavolato appoggiandone le travicelle sulle banchine dei cavalletti.
Ponti di palafitte. — Il corpo di sostegno stabile più semplice è la palafitta ossia un insieme di due o più pali infissi verticalmente sul fondo del fiume e coronati in sommità da una banchina sulla quale appoggiano i soliti travicelli del tavolato (fig. 10).
“Fig. 10. – Sostegni a palafitte. In alto: una stilata semplice. In basso: una palificata a due piani.”
Nei ponti militari di palafitte la cui costruzione con materiale di circostanza richiede tempo e mezzi considerevoli conviene adottare impalcate molto lunghe riducendo più che è possibile il numero dei sostegni. Le travicelle del tavolato sono in tal caso numerose e di forti dimensioni e le tavole sono disposte in doppio strato. L’operazione più delicata è quella dell’infissione dei pali, la quale per piccoli pali di 12-15 centimetri di diametro si può fare col maglio a braccia, e per diametri superiori si fa con una berta a tirelle impostata su una impalcatura provvisoria di cavalletti o sopra travi sporgenti a sbalzo della sponda ed opportunamente contrappesate, oppure sopra una portiera.
“Un ponte ultimato.”
Ponti a travate composte. — Non sempre è possibile superare l’ostacolo attraverso il quale si getta il ponte col far reggere il tavolato ordinario a travicelli e tavole da sostegni intermedi galleggianti o fissi dei tipi fin qui descritti. In alcuni casi quando si debbano superare valloni profondi o sostituire travate metalliche od arcate di viadotti di grande altezza occorre improvvisare delle vere e proprie opere di carpenteria, delle travate senza appoggi intermedi oppure con rari appoggi di importanza maggiore delle semplici palafitte o dei cavalletti.
Travi armate. — Quando la portata della luce o delle luci del ponte da improvvisare si tenga intorno ai dieci metri, convengono bene le travi armate e cioè travi longitudinali rinforzate in determinati punti intermedi da opportune armature (fig. 11).
“Fig. 11. – I tipi più comuni di travi armate.”
Tutti i tipi di travi armate ben note all’arte dell’ingegnere possono trovare utile applicazione e cioè travi armate per di sopra o travi armate per di sotto, queste ultime con contraffissi e tiranti oppure con saettoni e sottotravi. Fra i molti esempi che potremmo citare, ricordiamo il ponte di circostanza costruito sul canale Mellana presso il poligono di esercitazione degli zappatori del genio in Casale. Detto ponte consta di due piani: uno superiore per il transito del carreggio, della cavalleria e della fanteria per quattro, l’altro inferiore trasversalmente diviso in due passerelle larghe m. 0.90 circa esclusivamente per il passaggio di truppe a piedi.
Travi a traliccio. — Per corsi d’acqua di larghezze superiori ai quindici o venti metri e quando non convenga porre dei sostegni intermedi non resta che ricorrere alle travi americane od a traliccio e costituite cioè ciascuna trave da due briglie orizzontali distanziate nel senso dell’altezza di circa un decimo della portata e collegate fra loro da un traliccio con tiranti verticali di ferro e diagonali di legno inclinate, oppure con sole diagonali di legno. Di tali travi a traliccio se ne collocano per lo più due ai lati della careggiata appoggiando il tavolato del piano stradale per mezzo di traversoni o sulla briglia superiore o sulla inferiore a seconda che si vuole che il ponte risulti colla careggiata superiore oppure compresa fra le due travi. Uno degli esempi per noi più interessanti è quello del ponte di Bofiaiora sul Ticino (fig. 12).
“Fig. 12. – Il ponte provvisorio eseguito a Boffalora sul Ticino.”
L’armata austriaca nel ritirarsi il mattino del 5 giugno 1859 dal territorio piemontese faceva brillare le mine delle due ultime pile del ponte verso la sponda lombarda dove scorre il filone principale del fiume. Due arcate riuscivano seriamente danneggiate: non però interamente distrutte, talché riattate alla meglio le macerie, l’artiglieria francese poteva la sera dello stesso giorno arrischiarsi sulle rovine. Era però urgente provvedere al passaggio del materiale pesante di assedio che si trovava arrestato sui carri ferroviari dell’altra sponda del Ticino: gli ingegneri delle armate alleate provvidero ad un restauro provvisorio degli archi in muratura con chiavi e rinfranchi su una larghezza limitata di m. 3.65 tanto da dar passo ad un binario. Più tardi si diede mano, con maggior comodo, alla costruzione di una travata tubolare di legname all’americana destinata al contemporaneo servizio della ferrovia e della strada ordinaria. Il ponte fu composto di tre travate della lunghezza complessiva di 80 m. collocato a valle lateralmente all’arco provvisorio di mattoni restaurato. Le travate a traliccio furono eseguite con tiranti di ferro e diagonali di legno: il piano stradale venne impostato in corrispondenza della briglia inferiore e 1’altezza delle travate sì tenne abbastanza grande da consentire l’adozione di controventi superiori. La guerra del 1870 diede occasione a parecchie notevoli costruzioni del genere direttamente eseguite dal genio militare degli eserciti operanti. Un esempio interessante per le serie difficoltà tecniche superate è fornito dal ponte sulla Mosella a Charmes (fig. 13).
“Fig. 13. – Particolari di una travata e di una pila del ponte provvisorio sulla Mosella a Charmes.”
Le sette arcate del ponte lungo complessivamente 130 m. eran tutte crollate avendo i francesi fatto saltare una delle spalle; le pile intermedie sì erano pure completamente abbattute nel fiume. Non restava, per iniziare il rassetto provvisorio della linea, che di spianare e solidificare le macerie con gettate di calcestruzzo approfittando di una magra favorevole e quindi su questo zoccolo di detriti innalzare alla meglio le nuove pile di muratura. Su queste si gettarono poi delle travate a traliccio per il sovrapasso delle luci di circa 13 m. ciascuna. Non fu facile trovare le travi di grossa squadratura (30 X 35 cm.) di conveniente lunghezza per la posa delle briglie che occorse requisire in cantieri lontani fino a trenta chilometri dalla località. Per le diagonali si usarono 2500 m. di traversine ferroviarie: i tiranti di ferro furono forniti dalle sotto strutture delle vetture di un treno ferroviario che i francesi avevano incendiato a Remiremont. Un altro ardito esempio è fornito dal viadotto di Xertigny, alto ben 37 m. sul pelo d’acqua. Delle nove imponenti arcate murarie una mina brillata in una pila aveva fatto cadere le due immediamente adiacenti alla pila ed una terza in prosecuzione. Il pilastro crollato fu sostituito in tutta la sua altezza con una stilata piramidale di legname impostata alla base su uno zoccolo di circa 13 m. rifatto di muratura. Con una trave a traliccio si superarono le luci e per maggior sicurezza date le condizioni eccezionali in cui fu eseguito il lavoro si volle garantire un eccesso di resistenza coll’aggiunta di saettoni al disotto alla briglia inferiore. Una delle difficoltà gravi nella costruzione delle grandi strutture di circostanza a traliccio sta nel varamento del ponte. Una delle soluzioni preferite è quella che consiste nel varare il ponte, montato in precedenza su una delle rive coll’aiuto di due funi metalliche tese attraverso l’ostacolo. L’operazione riesce facilitata facendo scorrere la travata sopra robusti rulli.
Ponti Tarron. — Le difficoltà che abbiamo visto manifestarsi nella improvvisazione di un ponte, allorché per l’impossibilità di stabilire dei sopporti abbastanza vicini si debba ricorrere a travi di considerevole portata, suggeriscono naturalmente l’idea di predisporre le dotazioni ai parchi del genio di materiale opportunamente combinato e disposto, atto alla formazione di ponti di grande mole. Un tentativo recente, ingegnoso, suscettibile di rendere grandi servizi anche per portate fino a una cinquantina di metri è il ponte Tarron, così noto dal nome del suo ideatore, ufficiale nel genio francese, proposto fin dal 1900 e sperimentato con successo. Il ponte si compone di membrature di legno quadrate o no, collegate fra loro a snodo, e riunite da tiranti di grosso filo di ferro. Gli elementi del ponte sono le due travi di sponda ed il tavolato che si imposta sulle membrature inferiori. La caratteristica del sistema sta nella costruzione delle travi maestre, la cui linea di contorno superiore è costituita da membrature di legno congiunte a snodo, mentre questi nodi sono riuniti al punto di mezzo della membratura inferiore per mezzo di tiranti di ferro. La membratura inferiore è pure di legno. Due travi di questo tipo, controventate nei riquadri superiori da croci di S. Andrea e da traversi, che servono al tempo stesso come caviglie pel collegamento a snodo degli elementi delle travi, e controventate pure nella parte orizzontale inferiore dallo stesso tavolato del piano stradale, costituiscono gli elementi di un ponte della portata di 49 o 45 metri. Per superare portate maggiori si usano travate un po’ più complesse ma ancora ideate collo stesso principio. Il ponte Tarron è suscettibile di essere costruito preventivamente sulla riva con facile collegamento delle sue membrature giù opportunamente predisposte e può essere lanciato a partire da una sponda senza che sia necessario di accedere alla sponda opposta, per semplice traslazione, quando se ne sia assicurato l’equilibrio al varamento mediante una conveniente contrappesatura alle spalle (fig. 14).
“Fig. 14. – Lanciamento di un ponte Tarron mediante contrappeso.”
La montatura si può fare anche senza contrappeso quando però sì possa preventivamente accedere alla riva opposta, ricorrendo allora ad un cavo teso attraverso il corso d’acqua da una riva all’altra su due piloni di legno con robusti amarri.
Ponti sospesi. — I ponti nei quali il piano stradale è portato da sistemi di funi gettate attraverso l’ostacolo da superare non sono usati che eccezionalmente nelle costruzioni di carattere militare. Ai noti inconvenienti di una costruzione lunga e delicata, di una assoluta mancanza di rigidità, ancor più penosa in costruzioni forzatamente leggiere e soggette a forti pesi, si aggiunge in guerra il grave danno che un solo proiettile nemico ben piazzato nel cavo di sospensione può determinare l’istantaneo crollo dell’opera.
“Ponte sull’Judrio a Visinale costruito dal nostro genio.”
I ponti sospesi sono costituiti da sistemi di funi ancorate sulle rive i quali sostengono il tavolato dell’impalcata o direttamente facendo posare per traverso le tavole sulle funi; oppure mediante l’interposizione di cavalletti fra i cavi e il tavolato stradale. Non sono di pratica applicazione nelle costruzioni militari i ponti sospesi a via inferiore ossia quelli nei quali il piano stradale è sospeso mediante tiranti alle funi metalliche, dei quali quindi non tratteremo.
“Fig. 15. – Ponte sospeso su cavi e cavalletti.”
I cavi portanti in massima sono di acciaio o di ferro con trefoli di fili avvolti su un’anima di canapa. I capisaldi cui vengono fissate le funi sono costituiti da sistemi di palafitte a ritegno di dormienti di legno forte ai quali sono avvolte le funi. Se le sponde sono rocciose le funi si possono fissare a paletti di ferro infissi in fori praticati nella roccia. Con questi tipi di ponte molto utili in località montuose e valli scoscese, sì superano facilmente portate di 20 o 25 m., eccezionalmente però si possono raggiuncere anche i 50 m.
Ponti metallici. — La necessità di assicurare ad ogni costo la continuità del transito anche per i maggiori carichi sulle grandi arterie stradali e ferroviarie a recidere le quali si appuntano in primo luogo i tentativi aperti o subdoli del nemico, l’impossibilità di provvedervi cogli ordinari mezzi di equipaggio e la grande difficoltà e la lentezza di rimediarvi con mezzi di fortuna fecero comprendere nell’ultimo quarto di secolo scorso la assoluta convenienza di ricorrere al materiale metallico per creare delle strutture preventivamente combinate, smontabili, suscettibili di essere rapidamente trasportate, montate e lanciate dal genio militare ed offrenti quelle condizioni rigorose di solidità — ben superiori a quelle delle opere fin qui esaminate — che sono indispensabili sopratutto al transito ferroviario. Si tratta sempre di strutture a traliccio smontabili, cioè costituite da elementi predisposti da combinarsi facilmente a piè d’opera mediante bulloni a vite, alcune composte di pezzi di piccola mole e cioè o barre rettilinee o pannelli triangolari o quadrangolari corrispondenti rispettivamente alle barre od ai pannelli elementari del traliccio, altre invece formate di pezzi di maggior mole, da interi tronchi di ponte completamente finiti coi relativi traversi e semplicemente da attaccarsi l’uno in prosecuzione dell’altro. Fra gli esempi che particolarmente ci interessano è il notissimo ponte scomponibile Eiffel che costituisce materiale di dotazione regolamentare del nostro esercito (figg. 16 e 17).
“Fig. 16. – Gli elementi di una travata smontabile Eiffel.”
“Fig. 17. – Sezione trasversale di un ponte Eiffel.”
Gli elementi principali di una travata Eiffel sono dei pannelli triangolari e delle barre rettilinee. I primi sono dei triangoli isosceli (costituiti da angolari riuniti da piastre) colla base lunga 6.00m., l’altezza m. 1.56 e rinforzati da un ritto verticale che unisce il vertice colla base. Il peso di un elemento e di 145 Kg. Gli elementi rettilinei sono delle aste di collegamento costituite da un angolare lungo m. 0.60 destinati a completare i pannelli della travata. Mediante questi due soli tipi di elementi si costituisce il traliccio. Si dispongono a tale scopo gli elementi triangolari, di fila nel senso della lunghezza, l’uno di seguito all’altro e colla base orizzontale in alto e collegati fra loro per gli estremi della base. Si introducono poi fra i vertici inferiori (distanti fra loro 6 m.) di questa serie di triangoli le «aste di collegamento» fissandovele e si ha così il primo schema di triangolazione semplice. Se a tergo di questa struttura se ne addossa convenientemente una seconda in tutto simile ma spostata rispetto alla prima di un mezzo elemento, si ottiene finalmente una vera e propria travata a traliccio. Alle due estremità della travata per completarla ed appoggiarla alle sponde si dispongono due «mezzi elementi» costituiti da una parte a forma di piccolo triangolo che si appoggia col cateto minore sulle sponde e di una parte in tutto simile ad un mezzo elemento triangolare che si attacca all’elemento triangolare ed all’asta di collegamento precedente. Tutte le giunzioni delle parti del traliccio sì effettuano mediante una chiavarda da 35 mm. Due travi a traliccio così costituite poste ad un interasse di 3.00 m. formano le travi maestre del ponte. Il piano stradale è portato da traversi a I lunghi m. 4.10 che appoggiano sulle piastre di collegamento dei vertici inferiori e si attaccano ai ritti degli elementi delle travate e sporgono da questa di m. 0.55 per parte. I traversi servono a portare le lungherine che ad essi si posano per mezzo di ordinarie squadre chiavardate, e nella parte a sbalzo esterna dalle travi maestre sono collegati a queste con saette d’unione inclinate. Il peso di un traverso è di 122 Kg. Il tavolato consta di tavoloni di larice i quali sono tenuti in sesto da travicelli di ghindamento disposti sui lati in modo da lasciare una carreggiata libera di m. 2.20 e fissati con cantonali e viti al tavolato. Col materiale in uso presso il nostro esercito si possono gettare ponti carettieri fino a m. 22.20 di lunghezza, il cui peso complessivo è di circa 9600 chilogrammi, di cui 3700 dovuti al tavolato. L’attrezzatura di un ponte Eiffel si completa poi del cosiddetto «rostro» ossia di una struttura sussidiaria che serve per il solo lanciamento del ponte. Il rostro non altro che un prolungamento delle travate del ponte costituito in modo analogo a queste con un elemento rettangolare ed uno triangolare. L’esecuzione del ponte si inizia sulla riva di partenza colla composizione del piano stradale, col collegamento dei traversi, delle lungherine, dei tiranti di crociera. Ai due lati si rizzano quindi le travi maestre e finalmente a queste si fissa con chiavarde provvisorie il rostro. Disposte quindi sul piano di avanzamento in corrispondenza delle lungherine centrali, opportune coppie di rotelle di scorrimento si vara il ponte facendolo muovere a braccia da una squadra di 16 uomini. In una parte della manovra e cioè prima che il rostro abbia raggiunta la sponda opposta è necessario zavorrare con un contrappeso la coda del ponte (fig. 18).
“Fig. 18. – Il varamento din un ponte Eiffel.”
Oltre il tipo descritto numerosi altri tipi di ponti Eiffel, differenti solo per le dimensioni degli elementi, si sono prestati alle esigenze più varie, tanto per strade ordinarie, quanto per strade ferrate. Ricorderemo fra tutti quelli nei quali la disposizione degli attacchi permette anche un ordinamento ad elementi sovrapposti al vertice, mediante i quali — e con elementi a triangoli isosceli di 6.00 m. di base per 3.00 di altezza — si possono creare delle travate della portata di 45.00 m., dell’altezza di m. 5.90 a traliccio quadruplo e la cui importanza è notevole per lavori ferroviari eccezionali, prestandosi tanto come materiale di dotazione delle grandi reti ferroviarie quanto dei riparti del genio militare. Di ponti di questa portata è appunto fornito il reggimento di ferrovieri del nostro esercito. In ordine cronologico se non nel successo ha la precedenza sui ponti Eiffel un altro tipo: di ponte smontabile proposto dall’italiano ing. Alfredo Cottrau, fin dal 1876 ed in seguito perfezionato e noto sotto il nome di «Ponte politetragonale», nel quale in luogo di elementi triangolari si hanno elementi rettangolari da collegarsi fra loro mediante coprigiunti e chiavarde. I medesimi pannelli rettangolari servono per la formazione dei traversi, attaccandosi all’ala interna dei ritti. Ne deriva una grande omogeneità di elementi (fig. 19).
“Fig. 19. – L’elemento rettangolare di una travata Cottrau.”
I pannelli possono anche prestarsi alla formazione di pile metalliche. Nell’esercito francese il tipo di ponte ferroviario smontabile a piccoli elementi adottato è quello del Capitano Henry nel quale gli elementi. costruttivi sono invece tutti rettilinei (fig. 20).
“Fig. 20. – Gli schemi costruttivi ed i particolari di un ponte Henry.”
Esistono di questo ponte due tipi fissi: quello per la portata di 30.00 m. e quello per la portata di 45.00 m. La briglia superiore è costituita da due ferri a doppio T appaiati e riuniti sulle ali da un traliccio, e pure da due ferri a doppio T accostati è costituita la briglia inferiore. I montanti, sono costituiti e disposti a due ferri a C dorso a dorso, distanziati e collegati a tralicci o sulle ali, e si afferrano cogli estremi a forcella alle briglie dove sono fissati con chiavarde. La medesima composizione vale per le diagonali. Il collegamento delle diagonali alle briglie avviene sempre mediante chiavarde a piastroni sporgenti ai nodi. Gli attacchi fra i tronchi di briglia avvengono per incastro a maschio e femmina. I traversi lunghi m. 4.00 sono a traliccio e fissati al piede dei montanti. Il ponte si completa poi colle lungherine, le rotaie su traversine ed i controventi inferiori e superiori. Il ponte di 45 m. si ottiene mediante sovrapposizione in senso verticale dei due tralicci da ponte di 39 m. evidentemente colla soppressione di quelle parti di briglia che richiederebbero a contatto sul piano di simmetria orizzontale. Il ponte viene montato sulla riva e quindi varato senza sussidio di avambecchi, mediante opportuni contrappesi nei modi già visti. Pure ad elementi tutti rettilinei è il ponte smontabile studiato dall’ufficiale russo conte Brochocki (1889), a travate a traliccio simmetrico articolate al nodi, il cui peso non oltrepassa per la parte metallica gli 8600 Kg. per un sovrapasso carreggiabile di m. 32.00 e i 4600 Kg, per uno di 20 m. e che con tralicci doppi può reggere anche al transito ferroviario per locomotive con assi da sole 8 tonn. (fig. 21).
“Fig. 21. – Lo schema costruttivo ed i particolari di un ponte Brococki.”
Le briglie e le diagonali del traliccio sono travi a C dorso a dorso di 4.00 m. di lunghezza, rinforzate nella parte centrale coll’aggiunta di piattabande e con opportune teste forate agli estremi. I traversi sono terminati da teste cilindriche che servono senz’altro da chiavarde pei nodi della briglia inferiore. Dispositivo simile hanno i traversi di controvento superiori. Le lungherine sono travi a I sovrapposti ai traversi e le diagonali di controvento sono di tondino provvisto di tenditori. In tutti i casi finora ricordati il piano stradale è sempre retto da due sole travi maestre o laterali o inferiori. Per diminuire il peso unitario delle travi e quindi consentire l’adozione di elementi di maggiore lunghezza si è in qualche caso pensato di aumentare il numero delle travi maestre portandole per esempio a quattro, naturalmente sottoposte al piano stradale. Allo studio di dispositivi di questo genere hanno contribuito validamente anche gli ufficiali del nostro esercito di cui ci piace ricordare alcune proposte. Portato da quattro travi maestre a traliccio è per esempio il ponte proposto dal Capitano Spaccamela (1889). Ogni trave maestra della lunghezza totale di 28 m. è composta di quattro tronchi da m. 7.00 ciascuno, formati da due briglie a T distanti m. 1.00 collegate da un traliccio di ferro a U. Il peso di un elemento è di circa 175 Kg. I collegamenti in senso longitudinale degli elementi sono costituiti da doppie piastre alte m. 0.983 e larghe in media 0,35. Alla medesima disposizione a travi multiple si attiene in una sua proposta di ponte il Capitano Maggiorotti (1901), ma ne perfezionò i particolari ispirandosi ad alcune importanti considerazioni teoriche e pratiche, per le quali abbandonando il concetto della semplice trave a traliccio pensò ricorrere alle travi armate tipi Fink, Petit, Pratt ecc. — come già avevano tentato per l’addietro gli ufficiali spagnoli Marvà e Mever ricorrendo invece ai tipi Bollmann — e studiò quattro tipi di ponti per luci di m.6.00, 12.00, 18.00, 24.00, atti a dar passaggio all’ordinario carreggio militare, oppure a costituire una passerella di 36 m. per due file di soldati e per artiglierie trainate a braccia, od infine atti a costituire un ponte rinforzato per carri da 5000 Kg. (fig. 22).
“Fig. 22. – Il ponte Maggiorotti.”
Il ponte è costituito da un tavolato e da quattro travi maestre metalliche sottoposte direttamente al tavolato. Ciascuna di queste è composta di elementi lunghi 6.00 m. pesanti 96 Kg. aventi sezione a doppio T composta di briglie a T riunite da traliccio di angolari. Le estremità di ogni elemento sono rinforzate on piastre e montanti per facilitare il collegamento fra due elementi adiacenti mediante sei chiavardette. Ciascuna trave è poi armata per di sotto da colonnini metallici in corrispondenza delle giunzioni dei tronchi e da tiranti, e precisamente per la trave di 24 m. si hanno tre colonnini e sei tiranti, per quella da 18 m. due colonnini e tre tiranti, per quella da 12 m. un colonnino e due tiranti. La manovra del lanciamento del ponte dipende dalle condizioni delle sponde. Se il fiume è navigabile e non troppo incassato, generalmente le travi si compongono ad una ad una sulla riva, quindi appoggiatone un estremo su una barca si spinge questa verso l’ altra riva fino a permettere di impostarvi l’estremo della travata. Se le sponde sono piane si può varare il ponte nei modi noti. Gli esempi di ponti scomponibili «a grandi elementi» e cioè costituiti da tronchi giù preventivamente formati da due porzioni composte di travi maestre coi relativi traversi, capaci di facile collegamento, sono più rari. Di queste, classico è il ponte Marcille atto al transito ferroviario e costituito da tanti tronchi composti dalle due travi maestre a parete piena rinforzata da montanti distanziate di m. 1.52 fra gli assi, riunite fra loro da riquadri di collegamento e munite di piastre traversali di attacco agli estremi di ciascun tronco (fig. 23).
“Fig. 23. – I particolari di un ponte Marcille.”
Le piastre di due tronchi consecutivi accostati si uniscono con bullonature rinforzandosi la connessione con coprigiunti disposti sulle briglie delle travi maestre. Ogni tronco si completa delle relative porzioni di binario. Il ponte si applica normalmente a quattro portate fisse rispettivamente di 10 – 20 – 30 e 45 metri. I tronchi costituenti il ponte hanno, secondo le portate ed i tipi, lunghezze da m. 2.50 a m. 10. Il ponte Marcille viene posto in opera per varamento in falso mediante l’applicazione provvisoria di un avambecco e la contrappesatura della coda. I tronchi, compreso quello di avambecco, condotti in posto per ferrovia e scaricati per mezzo di una grue, muniti di rulli fissati alla briglia inferiore, vengono spinti l’uno in coda all’altro, quindi giustapposti testa contro testa vengono bullonati per mezzo delle piastre trasversali estreme di attacco. Completate le giunzioni il ponte viene fatto posare su rulli di varamento, coi quali vien spinto in posto.”
Citazioni, spunti, segnalazioni, immagini e articoli per stimolare la curiosità e la voglia di approfondire.